Nel gergo degli esperti si parla di “prevenzione” e di “deradicalizzazione” ma vedremo che esistono altri canali, più o meno formali, che preferiscono usare il termine arabo di rehab, la riabilitazione. I progetti che riguardano questo tipo di attività partono spesso in sordina, senza clamori né pubblicità, solo da poco tempo in coordinamento con altre esperienze simili e in un quadro legislativo confuso e non di rado ostile, di intralcio per chi lavora con soggetti che sono delle bombe pronte a esplodere.
I primi a intuire la necessità di interventi del genere furono i sauditi, che già dal 2003 cominciarono a rivedere le loro politiche di sicurezza interna per sperimentare nuovi programmi che si basassero sul recupero di fondamentalisti che avevano compiuto atti violenti sul territorio del regno ma anche di semplici simpatizzanti che cominciavano ad avvicinarsi troppo a idee considerate pericolose. Questi primi sforzi puntavano soprattutto a combattere l’estremismo sul suo stesso terreno: periodicamente, nelle strutture speciali in cui erano reclusi i beneficiari del programma, venivano invitati a parlare figure religiose ed esperti di teologia. L’obiettivo era “disintossicare” i terroristi dalla propaganda jihadista, cercando di porre rimedio al lavaggio del cervello a cui erano sottoposti quotidianamente mentre combattevano o venivano addestrati, anche con una rilettura “pacifista” e moderata del Corano. L’intraprendenza di Riyad non deve stupire né essere scambiata per lungimiranza politica. Il paese, dominato da un patto d’acciaio pluridecennale fra la classe religiosa wahhabita (un movimento teologico particolarmente conservatore e rigido nell’interpretazione dei testi sacri dell’islam) e il regime saudita, durante gli anni ’80 e ‘90 era diventato il principale esportatore di quelli che oggi definiamo foreign fighters in occasione dell’invasione sovietica dell’Afghanistan, cui si opponevano gruppi di guerriglieri – i cosiddetti mujaheddin – sovente finanziati dalla stessa Arabia Saudita. Nel 2003, con lo scoppio della seconda guerra del Golfo, Al Qaeda e numerosi altri jihadisti fecero ritorno in patria. Una parte di loro puntava a intralciare i piani degli statunitensi in Iraq, altri invece volevano rovesciare la casa regnante considerata una traditrice della causa islamica essendosi alleata coi “crociati occidentali”. Armati e addestrati, questi ultimi sconvolsero il paese con violenti attentati contro le autorità saudite, rivelando così la profonda incoerenza della politica estera degli Al Saud. Per anni simili esperienze rimasero una prerogativa di paesi a maggioranza musulmana come per l’appunto l’Arabia Saudita o l’Indonesia.
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Una delle poche immagini in circolazione che ritragga un rehab center saudita |
Gli effetti di questo impatto sui combattenti stranieri sono solitamente di due tipi: una ulteriore radicalizzazione, che li allontana ancor di più dalla loro vita passata e li spinge ad affidarsi maggiormente al nuovo credo fondamentalista fino alle estreme conseguenze. . Oppure un tragico risveglio, spesso causato proprio dalle violenzea cui si è costretti ad assistere, dalle bugie a cui si è sottoposti (molti foreign fighters vengono attirati in Siria con l’inganno: si promette loro che combatteranno il regime del tiranno Assad, un despota che opprime e massacra il suo popolo) e dalla durezza della vita al fronte.A questo risveglio solitamente si accompagnano la rabbia per la scelta fatta e la paura per le conseguenze di un’eventuale diserzione: dalla morte per mano degli ex commilitoni, alla reclusione ritornati in patria.
Ma come fare a fermare questo circolo vizioso? Come agire, contemporaneamente, per impedire a un potenziale terrorista di unirsi alla jihad in Medio Oriente e invece permettere allo stesso – se pentito – di rientrare nel paese da cui era partito? Fino ad oggi purtroppo le autorità mondiali si sono concentrate soprattutto sulla prima questione. Fra i governi – occidentali e non – prevale la linea dura, l’inasprimento delle leggi verso tutti i tipi di soggetti, chi vorrebbe partire, chi l’ha già fatto o chi sta pensando di ritornare indietro, spesso a prescindere dalla causa per la quale si combatte. L’Inghilterra vorrebbe confiscare i passaporti dei sospetti e bloccare i rientri per almeno due anni, misure già valide in Germania e in Canada. In Australia invece chi combatte all’estero al servizio di gruppi armati rischia l’ergastolo. In Tunisia è addirittura vietato il rientro per chi si macchia di crimini legati al terrorismo. Sono politiche inevitabili (chi ha commesso un crimine deve essere punito) ma che spesso fungono da deterrente per un “aspirante pentito”. Va comunque tenuto conto che esistono anche situazioni del tutto diverse: in Algeria i legislatori stanno ragionando sulla possibilità di concedere l’immunità a chi ritorna sui suoi passi in breve tempo, ritenendola un incentivo al pentimento mentre in Danimarca è reato andare a combattere all’estero ma solo se si è inquadrati in formazioni terroristiche). Anche riuscendo nell’intento di catturare e punire, la galera potrebbe rivelarsi il peggiore investimento che uno Stato possa fare coi soldi dei suoi contribuenti. Ad esempio è stato dimostrato in più occasioni che i terroristi incarcerati a Guantanamo e in seguito, scontata la loro pena, rilasciati presentano i tassi di recidiva più elevati. La galera, la lontananza dal resto della società, il ricorrere esclusivamente a interventi repressivi (che possono anche sfociare in casi qualificabili come tortura) insomma conducono sovente a un’ulteriore radicalizzazione delle persone, soprattutto nei casi in cui la propaganda fondamentalista abbia in precedenza lavorato a fondo sul soggetto, mutando completamente il suo sistema di valori o rispondendo a un malessere interiore pregresso (incapacità di dare un senso alla propria esistenza, sentimenti di frustrazione per l’incapacità percepita di reagire allo status quo nel quale si vive, fino a situazioni di vera e propria depressione).
E quindi che fare con chi sta per partire trascinato da tanti altri esempi attorno a lui? Che fare per chi invece vorrebbe rientrare in patria? Magari dissociandosi dalle organizzazioni terroristiche, magari addirittura collaborando attivamente con le autorità giudiziarie per smantellare le reti esistenti e impedire ad altri ragazzi di compiere i loro stessi errori? Come abbiamo già detto, oggigiorno esistono programmi che facilitano il reinserimento e la de radicalizzazione ma, per quanto riguarda l’emisfero occidentale, non di rado si tratta ancora di progetti che procedono per tentativi, utilizzando le stesse tecniche impiegate per il recupero dei tossicodipendenti e dei molestatori e che non sempre ottengono approvazione e sostegno dai governi o dall’opinione pubblica.Comunque, per quanto riguarda il tipo di cappello sotto cui si organizzano le attività di riabilitazione, per il momento sono state seguite due strade: quella “formale” con programmi di recupero ideati e finanziati dalle autorità statali e quella “informale”, dove singoli privati (esperti, genitori, psicologi) si mettono in contatto per offrire il proprio aiuto, condividere le proprie esperienze e affrontare un problema che ritengono sia ingiustamente ignorato dalla politica.
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Mohammed Emwazi, il cosidettto Jihadi John, cresciuto in quartiere della “Londra bene” e finito come tagliagole in Siria al servizio del Califfo |
Un pensiero su “Come la società può guarire dal terrorismo: i centri di rehab e la forza delle madri (parte prima)”