Andare sì, ma dove?
        si vota tra meno di un mese: il partito laburista, principale attore della sinistra dal dopoguerra in poi, dovrebbe ottenere, , 13 seggi su 150 contro i 38 della precedente legislatura, retrocedendo a si voterà tra un mese e mezzo: il partito socialista schiera , esponente critico (da sinistra) dell’esperienza di governo dei compagni Hollande e Valls. Difficile possa andare oltre il , in lizza per il ballottaggio) e il professionista della candidatura di rappresentanza Jean-Luc Melenchon, comunista. , acclamato leader del ritorno alle origini del Labour post-blairiano, ha avuto modo di , dopo una timida campagna elettorale di segno opposto un anno fa, giustificandosi agli occhi dei numerosi dissidenti interni sostenendo l’impossibilità di andare contro il volere popolare espresso dal referendum. In Spagna il Partito Socialista è stato piegato dalla doppia tornata di elezioni politiche tra fine 2015 e giugno 2016, dovendo consentire, dopo dieci mesi di stallo, la nascita di un nuovo governo popolare di minoranza a guida Rajoy, astenendosi dal voto di fiducia. Il partito, al minimo storico in termini di voti, non ha attualmente una guida, dopo le dimissioni dello sconfitto Pedro Sanchez. (ma quello di Stefan Lofven è uno degli esecutivi di minoranza più fragili della storia del paese). , dove si voterà in settembre, parrebbero arrivare notizie favorevoli alla sinistra di governo: ai danni di Angela Merkel. Attenzione però: storia insegna a dubitare dell’ con la direzione di oggi dovrebbe essere sancita la scissione nel PD , con una parte del gruppo dirigente ex-DS pronto a seguire Enrico Rossi, Michele Emiliano e Roberto Speranza verso altri lidi. Sarà infine il giorno dello strappo? Nonostante l’incertezza sui tempi, la divisione è ormai certa nei fatti, e lo è da tempo, come ha giustamente affermato Speranza sabato scorso in occasione della convention dei tre “ribelli” a Roma (quella, per intenderci, aperta da Altrettanto certo, tuttavia, è che il nuovo partito dei transfughi, se nuovo partito sarà, nascerà tra contraddizioni e casus belli ripensati giorno dopo giorno. Nel frattempo, con un PD treno in corsa verso il congresso e svariati passeggeri di prima classe con un piede sul predellino, pronti a saltare giù, Questo chiedono in tanti (al netto della retorica dell’unità) agli scissionisti. Riuscirà a aggiustare drasticamente la rotta o certe recenti ammissioni di colpa concesse a denti stretti come Fonzie in , con particolare riferimento a quella componente della sinistra che negli anni si è mostrata ragionevole e puntuale nelle critiche, Queste, almeno a quanto si è potuto capire, le richieste dei governatori di Puglia e Toscana, dell’ex-capogruppo a Montecitorio e dei padrini della manovra D’Alema e Bersani, per non varcare la soglia. Cosa è successo? E’ successo che nel frattempo la Consulta si è pronunciata sull’Italicum, restituendo un proporzionale puro immediatamente applicabile, scatenando così u na corsa al voto alla quale avrebbe partecipato volentieri Matteo Renzi , il cui esilio tra le corsie del supermercato di Rignano non è durato più di un mese. Lasciar stilare le liste ad un segretario frenetico con il quale si è da tempo ingaggiata una battaglia quotidiana punteggiata di colpi bassi non deve essere parsa una buona idea a Emiliano, Rossi e Speranza, che nel frattempo avevano espresso, uno dopo l’altro, la propria candidatura alla guida del PD. Una necessità strategica, la volontà di , anche dall’esterno grazie al proporzionale, sembrerebbe dunque alla base delle recenti contraddizioni. “Vuoi correre alle urne per avere più probabilità di vincere. Bene, ammettiamo che quest’equazione sia giusta. Ma vincere per fare cosa?” : questa avrebbe potuto essere una questione su cui una minoranza che vuole essere alternativa politica avrebbe potuto incalzare Matteo Renzi. Sarebbe stato utile, e forse efficace. del congresso denunciando la volontà di trasformarlo in una “conta”, una rivalsa personale di un segretario in cerca di investitura, da consumarsi in tempi fin troppo rapidi in modo da non consentire un’adeguata organizzazione dei rivali. Possibile che tre mesi non siano sufficienti per una discussione seria, essendo peraltro parte della minoranza già presente sul territorio quantomeno dalla campagna referendaria condotta contro la linea del partito (e il voto parlamentare favorevole della stessa)? Quanto al timore di una conta, evocarla significa continuare a non domandarsi per quale motivo un leader percepito come “oggetto estraneo” abbia potuto raccogliere nel 2013 (e si candidi a fare altrettanto nel 2017) un ampio seguito non solo tra fantomatiche truppe cammellate dei gazebo ma anche tra i residui tesserati. E infine, dato che scissione, nonostante le paradossali incertezze dell’ultim’ora, sarà: o all’indomani di riforme contestate e indigeste a gran parte della base storica, come il Perché altrimenti non dopo aver condotto un congresso (anche solo strategicamente) all’attacco sui temi delle disuguaglianze , della ripresa economica, delle tensioni sociali sulle quali Renzi è parso eufemisticamente disattento? Fin qui un opinabilissimo tentativo di lettura delle ultime serrate settimane, dal quale emergono ben poche ragioni di ottimismo per attendersi risposte alle domande espresse in precedenza. Renzi continuerà a correre, continuando erroneamente a credere che i sondaggi possano dare una reale misura della sofferenza che una scissione provocherà al PD . Più che un leggero smottamento percentuale, la scissione sarà davvero la frana nella diga evocata da Delrio nel recente fuorionda pubblicato online, ripercuotendosi sulle amministrazioni locali e su una base che, almeno al centro nord, è ben più complessa e autonoma dall’essere quel “Partito di Renzi” evocato dai giornali. Rossi, Emiliano e Speranza incontreranno ben poche certezze una volta varcata la soglia . Saranno ancora i più fedeli sostenitori del governo Gentiloni (che continua a comprendere il centrodestra di Alfano oltre all’ombra ingombrante di Denis Verdini)? E lo faranno, come si vocifera, all’interno di nuovi gruppi parlamentari che comprenderanno Arturo Scotto ed altri fuoriusciti di Sinistra Italiana nel momento stesso della sua fondazione, finora invece all’opposizione? In quel caso, come si rapporteranno con il delfino di Vendola, Nicola Fratoianni? E Pisapia? E Civati? Ad oggi a sinistra del PD paiono esserci più leader, orgogliosi della propria particolarità, che elettori, stando ai sondaggi e alle performance recenti di Airaudo a Torino e Fassina a Roma. Ma non è questo il punto. Le bandiere rosse e i pugni chiusi ricomparsi nel weekend sono simboli, e come tali non hanno data di scadenza combattere le disuguaglianze sociali enormi di oggi con lo sguardo e le parole con cui si affrontavano cinquanta e oltre anni fa le disparità di un mondo che era fordista e non digitale, bipolare e non globale, e che dir si voglia? E come si presenterà agli occhi di un elettorato giovane e (in)sofferente un’ non soltanto generazionalmente distante, ma soprattutto non estranea a scelte di segno opposto Nonostante le lunghe righe dedicate alla cronaca e alle contraddizioni di una scissione, la responsabilità più grave e complessa non grava sulle spalle di chi dal PD se ne va bensì su quelle di chi resta , ed emerge se solleviamo lo sguardo dalle magagne interne della sinistra italiana all’Europa e all’arrancare dei principali partiti laburisti e socialdemocratici del continente. Soffre il partito socialista francese, soffre il Labour, soffre la sinistra tradizionale dalla Spagna alla civile Scandinavia. E soffrirà anche il PD, indipendentemente dalla scissione e dal congresso. Il problema è il medesimo: la sinistra di governo in Europa ha scommesso da lustri su un modello economico e di società che, messo alla prova dalla crisi, ha dimostrato di aver portato risultati effimeri. Le disuguaglianze aumentano nel Vecchio Continente; l’integrazione europea è bersagliata dall’interno e dall’esterno; la globalizzazione ha restituito società dell’ICT che fatturano quanto Stati da G15 e flussi migratori di complessa gestione; città e campagne, centri e periferie sono sempre più lontani. Andare sì, ma dove? Su questo dovrebbero discutere tanto chi va quanto chi resta nel PD. Clicca per condividere su Google+ (Si apre in una nuova finestra) Clicca per condividere su Tumblr (Si apre in una nuova finestra) Clicca per condividere su Pinterest (Si apre in una nuova finestra)
