Bentornato banjo! – Mumford and sons all’Arena di Verona

Buio. Le luci sono spente e resta solo il bagliore della luna. Sul palco succede qualcosa e l’Arena di Verona trattiene il fiato: quasi all’unisono prende un bel respiro ed è pronta. “Well, love was kind for a time, now just aches and makes me blind…” “’Cause I feel numb, beneath your tongue, beneath the curse of these lover’s eyes” Già, perché non si può chiamare diversamente la prova che hanno di fronte i Mumford and Sons: combinare in un unico live, il è il più speciale tra tutti i palchi con i suoi archi romani ben visibili di fronte al palco e le gradinate, sapientemente sfruttate per lo show delle luci, dietro ai musicisti. L’appuntamento è ancor più speciale se si considera il sold-out registrato in un paio di giorni e, di conseguenza, le dodicimila persone accorse da tutto il Nord Italia. Le premesse sono quelle della serata indimenticabile, o del flop. Cosa vogliono Mumford e soci è chiaro da subito, l’esordio è quello delle grandi occasioni (o dei lacrimoni, dipende dal grado di sensibilità di ognuno): (2012). Un coro danzante di dodicimila persone che cominciano a supportare la band applaudendo senza sosta. E’ l’inizio di due ore intense curate nei minimi particolari, un percorso narrativo costruito tra brani vecchi e nuovi, senza grandi modifiche agli arrangiamenti per non snaturare nessuna delle canzoni. che, diciamolo, è il vero protagonista della serata e che, è bene ribadirlo, manca non poco nell’ultima fatica della band. Non appena Winston Marshall si avvicina allo strumento l’Arena intera salta in piedi e si prepara a ballare, come chiede Marcus, prima di attaccare con , sicuramente meno capaci di coinvolgere il pubblico che, però, non smette di ascoltare, applaudire a tempo (in maniera quasi perfetta, complimenti Arena!), canticchiare i ritornelli. Incredibile è la capacità della band di mantenere la carica emotiva altissima senza sosta, passando da un album all’altro e sparlottando in un’italiano quasi corretto con il pubblico. commuove l’Arena che si trasforma in un cielo stellato, mentre la quasi psichedelica fa saltare e cantare tutti, confermandosi uno dei pezzi recenti più riusciti insieme ad che con la sua atmosfera nostalgica e struggente fa quasi da trait d’union tra vecchio e nuovo. L’impressione è che potrebbero andare avanti all’infinito, perfetti nell’intonazione, nella sincronia, nell’entusiasmo. Il tempo corre troppo veloce e è quell’acuto che, lo sai, porterà verso la fine. Forse è per questo che è stata un tale pugno nello stomaco che ha spinto tutti a dare il meglio di sé, trasformandosi in un unico cuore pulsante. Sarà anche vero che “voi italiani siete il miglior pubblico!” è una frase di circostanza che si dice un po’ dappertutto cambiando il soggetto, ma dopo essere stata ad un paio di concerti a Parigi non stento a credere che una qualche differenza ci sia. L’Arena non si risparmia, a costo di ritrovarsi il giorno dopo senza voce o con un ginocchio ammaccato . Ciao ciao, è stato bello, ma ora ce ne andiamo, grazie mille a tutti. Sembra la fine, e invece compaiono in mezzo al pubblico, anzi su un terrazzino in mezzo alla’Arena. Ci sono Markus, Winston, il tastierista Ben Lovett e Ted Dawne, contrabbasso compreso. Dirigono l’entusiasmo del pubblico, nei loro occhi si legge lo stupore (sì, ero a circa 10 persone da quel terrazzino) perché hanno attorno dodicimila persone che pendono dalle loro labbra e che non smetterebbero mai di ascoltarli. Cantano per poi correre nel bel mezzo della platea e tornare sul palco. E’ il finale, quello vero, quello che fa saltare tutti all’unisono sulle note di , indiscutibilmente il pezzo meglio riuscito di Wilder Mind. L’Arena è un vero e proprio cuore pulsante di voci, mani e corpi. Marcus chiede ancora una volta la luce sul pubblico: Ci sono tanti modi di raccontare un concerto, tanti modi di viverlo. Potrei porre ancora l’attenzione sulla cura vocale e musicale che i Mumford and Sons hanno dimostrato durante l’intero concerto. Potrei entusiasmarmi per la bellezza e l’unicità dell’Arena che si trasmette al suo pubblico. Potrei anche osservare come il Gentlemen on the road sia un tour fatto di musica e luci, utilizzate sapientemente per ricreare un’atmosfera calda e coinvolgente. Scelgo di tornare indietro di qualche anno, a quando un’amica conosciuta da poco mi disse: e, da quel momento, non ho più abbandonato questa band di ragazzetti inglesi capaci di farti saltare con le mani al cielo come le vere rock band e farti venir voglia di ballare attorno ad un falò per tutta la notte, senza perdere l’integrità. , front man eclettico e non sempre posato, quella voce inconfondibile non solo quando canta. Quello che resta di un concerto così è la consapevolezza che esserci valga la pena, la voglia di continuare a canticchiare e ballare tutte le canzoni, il sorriso, condiviso con le persone attorno a te, di chi dalla musica sa trarre momenti di felicità.