#TBUtalsaboutTRIVELLE prosegue il giro di interviste in merito al Referendum abrogativo del 17 aprile con Andrea Boraschi, responsabile della campagna Energia e Clima di Greenpeace Italia. Abbiamo cercato di non insistere troppo sul posizionamento politico rispetto al referendum (Greenpeace è schierata con il Sì, ndr), quanto piuttosto di chiarire alcuni aspetti controversi, talvolta sbandierati dalle parti in causa senza alcuna spiegazione esaustiva.
Una delle obiezioni che viene mossa alla vostra battaglia contro le trivelle è relativa al fatto che se l’Italia smettesse di estrarre idrocarburi, la Croazia potrebbe continuare e saremmo comunque esposti ai rischi di disastro ambientale (comunque, per dovere di cronaca, va detto che, in caso di vittoria del sì, sarà vietato il rinnovo delle concessioni, ma l’attività di estrazione non si fermerà). Inoltre, tramite il sistema di trivellazione obliqua, volendo, la Croazia potrebbe arrivare ai giacimenti italiani. Per cui dopo il danno, la beffa. Come vi ponete rispetto a questa possibile conseguenza?
Si tratta di una critica falsa. In Croazia si è battuta per circa due anni la strada dell’upstream nei mari; il governo di Zagabria voleva trasformare il Paese in una Norvegia mediterranea, arrivando a esportare significative quantità di idrocarburi. Il risultato è che di quei piani di sfruttamento oggi non rimane nulla. Il governo aveva assegnato 10 lotti di estrazione per i quali le compagnie non hanno mai firmato i relativi contratti, riconsegnando alle autorità i diritti di prelazione per ben 7 di quei lotti. Lo scorso gennaio il nuovo primo ministro Oreskovic ha promosso una moratoria per i piani di estrazione in mare. Tutto fermo, in Croazia non si muove una sola trivella.
Visto che l’Italia non può diventare energeticamente autosufficiente da un giorno all’altro, utilizzando solo fonti alternative, e considerando che la rinuncia agli idrocarburi nostrani implicherebbe un aumento delle importazioni, è davvero più sostenibile importare che sfruttare i giacimenti che l’Italia ha a disposizione?
Le piattaforme oggetto del quesito referendario producono tra il 2 e il 3% del gas che l’Italia consuma annualmente e lo 0,8% dei consumi annui nazionali di petrolio. A queste quantità irrisorie, a seguito di una vittoria del Sì, non si rinuncerebbe di colpo, ma nel giro di 10 anni circa. In Italia i consumi di quelle due fonti sono in calo costante: negli ultimi 10 anni si è consumato il 33% in meno di petrolio e il 22% in meno di gas. Il deficit energetico (se così lo si può definire) che produrrebbe la vittoria del Sì sarà con tutta probabilità riassorbito in questo trend di contrazione dei consumi. O potrà essere compensato con incrementi minimi di rinnovabili, efficienza energetica, elettrificazione dei consumi.

Sembra da più parti riconosciuto che il gas sia la forma ottimale di transizione verso le energie, date le tecnologie che abbiamo attualmente a disposizione. Non è un azzardo fare una battaglia contro tale fonte energetica?
Il gas non è una fonte “pulita”. È, semmai, la meno climalterante e inquinante tra le fossili. Poi di ogni fonte e tecnologia si può fare un buon uso o un pessimo uso. I piani di monitoraggio delle piattaforme a gas presenti nei nostri mari ci dicono che 3 volte su 4 quegli impianti non riescono ad operare entro i parametri di qualità ambientale assegnati loro dalle normative. Dunque producono pochissimo e inquinano molto.
Un’altra obiezione è relativa alla riconversione degli impianti una volta chiusi. Dal fronte del No viene detto che si rischia di far fare alle “trivelle” la stessa fine degli impianti nucleari dopo il referendum del 1987. Qual è il vostro piano in proposito? Inoltre, non credete che il referendum possa essere parzialmente bypassato, come nel caso del quesito sull’acqua pubblica?
Non è che deve avere un piano. Sono le compagnie, in virtù delle normative che regolano il settore minerario, a dover smantellare e de-commissionare quegli impianti. Il tutto, con il nucleare, non c’entra assolutamente nulla. Per come è configurato il referendum, ovvero per dettato su cui insiste in questo caso il meccanismo abrogativo, è improbabile che il voto popolare possa essere aggirato in questa circostanza.
Non pensate che l’attività di estrazioni degli idrocarburi possa rappresentare un business anche per il sistema paese in termini di posti di lavoro e royalties? Tenendo conto degli aspetti di politica ambientale, è davvero economico rinunciare all’estrazione degli idrocarburi?
In Italia si pagano le royalties più basse al mondo, appena il 7%. Tre quarti delle piattaforme oggetto del quesito referendario produce sotto franchigia (o non produce affatto): vuol dire che quegli impianti non versano un centesimo nelle casse pubbliche. Rinunciare a quegli impianti è strategico nella misura in cui costringerà il governo – per pressione politica – a tornare a puntare sulle rinnovabili e sull’efficienza, settori del tutto svantaggiati negli ultimi due anni.
Quale è la sua opinione sulla formulazione del quesito referendario? Crede che un risultato di qualunque genere possa avere effetti determinanti e sostanziali sulla nostra economia e politica ambientale?
Credo che il merito del quesito sia tutto fuorché irrilevante. Consentirà di dare una scadenza certa a 88 impianti vecchi, improduttivi e inquinanti posti proprio dinanzi alle nostre coste. Il portato politico, poi, è ben più ampio. È un’occasione per richiamare il Paese ai suoi obblighi, contratti anche in sede internazionale, per la salvaguardia del clima; e per spingere l’Italia a conquistarsi finalmente un po’ di indipendenza energetica. Le rinnovabili e l’efficienza, in questo senso, sono la sola ed unica strada che abbiamo dinanzi.
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