It’s a Raid! Ozzy Osbourne – Ordinary Man (2020)

Tra tutte le cose assurde già successe quest’anno, il podio musicale credo se lo possa accaparrare a mani basse Se mi avessero chiesto, anche solo 6 mesi fa, di scommettere che avrei scritto che ci avrebbe costretto a cambiare radicalmente le nostre abitudini di vita, suonano l’ultimo concerto della loro carriera, in una formazione a 3+1 che prevede, oltre al batterista di Ozzy Tommy Clufetos, i tre fondatori Tony Iommi, Geezer Butler e . Nei mesi successivi, Ozzy annuncia un tour le cui date vengono posticipate svariate volte, fino a un annullamento definitivo a causa del , che il cantante rivela di avere. Ozzy, però, rivela anche che pubblicherà a breve, registrato nel giro di, a quanto pare, poche settimane, con una sezione ritmica totale, composta da , e io resto allibito dalla potenza e dalla freschezza del pezzo: è il miglior brano di Ozzy solista dai tempi di “Crazy Train”, che usciva nel 1980 sul suo primo album solista (ovvero, con tutto il rispetto, quello a cui avrebbe dovuto limitarsi, visti i successivi). L’atmosfera che si respira, possano gli dei del doom metal perdonarmi, non si sentiva dai suoi dischi con i Black Sabbath (come dite? , e una volta di più i poteri forti sono riusciti nell’impresa di dare forse dire che non lo fa rimpiangere è eccessivo, ma di sicuro fa una buona impressione . Non resterà nella storia, forse, non si inventa niente: ma che Ozzy riesca a tirare fuori un disco del genere non è solo il disco è in larghissima parte farina del sacco di Andrew Watt , giovane produttore hip hop, vincitore di un Grammy per il suo lavoro su (qui ospite su un paio di brani – a me fa un sacco ridere perchè in molti dialetti veneti viene spesso usato per descrivere una brutta situazione in modo sarcastico), oltre che fondatore dei con Glenn Hughes dei Deep Purple e Jason Bonham. Watt è un ottimo chitarrista, e trascinato il relitto di Ozzy davanti a un microfono con le istruzioni di cantare le canzoni . L’unico difetto della sua produzione è che è davvero asciutta e fredda, il che limita un po’ la potenzialità di questo disco, ma è facile passarci sopra quando le canzoni funzionano così bene. Certo, ci sono un paio di citazioni dei Black Sabbath abbastanza imbarazzanti (l’intro di “Goodbye”, che però è costruita talmente bene da riuscire a considerarla più un omaggio che un plagio), e un paio di brani tutto sommato dimenticabili (la già citata “Goodbye” e “Eat Me”, priva di quell’alone di oscurità che permea il resto del disco), ma Si parte col botto con “Straight to Hell”, decisamente affine ai Sabbath (con un bell’assolo di . Dopo “Goodbye” c’è la ballatona che da il titolo al disco, in cui è ospite , che canta e suona il piano, e in effetti la canzone sembra una delle sue, e calza a pennello. La prima metà del disco si chiude con il turbosingolo “Under the Graveyard”, racconto degli anni di devastazione psicofisica di Ozzy in gioventù. È : l’intro minacciosa eppure malinconica, il ritornello assoluto, e un bridge con assoli di chitarra folgoranti. . Dopo questo bel macello, purtroppo, si cala, con la già menzionata “Eat Me”, ma poi ecco un altro brano assolutamente degno dei Sabbath: la , uno dei due brani che aiutano a rendere questo disco , che parla degli alieni che probabilmente vivono solo nella testa di Ozzy, riesce dove “Eat Me” fallisce: provvedere a un po’ di . C’è anche Tom Morello alla chitarra. Il disco si avvia alla conclusione con la malinconicissima “Holy For Tonight”, in cui Ozzy sembra volerci dire che finisce qua, è stato bello, addio. È una ballatona riuscita, ma meno della title track. Improvvisamente, però, ecco che il disco ci regala (come suggerito da un utente youtube molto sagace) il brano racconta , una volta i giovani Black Sabbath erano in questo villone americano affittato, e Geezer schiacciò . Così, quando il manutentore suonò il campanello, i quattro, già probabilmente strafatti, decisero di liberarsi velocemente della montagna di droga che avevano in casa. e Ozzy non potè lasciar andare sprecata tutta quella cocaina, dunque se ne sniffò più che potè e , su cui Ozzy fa una comparsata. Davvero coinvolgente, con un sacco di groove e un assolo di chitarra di Watt al fulmicotone in chiusura, adattissima all’atmosfera oscura di questo disco. rock and roll, un disco genuinamente divertente e coinvolgente, di quelli che ti fanno fare air guitar dall’inizio alla fine, che si fa ascoltare e riascoltare senza annoiare. È opera sicuramente di Watt e dei suoi soci alla sezione ritmica, ma che senza Ozzy non si sarebbe potuto fare. Impressionante che riesca ancora a sorprendere, e dopo dieci anni di silenzio spari questa cannonata assurda (stavo per finire l’articolo, ma inevitabilmente… MI SENTI, MAYNARD? No, non mi è ancora passata).