Venerdì 4 novembre più di trecento persone hanno preso parte, in presenza e online, alla prima assemblea nazionale del Coordinamento “Re-Strike”, che riunisce precariə della ricerca provenienti da numerosi atenei italiani. L’assemblea, svoltasi presso la facoltà di Ingegneria dell’Università “Sapienza” di Roma, ha coinvolto prevalentemente ricercatori e ricercatrici (ma anche dottorandə, docenti, studentə e personale amministrativo) interessati ad avviare un confronto sulla riforma del reclutamento universitario, introdotta a giugno dalla legge 79/2022 e promossa dal senatore del Partito Democratico Francesco Verducci. Le nuove disposizioni hanno modificato le forme contrattuali legate alla ricerca universitaria, garantendo tutele e condizioni di lavoro parzialmente migliori – determinando perciò costi maggiori per le università – senza però aumentare i fondi. La diretta conseguenza sarà l’espulsione di un elevato numero di soggetti dal sistema universitario.
A fronte di questi cambiamenti, a luglio 2022 alcuni ricercatori assegnisti del Dipartimento di Ingegneria Civile, Edile e Ambientale (DICEA) dell’Università “Sapienza” di Roma hanno costituito Re-Strike (Research Strike), il Coordinamento nazionale precariə della ricerca. “Ci siamo resi conto che in questa situazione non solo stavamo subendo passivamente una scelta, ma non avevamo nessuna capacità di risposta”, racconta a The Bottom Up Stefano Simoncini, uno dei fondatori. Per far fronte a questo senso di frustrazione, hanno provato a creare dibattito e fare rete.“Ci siamo rivolti da un lato agli spazi sociali che producono cultura critica e politica a livello territoriale, e lì abbiamo iniziato ad animare una prima discussione”. Inoltre, hanno creato uno spazio di discussione online, ovvero una chat Telegram che conta ad oggi più di 800 partecipanti, al fine di ovviare a una situazione in cui i precarə si trovano ad essere “isolatə e frammentatə”. Grazie a questo spazio di partecipazione, i membri del Coordinamento hanno redatto collettivamente una lettera aperta e iniziato a formulare delle richieste per arginare i danni della riforma, parlando anche con alcunə parlamentarə perché presentino degli emendamenti alla legge. Queste rivendicazioni saranno il fulcro della mobilitazione organizzata per il prossimo 18 novembre.
Il sistema del reclutamento universitario prima della riforma
La riforma del reclutamento universitario è stata introdotta ad aprile con un decreto-legge volto a velocizzare l’attuazione del PNRR (DL n. 36/2022, spesso denominato decreto “PNRR bis”), poi convertito in legge il 29 giugno 2022 con la legge 79/2022. É in particolare l’articolo 14 a modificare il sistema del pre-ruolo universitario, introducendo cambiamenti sia rispetto alla figura dell’assegnista di ricerca sia rispetto a quella del ricercatore.
La legge va a riformare l’attuale sistema della ricerca universitaria italiana, basato su tre principali elementi: le borse di ricerca post-laurea e i contratti di collaborazione occasionale; gli assegni di ricerca; il contratto per ricercatori a tempo determinato. Nel primo caso si tratta di forme di collaborazione di durata limitata e prive di tutele effettive, spesso usate per regolare occupazioni senza un effettivo carattere scientifico. L’assegnista di ricerca svolge invece lavoro parasubordinato, anch’esso privo di tutele (se non l’indennità di disoccupazione DIS-COLL), ricevendo uno stipendio mensile minimo pari a 1.400 euro; gli assegni possono avere una durata compresa tra uno e tre anni, e sono rinnovabili fino a un massimo di 6 anni complessivi. Diversamente, i ricercatori a tempo determinato (RTD) sottoscrivono un contratto di lavoro subordinato della durata di tre anni, legato anche a obblighi di docenza (a differenza degli assegni che non lo prevedono). Si fa distinzione tra due tipologie di ricercatori, RTD-A e RTD-B, in quanto la posizione di questi ultimi è finalizzata all’assunzione a tempo indeterminato come professori associati.
La riforma del pre-ruolo: cambiamenti e conseguenze
L’attuale sistema viene ampiamente modificato dalla riforma, la quale introduce due principali cambiamenti. In primo luogo, la nuova legge sostituisce gli attuali assegni di ricerca con contratti di ricerca. Si tratta di un passaggio da un rapporto di lavoro parasubordinato a un contratto di lavoro subordinato a tempo determinato, di durata minima di due anni (invece che un anno). Al nuovo contratto di ricerca sono inoltre correlate una serie di tutele previdenziali e contributive (come ferie, indennità di malattia, sussidio di disoccupazione NASpI); il relativo stipendio, soggetto alla contrattazione collettiva, dovrebbe crescere fino a 1.600 euro mensili. A migliori condizioni di lavoro corrisponde però un costo maggiore per gli atenei. Stefano Simoncini precisa che “per attivare un rapporto di ricerca che non sia assolutamente precario [ovvero basato su borse di ricerca o contratti di collaborazione occasionale] l’università, il dipartimento o il ricercatore, spesso costretto a cercare risorse esternamente, non deve più trovare 25.000 euro (corrispondenti al costo precedente di un anno di assegno di ricerca); deve invece trovarne 80.000 per coprire il costo del contratto di ricerca biennale”. Ciò che ha spinto il Coordinamento Re-Strike ad agire è il fatto che i nuovi costi introdotti dalla riforma non siano sostenuti da ulteriori fondi. “La riforma non solo è a costo zero”, afferma il Coordinamento nella propria lettera aperta, “ma esplicitamente vieta agli atenei una spesa superiore alla media degli ultimi tre anni per questi neo-contratti di ricerca”. Simoncini spiega come, complessivamente, la riforma “da un lato espelle assegnisti dal sistema universitario, dall’altro precarizza”. Il Coordinamento Re-Strike ha infatti calcolato che almeno un terzo degli attuali 15.300 assegnistə rischia l’espulsione. Molti altri assegni verranno invece trasformati, peggiorativamente, in contratti di collaborazione professionale o borse di ricerca; gli assegnistə verranno quindi demansionatə a una forma di lavoro con ancora meno tutele rispetto a quella precedente.
Il secondo importante cambiamento determinato dalla riforma riguarda invece i ricercatori a tempo determinato. La legge 79/2022 sostituisce infatti le due figure RTD-A e RTD-B con un’unica tipologia di ricercatore, ovvero quella di ricercatore a tempo determinato in tenure track (RTT). Il contratto per ricercatori in tenure track potrà avere una durata massima di sei anni e sarà finalizzato all’assunzione a tempo indeterminato. Di fatto, mentre il nuovo contratto di ricerca sostituisce sostanzialmente la figura del RTD-A, la figura di ricercatore in tenure track corrisponde al precedente RTD-B.
“L’obiettivo dichiarato dal legislatore sarebbe quello di ridurre (se non addirittura eliminare) la precarietà, abbassare l’età media di entrata in ruolo garantendo un percorso pre-ruolo certo e limitato nel tempo e migliorare le condizioni contrattuali delle precariə dell’Università” ricorda il Coordinamento Re-Strike. “Contrariamente a queste buone intenzioni, la realtà che si comincia a profilare a poche settimane dall’introduzione della riforma è di tutt’altro segno”. Prendendo in considerazione l’intera riforma si nota infatti come il legislatore abbia ridotto il periodo di precarietà pre-inquadramento di solo uno o due anni. Si passa da un percorso segnato da 12 anni di precarietà (ovvero composto da 6 anni di assegni di ricerca e 6 anni di RTD-A e RTD-B) a una durata massima del precariato negli atenei pari a 10 o 11 anni (corrispondenti a 4 o 5 anni di contratto di ricerca e 6 anni di RTT). Il Coordinamento puntualizza inoltre che “la precarietà non sarà affatto eliminata, ma di fatto saranno eliminate tutte le tutele che erano state conquistate per attenuarne gli impatti sulle nostre vite”.
Re-Strike ha individuato un ulteriore elemento di criticità nella riforma, in particolare in riferimento agli assegni di ricerca: “il periodo transitorio durante il quale si potranno ancora bandire i ‘vecchi’ assegni è pari a sei mesi [questi infatti terminano il 31 dicembre di quest’anno]. Inutile dire che è del tutto insufficiente per garantire continuità a percorsi individuali e dipartimentali programmati sul costo base degli assegni, e che migliaia di ricercatori e ricercatrici verranno espulsə, impedendo persino la continuazione di tanti progetti di ricerca già finanziati”. Inoltre, Simoncini ricorda come all’introduzione di una nuova figura contrattuale non sia seguito alcun decreto attuativo contenente linee interpretative. Questo, secondo l’assegnista, sta portando a una “paralisi”: “gli atenei si stanno muovendo in ordine sparso, dando interpretazioni diverse: alcuni atenei (pochi, quelli particolarmente capaci) hanno creato regolamenti ad hoc necessari per attivare i nuovi contratti, mentre quelli con meno strumenti non l’hanno ancora fatto”. Il breve regime transitorio riferito all’assegno di ricerca si contrappone a quello riferito alla figura del RTD-A: questə ultimə potranno infatti essere reclutatə per ulteriori tre anni, grazie all’utilizzo di fondi del PNRR. Simoncini ricorda che senza fondi strutturali per sostenere l’assunzione dei ricercatori a tempo indeterminato si rischia di creare una “bolla”. Secondo Simoncini, inoltre, sebbene grazie a questi fondi vi sarà un effettivo aumento del numero dei contratti per ricercatori, si tratterà di “contratti che seguono modalità di distribuzione delle risorse decise verticalmente, basate su criteri discrezionali”; saranno in particolare contratti legati a “dipartimenti forti più strettamente connessi al mercato”, ovvero a settori già forti.
L’assegnista prosegue poi nel descrivere la riforma e i suoi effetti. Simoncini parla di una riforma iniqua “perché manda a casa senza criterio gente preparata, compromettendo senza fondate ragioni progetti di vita e professionali”; antisociale “perché cancella posti di lavoro laddove andrebbero creati”; antieconomica “perché compromette un bacino di conoscenze e competenze, su cui lo Stato ha investito enormi risorse, e che potrebbe essere di estrema utilità (e fortemente produttivo) per il sistema accademico e per il Paese”; regressiva “perché aggrava le fratture già esistenti, ovvero quelle generazionali, di genere, tra atenei del Nord e Sud e tra settori disciplinari forti e deboli”.
L’assenza di dibattito pubblico
Rispetto alla riforma, il coordinamento Re-Strike ha evidenziato criticità non solo sostanziali, ma anche riferite al procedimento di approvazione della stessa. Sono state fatte “scelte verticali, rapidi e fulminee” in un contesto di assenza di dibattito pubblico: “avendo fatto ricorso a un decreto legge legato al PNRR, la riforma ha seguito un iter legislativo che non ha comportato alcun dibattito parlamentare, nessuna assunzione di responsabilità da parte dei partiti”, precisa Simoncini. “Non c’è stato alcun dibattito nemmeno nelle Università, perché nessuno è stato in grado di creare coinvolgimento e dibattito rispetto a questa situazione”. L’unico attore significativamente e formalmente coinvolto nella fase di discussione e approvazione della riforma con il senatore Verducci è stato l’ADI [Associazione Dottorandi e Dottori di ricerca in Italia], che ha rivendicato la riforma appena è stata approvata. In seguito, però, l’Associazione ha preso parte alla piattaforma di protesta, rivendicando più finanziamenti per coprire i costi derivanti dalla nuova legge.
Le richieste del Coordinamento Re-Strike
A fronte di questa situazione il Coordinamento Re-Strike ha formulato, in particolare nel corso dell’assemblea nazionale del 4 novembre, numerose richieste e rivendicazioni. “Abbiamo elaborato richieste immediate per arginare i danni della riforma” spiega Stefano Simoncini. “Queste riguardano soprattutto la proroga dell’assegno e le maggiori risorse necessarie per la copertura dei maggiori costi relativi ai nuovi contratti di ricerca”. In particolare, il Coordinamento chiede un aumento di almeno due anni del periodo di transizione previsto dalla legge 79/2022.
Fra le richieste emerse durante il dibattito di novembre vi è anche quella di “aumentare il Fondo di finanziamento ordinario (FFO) di almeno 1 miliardo e mezzo, già dalla prossima finanziaria, eliminando l’attuale tetto di spesa”. Incrementando le risorse del FFO – finanziamento statale che costituisce una delle principali fonti di entrata per le Università italiane – si potrà, secondo il Coordinamento Re-Strike, riallineare “il rapporto studenti/docenti alla media europea, oltre che a dare ai 15 mila precariə della ricerca una concreta prospettiva, migliorandone davvero le condizioni di lavoro come affermato negli obiettivi della “riforma”. Simoncini sottolinea inoltre la necessità non solo di fornire risorse aggiuntive, ma anche che queste siano allocate secondo nuovi “criteri di distribuzione democratica e intelligente”.
Nel documento redatto dall’assemblea nazionale si reclama inoltre l’abolizione delle borse di studio per attività di ricerca, “forma contrattuale che non garantisce nessun diritto”, e delle docenze a contratto, definite da Simoncini “un aggiuntivo elemento di enorme precarietà”.
Lia Foschi
Fonte foto di copertina: Re-Strike