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Liberi sul web, almeno finché restiamo nel recinto

La libertà su Internet è diminuita a livello globale per il quinto anno consecutivo, con più governi intenti a censurare informazioni di pubblico interesse e ad aumentare le richieste al settore privato di rimuovere contenuti offensivi”.

Con questa affermazione si apre il rapporto Freedom of the Net 2015, analizzato, in italiano, dal giornalista Fabio Chiusi su ValigiaBlu. Se in molti sostengono che dall’attivismo online possa generarsi un cambiamento globale e che proprio Internet possa rappresentare quel nuovo “luogo comune” fondamentale per la democrazia come osservato da Cass Sunstein, i dati raccolti da FreedomHouse sembrano descrivere una situazione molto lontana dall’ideale.

freedom of the net 2015 mappa

Un terzo della campione considerato (65 paesi, ovvero l’88% della popolazione connessa) non è libero. Tra il 2014 e il 2015, la situazione è peggiorata in particolare in Ucraina, Francia, Libia, Myanmar e Turchia. Contemporaneamente, nonostante la lezione non del tutto appresa di Edward Snowden e in virtù della minaccia terroristica, sono cresciuti i tentativi di promuovere e realizzare normative di sorveglianza sempre più capillari: 14 paesi su 65 hanno, infatti, introdotto nuove leggi sull’argomento. In continuità rispetto ai rapporti precedenti, i principali nemici della libertà online sono Cina, Iran e Siria, ciò che colpisce è, tuttavia, la strategia attuata nei contesti democratici per tacere il dissenso.

Spesso i governi democratici ricorrono a pressioni sui soggetti privati affinché essi rimuovano i contenuti (e realizzino materialmente l’atto di censura): i vari Google, Facebook, Twitter, YouTube sono vulnerabili di fronte alle richieste di governi sempre più spregiudicati che hanno, dalla loro, il potere di promulgare normative sempre più restrittive e vincolanti. Proprio il colosso di Mountain View è stato tra i primi, già nel 2012, a denunciare “l’allarmante aumento di richiesta di censura da parte dei governi”.

Dopo la recente polemica FBI vs. Apple, Twitter ha deciso di rendere pubblico un report di trasparenza sulle richieste ricevute di eliminare tweet e account. Soltanto negli ultimi mesi dello scorso anno, le richieste recapitate a Twitter da parte di autorità varie sono quadruplicate: tra giugno e dicembre, sono state recapitate ben 4618 richieste di cancellazione di profili. L’Italia ha segnalato quattro profili, nessuno dei quali è stato bloccato; i numeri invece crescono considerando la Francia (154 richieste delle quali il 19% accolte), la Corea del Sud (79 richieste tutte rigettate) e gli Stati Uniti (101 richieste nessuna accolta). Il divario, tuttavia, che separa i due paesi più attivi dal resto del mondo è impressionante: più di tre quarti del totale delle segnalazioni proviene dalle autorità russe (1735) e turche (2211). Si tratta di un dato che non ci deve sorprendere: già nel 2013 Google segnalava come fossero questi i paesi da cui aveva ricevuto il maggior numero di richieste di censura.

turchia censura twitter

Differente è, tuttavia, la risposta di Twitter che, da un lato, ha rispedito al mittente il 95% delle richieste di Putin, dall’altro ne ha accolte il 23% di quelle provenienti da Ankara. Per quanto si tratti di un dato piuttosto limitato, permette di intuire il modus operandi di Erdogan e, almeno in parte, il suo successo. Il Presidentissimo turco ha fatto del controllo capillare, della repressione del dissenso e della censura online i suoi marchi di fabbrica: tutto ciò che esce dal recinto da lui tracciato, va rimosso. Il controllo del web e del libero pensiero è diventata quasi un’ossessione, tanto che l’ambasciatore tedesco ad Ankara è stato convocato per protestare contro la messa in onda di un video di due minuti molto critico verso il presidente turco da parte di una televisione regionale tedesca.

L’attività di censura delle autorità turche non si limita alle richieste di cancellazione di account, al contrario spesso va a colpire anche semplici cittadini in maniera generalista attraverso sospetti rallentamenti del servizio, blocchi arbitrari e arresti conseguenti ad opinioni espresse in un tweet. Privacy International, inoltre, ha più volte segnalato come una legge del 2014 permetta alla Turkish Telecommunications Authority di imporre la rimozione di contenuti dai siti web; sempre secondo il medesimo report, più di 44mila siti web sono stati resi inaccessibili. Il blocco imposto ai social media sta diventando una routine usata di frequente in Turchia.

Alle attività per così dire “ordinarie” si accompagnano misure straordinarie: durante i recenti attentati ad Ankara ed Istanbul, per esempio, i social media sono stati bloccati: la ragione ufficiale risiede nel tentativo di impedire la condivisione di immagini di morti e feriti. Ma se è così facile bloccare l’accesso ai social media ad utenti e cittadini, chi vigila che ciò non accada anche in altre situazioni e che questo strumento non venga abusato dal potere? Twitter, Facebook, YouTube a chi rispondono? In base a cosa decidono se eliminare i contenuti oppure no?

L’avvocato Guido Scorza, in un articolo pubblicato sul Fatto Quotidiano ormai un anno fa, vede una sola soluzione: costituzionalizzare la libertà di internet “allo scopo di scongiurare, per sempre, il rischio che una legge possa prevedere blocchi come quello ordinato dal Premier turco in danno di Twitter o che sia un’Autorità, per di più non giurisdizionale, ad adottare un simile ordine.” Tuttavia la formulazione stessa della proposta di Scorza evidenzia alcuni problemi che ricorrono nel dibattito politico italiano, a partire dalla difficoltà di definire con chiarezza l’oggetto di questa garanzia.

cloud diritti internet
Cloud delle parole più utilizzate nella Dichiarazione dei diritti in Internet

Sicuro, in conclusione, non dobbiamo cadere nell’errore di considerare l’esempio turco come lontano da noi. Formalmente, non vi è nulla che impedisca che lo stesso accada anche in Italia e, nel concreto, non mancano gli esempi, di varia natura, che mostrano come basti una parola scritta nel luogo sbagliato e nel momento sbagliato per subire provvedimenti del genere. Un caso tra gli altri è quello del giornalista Carlo Gubitosa che, con una lunga lettera consegnata a Popoff quotidiano, spiega perché ha deciso di cancellare il proprio profilo Facebook. La scelta, netta e ben spiegata, è stata conseguenza del blocco per tre giorni del profilo di Gubitosa la cui colpa è stata segnalare un commento di un utente che faceva apologia del neofascismo. Il risultato è stato, appunto, un blocco di tre giorni dell’accesso all’account, della possibilità di inviare messaggi privati, di recuperare tutti i contenuti precedentemente pubblicati sul proprio profilo.

Senza entrare poi nel merito della vicenda, colpisce la facilità con il quale da un giorno all’altro la nostra intera vita social e digitale può essere sospesa, forse perché non siamo troppo consapevoli che non ne siamo fino in fondo proprietari. Siamo abituati sì a sentirci liberi, cittadini, tutelati, ma oggi, come osserva Evgeny Morozov sul Guardian, ci troviamo in una situazione nella quale una profonda crisi di legittimazione politica ha portato Stati e governi a demandare ai colossi di Internet sempre più responsabilità di problem-solving, dal  welfare alla lotta al terrorismo (nello stesso periodo considerato in precedenza, Twitter ha autonomamente cancellato circa 125mila account associati allo Stato Islamico). Se gli Stati, che dovrebbero tutelare le libertà dei cittadini, si affidano ai vari Google, Twitter, Facebook e i vari Google, Twitter e Facebook subiscono le pressioni degli Stati diventando le braccia operative della censura, dove resta lo spazio di libertà del cittadino? Non si sta facendo troppo sottile quell’intersezione tra ciò che è concesso dai governi e quanto è permesso dai colossi del web? Possiamo chiamarla libertà?

Angela Caporale

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