Birdman, di A. González Iñárritu (2014)

Terri e io sono cinque anni che stiamo insieme e siamo sposati da quattro. E la cosa tremenda, veramente tremenda, ma anche buona, la grazia salvifica, la potremmo definire, è che se a uno di noi succedesse qualcosa – scusatemi se lo dico – insomma, se succedesse qualcosa a uno di noi, mettiamo domani, secondo me, l’altro, l’altra persona, soffrirebbe per un po’, sapete, ma poi il superstite ne uscirebbe e amerebbe di nuovo, si troverebbe presto un’altra persona da amare. E tutto questo, tutto questo amore di cui stiamo parlando, diventerebbe solo un ricordo. ? Ma soprattutto quella sensazione di disperazione totale e di vuoto dato da questa tragedia che in fondo è la nostra vita? Bene. Iniziate ad intonare dentro di voi un motivetto jazz di batteria, , e magari mettetevi in mutande davanti al computer per sentirvi più liberi, nel frattempo lasciate che vi racconti deve aver fatto i conti con se stesso in seguito alla controversia con lo sceneggiatore Arriaga, il quale l’aveva affiancato durante la realizzazione dell’intera Trilogia, per poi lasciarlo solo con ». Mi immagino sia approdato a questa decisione dopo lunghe discussioni con il suo alla Birdman di Riggan Thomson, per intenderci. E ha fatto bene. Sì, perché il film, il cui sviluppo si concentra in uno lasso di tempo di pochi giorni, racconta la messa in scena di una , per opera di una compagnia diretta dal protagonista Michael Keaton, nei panni del suddetto Riggan. Già attore di Hollywood, egli sbarca a Broadway per riscattarsi dall’immagine dell’arcinoto supereroe Birdman di cui aveva vestito i panni all’apice della sua carriera. Che Riggan stia a Birdman come Keaton a Batman è già stato dichiarato dal regista, quindi niente superomismo da scoperta dell’acqua calda. Meno scontato è ricordare che in effetti anche il buon – Mike nel film – ha interpretato il supereroe Hulk nel film di Leterrier del 2008. A completare il cast mancano all’appello la bionda portata in scena vede sul palco due coppie, costituite da Riggan con Laura (la Riseborough), e Lesley (Naomi Watts) con Mike. I due piani infatti si intrecciano per tutta la durata della proiezione, mescolati ad una buona dose di , talvolta rendendo piacevolmente difficile allo spettatore orientarsi tra i due; merito anche della tecnica dell’ , in realtà apparente poiché ottenuto in post produzione. La telecamera segue gli attori in ogni loro spostamento all’interno e attorno al teatro, talvolta in soggettiva, talvolta L’intreccio e i personaggi ruotano attorno alla figura di Thompson, il quale, da sessantenne che si rispetti, vive questo progetto teatrale come una seconda rinascita artistica. Le incomprensioni con la figlia trascurata, il legame con l’intramontabile ex moglie, i problemi con la nuova compagna, la competizione con Mike, sono solo l’ narrativo per analizzare i dubbi di un artista (?) che vuole replicare il suo successo al botteghino, dimostrano a critici e pubblico di poter “fare teatro”. Riggan Thompson vuole piacere, ha bisogno di essere ricordato dal pubblico e dalla critica, al punto da obnubilare l’importanza della propria morte, se di essa non verrà data la notizia sulla prima pagina dei giornali. È in questi spaccati che Alejandro González non tradisce la sua ossessione verso i temi a lui più cari, come quello della , sebbene declinati in una cornice più leggera. Il protagonista si fa portavoce di un divario che va oltre la sua figura, quello tra “blockbuster” e “cinema alto”, da cui deriva poi la divergenza tra gli interessi del grande pubblico, che ha il potere di far salire un film in cima al box-office, ed il gusto della critica e di una manciata di spettatori interessati che come unico riconoscimento da offrire hanno una bella stretta di mano. Il punto è: , oppure essere autori e morire dimenticati da tutti ma con una buona recensione sulla prima pagina del New York Times? Rassegnatevi, perché il film in realtà non offrirà una risposta a questo interrogativo artistico, e questa è probabilmente l’unica pecca che mi sento di sottolineare. È anche vero che (“Uno fa il critico se non può fare l’artista”, diceva Flaubert), il che fa riflettere su quale possa essere l’opinione del regista in merito. Il conflitto interiore di Riggan-uomo trova invece pace, una pace che si può forse leggere attraverso le parole dello stesso : nel monologo di Riggan si racconta di un uomo che dopo aver fatto un incidente con la moglie non riesce a rallegrarsi all’idea che la compagna se la caverà, poiché non può vederla avendo il volto totalmente ingessato. Dalle fasciature rimangono fuori due piccoli buchi per gli occhi che non consentono la visione della donna, unica fonte di felicità. Allo stesso modo, al termine delle tre anteprime, Riggan si ritroverà in ospedale – non spoilero qui il finale – con il volto fasciato e solo due piccoli buchi per gli occhi. Nonostante le critiche positive sullo spettacolo, non si sente soddisfatto, non ha ancora capito cosa vuole veramente, anche il suo si reca davanti allo specchio ma non riesce a vedersi bene , deve togliersi le bende per osservarsi. Si strappa dunque quella fasciatura che l’uomo del racconto non ha potuto togliersi, ed improvvisamente sembra capire cosa vuole, cosa può renderlo felice e libero davvero. E l’unico modo che ha avuto per capirlo non sono stati i giudizi degli altri, gli occhi degli altri puntati su di sé, ma piuttosto quel nuovo modo di guardare dentro (e fuori) di sé, dato dall’eliminazione di tutti quei filtri che rinchiudevano il suo sguardo entro sterili limiti. Non sono qui a profetizzare un Oscar, dirò solo: Iñárritu interprete della realtà, Michael Keaton ed Edward Norton veri artisti, colonna sonora di Antonio Sanchez pazzesca, fotografia e montaggio perfetti e