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Da Aylan ad Alaa: quando una fotografia cambia la storia

La spiaggia di Bodrum, Turchia. Le onde che si infrangono sul bagnasciuga, un bambino riverso a pancia in giù. Pantaloni blu, maglietta rossa. Sembra che stia dormendo, invece è l’ennesima vittima del mare, l’ennesima persona a perdere la vita tra la Turchia e la Grecia nel disperato tentativo di scappare dalla guerra. Aylan Kurdi. Quel bambino ha un nome, e lo conosciamo tutti.

Era lo scorso settembre e la fotografia di Aylan su quella spiaggia, scattata dal giornalista turco Nilufer Demir, ha velocemente fatto il giro del mondo. Da Twitter alle prime pagine di quasi tutti i principali quotidiani europei, la fotografia è diventata presto iconica rappresentazione dell’atrocità della crisi dei rifugiati siriani in maniera istantanea e diretta. L’impatto visivo con quella fotografia ha travolto la società civile che, mai come nelle settimane successive, si è mobilitata per rispondere a questa crisi. L’impatto e la diffusione dell’immagine di Aylan sono stati analizzati da Visual Social Media Lab nel report The iconic image on social media: a rapid research response to the death of Aylan Kurdi presentato al Festival Internazionale del Giornalismo di Perugia da Farida Viz e Francesco D’Orazio (qui è possibile trovare il video dell’incontro). Ciò che colpisce dell’analisi è la velocità con cui una sola immagine è stata capace di valicare i confini e raggiungere una platea vastissima. Se il primo giorno dopo la pubblicazione dominava le conversazioni su Twitter, il secondo giorno ha conquistato uno spazio notevole nel settore delle news tradizionali.

Se ne parla, eccome se se ne parla. In Italia, è La Stampa di Mario Calabresi a decidere di aprire l’edizione cartacea del quotidiano con l’immagine di Aylan. Calabresi, interpellato a Tutta la città ne parla su Radio 3, spiega così la scelta: “Questa è la realtà, guardiamola in faccia. Non ho imbarazzi a dire che dobbiamo essere capaci anche di fare dei discorsi e delle distinzioni. (…) Non possiamo dire a chi scappa “No, non è opportuno, aspetta, prendi il numerino”, di questa cosa ci dobbiamo far carico.” Se il primo effetto della pubblicazione della fotografia è l’impatto sulle coscienze determinato dalla sua viralità, il secondo è un cambiamento significativo nel vocabolario sui social media.

migrants or refugees

Come sottolineato da D’Orazio, la parola “rifugiati” sostituisce in maniera significativa “migranti” in tweet e post. Il fatto stesso che non si parlasse più soltanto di un bambino generico sulla spiaggia, ma di Aylan Kurdi, della sua famiglia, della sua storia, ha contribuito in maniera concreta alla rappresentazione della, così chiamata, “crisi dei rifugiati”. L’immagine dà forma alla cognizione del problema, impattando anche sull’agenda politica. “L’impressione era che, per la prima volta, fosse possibile osservare le conseguenze delle guerre – commenta Carlotta Sami, portavoce di UNHCR Italia -, l’Europa non si poteva più considerare lontana.” Eppure, proprio l’Agenzia ONU per i rifugiati ha scelto di non utilizzare quell’immagine poiché lesiva della dignità di Aylan, rappresentato inerme.

Il cambiamento di tono e linguaggio sui social media, in fondo, non ha impedito a decine di altri bambini di perdere la vita nello stesso stretto tratto di mare. Secondo i dati più recenti diffusi da UNHCR, due bambini migranti muoiono ogni giorni nell’Egeo. Inoltre, non sono mutate le politiche comunitarie né quelle dei singoli paesi dell’Unione Europea: dai muri innalzati sulla rotta balcanica al recente accordo con la Turchia, l’obiettivo dei provvedimenti è respingere invece di proteggere.

Dobbiamo forse rivalutare l’importanza di un’immagine che diventa virale ed iconica? Al contrario, è fondamentale riconoscere quanto una sola immagine è capace e responsabile di un mutamento e, con il fine di raggiungere obiettivi di sensibilizzazione e mobilitazione, essere consapevoli del suo potere. Alaa Arsheed è un violinista siriano, ha lasciato il suo paese e la sua famiglia alcuni anni fa alla volta del Libano. Lì, dove è accolto più di un milione di siriani, continuava a suonare il suo violino. Un giorno come un altro, arriva una telefonata: “Hey Alaa, vieni qui, sono con un regista italiano (Alessandro Gassmann, ndr) e l’UNHCR, stanno girando un documentario sugli artisti siriani. Vieni a suonare!”. Click.

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L’incontro tra Alessandro Gassmann e Alaa a Beirut, Libano

La fotografia di Alaa che suona per Gassmann è online. Viene notata dalla Fondazione Fabrica che offre al violinista una borsa di studio di tre mesi per proseguire i suoi studi in Italia. La borsa di studio, insieme con la garanzia dell’UNHCR, è sufficiente per permettere al ragazzo di arrivare in Italia in maniera legale e sicura. Oggi Alaa è un rifugiato, abita in Veneto, ha ricominciato a vivere nonostante la sua famiglia sia lontana e ancora in pericolo. “Mi manca la mamma”, ammette candidamente nella Sala dei Notari di Perugia a margine della proiezione di Torn il documentario realizzato da Alessandro Gassmann in Libano lo scorso inverno, “Mi manca la mia famiglia, ma sono felice, felice e grato”. La sua felicità, la sua emozione sono così genuine, l’entusiasmo così fanciullesco. E’ bastata una fotografia, scattata ad una persona viva, mentre suonava il suo strumento e faceva esattamente ciò che sa fare meglio. Da una fotografia alla protezione. Così semplice da sembrare irreale.

Abbiamo chiesto direttamente a Carlotta Sami se forse vale di più un’immagine semplice e viva che raggiunge un pubblico ristretto, ma pronto ad agire come quella di Alaa Arsheed, rispetto all’impatto fortissimo scuoti-coscienze del corpo di Aylan, riverso sulla spiaggia di Bodrum e ripreso da tutti i giornali.

La foto di Alaa e Alessandro raccontava un momento in cui un rifugiato incontrava un’artista molto famoso nel nostro paese. Ha avuto questo effetto che non credevamo nemmeno possibile. Speriamo che questo esempio venga raccolto da altri. Abbiamo decine di fondazioni, università e persone che potrebbero raccogliere questo esempio.

Aylan ed Alaa non potrebbero essere più distanti, tuttavia le loro storie si intrecciano e si incontrano nel momento in cui è l’immagine, la fotografia a permettere loro di uscire dalla massa dei “rifugiati” e trasformarsi, improvvisamente, in persone. D’altronde, spesso sfugge che la crisi è tale per i rifugiati, non per l’Europa e che loro non sono altro che semplici persone in fuga da una guerra terribile. C’è davvero bisogno di un’immagine di un bambino di tre anni morto su una spiaggia per rendersene conto?

Angela Caporale

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