#TBUTalksaboutTRIVELLE continua questa settimana con una intervista al centro ricerche RIE – Ricerche Industriali ed Energetiche. Il centro ricerche è stato fondato nel 1983 a Bologna, con l’obiettivo di comprendere i settori e i sistemi energetici ed ambientali e le dinamiche ad essi correlate
Una ipotetica vittoria del SI al referendum, a detta di chi sostiene questa argomentazione, potrebbe conferire all’Italia un certo vantaggio e prestigio politico da utilizzare in sede di contrattazione su argomenti climatici ed energetici. Cosa ne pensate a riguardo?
I cambiamenti climatici sono un tema di portata globale ed in quanto tale non può essere risolto da iniziative individuali ma necessita della concertazione delle principali economie e dei principali inquinatori del pianeta. L’Europa è senz’altro uno di questi e, nonostante la sua quota sui consumi energetici mondiali sia in progressivo calo, è il principale promotore di una cooperazione internazionale in materia ambientale basata sul conseguimento di ambiziosi obiettivi vincolanti. L’Italia è in prima linea nella lotta ai cambiamenti climatici, in quanto parte dell’Europa, ma anche all’interno dell’Europa stessa. La penetrazione delle rinnovabili nel suo mix energetico ha raggiunto già dal 2014 il 17,1% dei consumi finali ottemperando con ampio anticipo agli obiettivi del pacchetto 20-20-20 dell’Unione Europea – tra i più ambizioni target in materia a livello mondiale. Che il referendum in questione possa produrre un qualche effetto sul peso dell’Italia nei tavoli negoziali internazionali ci pare un’interpretazione eccessivamente ampia della rilevanza, anche simbolica, del quesito in esame.
Una ipotetica vittoria del SI al referendum potrebbe essere intesa come una chiara affermazione popolare in materia di risorse energetiche tale da far ripensare il piano industriale nazionale?
La proposta referendaria ha già sortito un effetto negativo sul comparto petrolifero e industriale italiano. Da una parte, il governo ha infatti già integrato nell’ultima legge di stabilità 5 dei 6 quesiti avanzati, tra cui il divieto di nuove concessioni a mare entro il limite delle 12 miglia marine (con la conseguente impossibilità di estrarre un volume non irrilevante di risorse certe presenti). Dall’altra, è cresciuto il rischio paese dell’Italia a causa dell’incertezza politico-normativa intrinseca in questo genere di consultazioni. Di fatto, gli investitori si sono già dati alla fuga, con gli investimenti programmati in ricerca e produzione di petrolio e gas passati da 16,2 miliardi di euro nell’ottobre 2014 a 5,8 un mese fa. La vittoria del Sì recherebbe un’ulteriore grave danno a diversi comparti industriali, in primis quello altamente tecnologico, specializzato e internazionalizzato che fornisce beni e servizi all’industria O&G che, con poli d’eccellenza circoscritti in determinate aree del paese (Ravenna, Parma-Piacenza, Chieti-Ortona, etc.) principalmente orientati verso i mercati esteri, già soffre la sfavorevole congiuntura internazionale dovuta ai bassi prezzi del petrolio.

Estrarre risorse prime dal suolo ha un costo, importarne da paesi limitrofi o distanti ne ha un altro. Il fabbisogno energetico italiano è altamente superiore alle risorse che sappiamo essere custodite nei nostri mari. Alla luce di queste considerazioni, quanto costa estrarre gas e petrolio con la trivellazione? E quanto costa invece importarlo? Siamo sicuri che l’estrazione sia una attività economica?
Le imprese che investono nella ricerca di petrolio e gas sostanzialmente devono tenere in considerazione due variabili principali: il prezzo internazionale del greggio e il rischio politico-normativo dei paesi in cui vanno ad operare. Per questa ragione può arrivare ad essere conveniente estrarre petrolio in remote e complicate aree dell’Artico, anziché in altre geologicamente molto più semplici del Nord Africa e del Medio Oriente. In Italia, l’interesse mostrato in questi anni dalle compagnie ad investire capitali privati nel settore era riprova della rimuneratività dell’attività su basi sia dei prezzi internazionali che del rischio paese. Il fatto che abbiano iniziato a darsela a gambe levate è effetto sia del deterioramento del quadro petrolifero internazionale, ma anche e soprattutto di quello regolatorio interno, come ha dato ad intendere Shell il mese scorso al momento della rinuncia del suo investimento da 2 miliardi di euro nel Mar Ionio. Riguardo ai costi di estrazione e di importazione, è necessario precisare che i due possono riguardare compagnie differenti con obiettivi differenti (per quanto alcune compagnie integrate operino su entrambi i fronti), per cui il paragone è sostanzialmente inappropriato. A livello di sistema paese, invece, si può ritenere la produzione domestica preferibile alle importazioni. Le aziende che estraggono idrocarburi investono capitali privati, pagano tasse (tra le quali, le cosiddette royalties, pari circa 260 milioni di euro all’anno, ripartite tra regioni, stato, comuni e fondi sociali ad hoc) e forniscono lavoro all’indotto che le sostiene. Producendo internamente si riducono inoltre le importazioni, con un impatto positivo sulla bilancia commerciale.
La questione referendaria ha già sollevato le prime polemiche. È, infatti, di poche settimane fa l’annuncio del colosso Shell di ritirare il piano di investimento previsto in Italia nei prossimi anni. Alla luce di ciò viene spontaneo pensare che i primi ad avere interessi nell’estrazione di idrocarburi siano le società petrolifere, anche multinazionali. Quante e quali altre aziende operano nei nostri mari? In che modo lo fanno? Quali sono i vantaggi che il nostro paese trae da questa situazione?
Sui vantaggi si è già detto in precedenza: know how tecnologico e ricadute fiscali e industriali. Le multinazionali, le cosiddette majors, sono quelle che assicurano il miglior livello di tecnologia e di competenza e quindi la maggior garanzia per i mari italiani e per le nostre tasche. Purtroppo, in tempo di spending review, le imprese petrolifere selezionano meglio i propri investimenti, destinandoli in aree con risorse sicure e certezza normativa. Se se ne vanno dall’Italia non è certo perché mancano le risorse da estrarre. Questo non riguarda solo le compagnie propriamente petrolifere (come Shell che ha di recente rinunciato a 2 miliardi di investimenti nello Ionio, ma anche la stessa Eni), ma anche le multinazionali dei servizi, come Schlumberger (in Italia dal 1957), Halliburton (dal ‘90), Baker Hughes (dall’ ‘83) e Weatherford (dal 1985) che dopo oltre 30 anni rischiano di abbandonare le loro sedi in Abruzzo (dove hanno rispettivamente 200, 170, 270 e 150 addetti) e a Ravenna.
Alla luce di quanto detto prima, non pensate che il ritorno economico derivante da royalties e tassazione specifica possa essere sostituito da un aumento delle attività economiche caratteristiche (pesca e turismo in primis) che beneficeranno di una eventuale – perché di eventualità si tratta – interruzione delle attività?
Se si possono aumentare le attività economiche “caratteristiche” (nel 1802 Genova era illuminata con nafta raccolta lungo le rive del fiume Taro, vicino a Parma; l’estrazione di greggio in termini moderni risale in Italia alla seconda metà dell’Ottocento), è giusto e doveroso farlo. Che questo debba comportare la penalizzazione o chiusura di altre attività andrebbe verificato attentamente e non sulla base di quelle che troppo semplicisticamente vengono spacciate per “ovvietà”. Non vi è alcuna correlazione comprovata tra dinamiche dell’industria degli idrocarburi da un lato e pesca e turismo dall’altro. Questi ultimi due settori sono interessati da dinamiche proprie che nulla hanno a che vedere con la presenza di piattaforme in mare. La pesca, in particolare, è un settore in crisi in tutta Italia e sta attraversando una fase di profonda ristrutturazione principalmente dovuta al conseguimento di uno sfruttamento sostenibile delle risorse biologiche marine con vincoli imposti a livello comunitario. Non si può negare la sottrazione di spazio (per quanto contenuta) associata alla presenza di una piattaforma ma al contempo si deve evidenziare come le piattaforme siano di fatto preziose aree di ripopolamento faunistico, soprattutto in Adriatico dove i fondali sono unicamente sabbiosi. Il turismo, d’altro canto, continuerà ad esserci dove c’è (come in Romagna) e a non esserci dove non c’è (con o senza piattaforme) a meno che non si intervenga sui veri problemi del settore, come l’offerta turistica, le strutture recettive, le infrastrutture. L’Emilia Romagna ha un flusso di presenze turistiche in costante aumento nonostante la storica e consistente presenza di piattaforme a mare; un trend similare di flussi turistici non lo si riscontra invece sul Tirreno, pur in assenza delle attività minerarie a mare. Per maggiori approfondimenti sulle dinamiche di questi settori si rimanda all’Executive Summary dello studio Coesistenza tra Idrocarburi e Agricoltura, Pesca e Turismo in Italia.
Qual è la vostra opinione sulla formulazione del quesito referendario? Credete che un risultato di qualunque genere possa avere effetti determinanti e sostanziali sulla nostra economia e politica ambientale?
In caso di vittoria del Sì vi saranno danni sostanziali all’economia che – vale la pena ricordarlo – è ancora in crisi e non può permettersi di perdere ulteriori comparti industriali, soprattutto se d’eccellenza e volti all’export. Quanto alla politica ambientale non cambierà niente né che vinca il sì né che vinca il no: siamo già in prima linea nella lotta ai cambiamenti climatici, l’industria mineraria è soggetta a una normativa molto severa (fermo restando la necessità che anche i controlli siano altrettanto severi) mentre troppo poco si fa sul fronte di questioni puramente domestiche come la gestione dei rifiuti, dei depuratori delle acque, del dissesto idrogeologico, delle eco-mafie.
Niky Venza
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