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Persone transgender e lavoro: una discriminazione sistemica

Lo scorso 11 giugno Cloe Bianco, una donna transgender, si è tolta la vita dandosi fuoco all’interno del camper in cui viveva. Come scriveva lei stessa nel blog PERsoneTRANSgenere, non si voleva conformare a quelli che sono i “dettami della collettività trans italica, specialmente riguardo le modalità di transizione da un genere all’altro”. Si riferiva agli interventi e terapie psicologiche e ormonali necessari in Italia per essere identificatə con un genere diverso da quello assegnato alla nascita, che creano un ‘monopolio’ sulla modalità di transizione. Per questo, non si era mai sottoposta a interventi chirurgici per conformare il suo sesso biologico alla sua identità di genere.

Bianco era un’insegnante di ruolo in un istituto tecnico in provincia di Venezia. Nel 2015 aveva deciso di utilizzare abiti ‘femminili’ anche sul posto di lavoro, parlando apertamente aə suə alunnə della sua identità. La polemica si scatenò immediatamente. Il padre di unə studentə scrisse una lettera di lamentele direttamente all’assessora all’Istruzione della regione Elena Donazzan. L’assessora, sostenendo le posizioni del genitore, aveva pubblicato l’intera lettera su Facebook e Cloe Bianco era stata sospesa dalla sua posizione per tre giorni. Una volta rientrata, è stata assegnata a svolgere mansioni di segreteria così che i suoi contatti con personale e alunnə fossero limitati.

Discriminazione sistemica

Cloe Bianco è stata emarginata, derisa e accusata pubblicamente. La sua storia non è un caso isolato, ma rientra nelle vicende di discriminazione e pregiudizi a danno di tutte le persone della comunità Lgbtqia+.
Con le Statistiche su inclusione e diversità LGBT+ degli anni 2019, 2020 e 2021, l’Istat in collaborazione con l’UNAR (Ufficio Nazionale Antidiscriminazioni Razziali) ha effettuato un’ampia indagine riferita alle “Diversità LGBT+” in ambito lavorativo. Si concentra su un target di oltre 21 mila individui in unione civile o unite civilmente in passato residenti in Italia. Di questi, il 12,6% afferma di non essersi presentato a un colloquio di lavoro o non aver fatto domanda perché pensava che l’ambiente di lavoro sarebbe stato ostile al suo orientamento sessuale. Le collezioni di dati che riguardano nello specifico le persone transgender sono molto minori rispetto a quelle riferite a lavoratorə omossessuali o bissessuali. Ciò dimostra da sé come il problema debba ancora essere studiato e approfondito.

Quando si tratta di affrontare un percorso di transizione, che sia a livello medico, chirurgico o no, l’aspetto psicologico della persona è molto importante da tenere in considerazione.
“La nostra volontà è di garantire alle persone che lo desiderano di intraprendere il loro percorso di affermazione di genere, trovando in noi e con noi dei professionistə qualificatə”, spiega in un’intervista a The Bottom Up Ilaria Ruzza, presidente di SatPink, un’associazione che nasce nel 2011 a Verona per fornire supporto e servizi a persone non-binary e trans. L’associazione agisce a livello territoriale e conta tre punti di accoglienza fisici a Verona, Padova e Rovigo, ma fanno riferimento a loro anche persone provenienti da regioni limitrofe, ad esempio dal mantovano e modenese. L’associazione è dotata di un’equipe psicologica, un team legale che aiuta coloro che lo richiedono ad affrontare il processo. “Le persone che si rivolgono a noi fanno un primo colloquio conoscitivo con lə nostrə operatorə, formatə appositamente in base alle singole richieste”. Ciò che risulta da questo primo dialogo aiuta l’associazione a designare un percorso ideale che verrà proposto aə interessatə.

Pride Roma, foto di Francesca Capoccia/The Bottom Up

La presidente spiega come, ancora oggi, la discriminazione più frequente che viene riportata dal mondo del lavoro è quella dovuta al coming out forzato.
Secondo la legge 164 del 1982, chi vuole rettificare il proprio sesso deve affrontare un iter ben preciso. Per prima cosa, il Tribunale del luogo in cui è residente l’interessatə deve, con una sentenza, accogliere la domanda e disporre poi all’ufficiale di stato civile del comune dove fu compilato l’atto di nascita di effettuare la rettificazione nel registro anagrafico. Le tempistiche possono risultare parecchio lunghe perché legate a quelle giudiziarie. Fino al momento in cui la pratica di rettificazione all’anagrafe non è completata le persone transgender sanno legate al loro dead name, ovvero il nome dato alla nascita e “vivono in un limbo in cui l’aspetto esteriore non è conforme al documento di identità, anche al di fuori del mondo del lavoro”, continua Ruzza.

In un’ipotetica situazione di colloquio lavorativo “ci si presenta con un curriculum e una lettera di raccomandazione che segue il nome scelto. Ma dal momento in cui è richiesto un documento ufficiale, si esplicita la condizione trans e il colloquio spesso non si conclude positivamente”. Lo stesso disagio si prova se il percorso di transizione inizia quando la persona è già inserita in un contesto lavorativo: “quando l’ambiente non è pronto inizia il mobbing – atteggiamenti individuali o di gruppo diretti contro una persona, con il fine di allontanarla dal posto di lavoro –, iniziano atteggiamenti discriminatori e la persona è costretta alle dimissioni, al licenziamento o al trasferimento in un’altra sede”. Le conseguenze problematiche di questo tipo di discriminazione sono molto gravi: “non potersi emancipare dalle famiglie di origine ed essere a volte costrettə a restare in contesti non di supporto; non potersi permettere un alloggio e iniziare una vita indipendente; accettare lavori in nero, sottopagati o senza tutele; non avere le risorse per poter continuare il percorso di affermazione di genere, che ha dei costi”. Questi ultimi sono riferibili sia al percorso psicologico, da affrontare per ottenere una diagnosi di disforia di genere, sia medico-chirurgico, qualora si voglia procedere con terapie ormonali o interventi.

Identità alias

Il nuovo contratto də lavoratorə statali, firmato il 9 maggio, conterrà una disposizione che permette aə dipendentə transgender di fare richiesta per ottenere l’identità alias. Si tratta di un’identità alternativa che risponda alle esigenze di sentirsi riconosciutə con il nome scelto, anche prima che questo sia registrato all’anagrafe.
Sono già state implementate delle iniziative simili a livello scolastico e universitario e dal Ministero delle infrastrutture, sotto la guida di Enrico Giovannini.

Il contratto collettivo nazionale è stato confermato dal governo. All’articolo 21 si legge come la disposizione dell’identità alias voglia, appunto, “eliminare situazioni di disagio ed evitare che possano determinarsi forme di discriminazioni” nel contesto lavorativo. Il nuovo nominativo sarà presente sul cartellino di riconoscimento, sulla targhetta della porta d’ufficio e sostituirà le vecchie credenziali per la posta elettronica. Al contrario, come specificato al comma 2 dello stesso articolo, non sarà possibile utilizzarlo per i documenti che hanno rilevanza strettamente personale, quali ad esempio la busta paga o gli eventuali provvedimenti disciplinari. Questa tipologia di atti, infatti, rimane legata ai documenti d’identità e, conseguentemente, al nome anagrafico.

Pride Roma, foto di Francesca Capoccia/The Bottom Up

Si dovrà presentare una richiesta alle Amministrazioni, secondo il regolamento stabilito da ciascuna. La domanda dovrà essere accompagnata da un’adeguata documentazione medica, ovvero da una diagnosi di disforia di genere. La disforia si manifesta con l’identificazione del soggetto in un genere differente rispetto al sesso biologico ed è diagnosticata attraverso un percorso psicologico che la accerta. La disforia di genere è stata depatolocizzata e riclassificata in ambito della salute sessuale come incongruenza di genere. La disforia può essere causa di estremo disagio o disabilità: in questi casi, se il percorso di accertamento è concentrato sul benessere də paziente, una sua diagnosi è vista da molti come appropriata. Ma in altri casi è considerata limitante. In un’intervista a Gay.it, il dottor Loris Patella. psicologo e sessuologo, spiega come le persone non binary – ovvero, quelle che non si riconoscono nei generi maschile e femminile – possono avvertire o meno un’incongruenza di genere. Spesso, però, un soggetto che si identifica non binario non sente la necessità di effettuare un percorso di transizione medicalizzata legata a terapie ormonali o chirurgiche.

La certificazione di disforia di genere è necessaria nella maggior parte dei casi in cui si voglia richiedere un’identità alias, anche a livello universitario. È stata esclusa, per ora, soltanto dagli atenei di Bologna e Padova. Gli studenti si sono battuti perché la possibilità di attivare una carriera alias sia accessibile anche alle personalità che non vogliono affrontare un percorso di transizione – quindi genderfluid o agender, ad esempio. Oltre la volontà də singolə, da tenere in considerazione sono anche le difficoltà economiche (imputabili anche alla difficoltà nel trovare un’occupazione) e quelle legate all’affrontare il percorso psicologico stesso che attesti la disforia.

Anche grandi aziende multinazionali hanno delle politiche di diversity management per la tutela dei lavoratori appartenenti alla comunità Lgbtqia+, come IKEA, Amazon, H&M, Lush e Decathlon. “Il fatto che sia arrivata questa tutela normativa per il settore pubblico, non significa che ad essa corrispondano tutele reali. Se non si mettono in atto politiche inclusive, corsi di formazioni, momenti di riflessione all’interno delle aziende o nei luoghi pubblici, sarà molto difficile cambiare la mentalità”, ci ricorda Irene Ruzza. “La strada è sicuramente ancora lunga, ma molte associazioni sindacali si stanno muovendo nella direzione giusta”. Infatti, la comunità trans è, in generale, cresciuta, come la loro visibilità e con la crescita dei numeri è difficile non affrontare il tema.

Diletta Pianezzi

Foto di copertina: Francesca Capoccia/The Bottom Up

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