Sono passati tre anni dall’omicidio che ha rivoluzionato la Slovacchia. Ján Kuciak e Martina Kušnírová, entrambi ventisette anni, sono stati assassinati il 21 febbraio del 2018 a Vel’ká Mača, poco lontano da Bratislava.
Ján era un giornalista d’inchiesta, specializzato in data analysis e nell’individuazione di operazioni finanziarie illecite. Nel suo ultimo articolo, realizzato insieme a IRPI (Investigative Reporting Project Italy) e pubblicato postumo dai giornali di tutto il mondo, aveva ricostruito i rapporti tra alcuni uomini d’affari vicini alla ‘ndrangheta e il partito SMER-Socialdemocrazia, portando alla luce una rete di conoscenze influenti che arrivava fino all’ufficio dell’allora primo ministro, Robert Fico.
Seppur inizialmente l’uccisione dei due giovani fosse stata ricondotta al contenuto dell’ultima inchiesta, nei mesi successivi le indagini della Polizia slovacca si sono concentrate sull’oligarca Marián Kočner, i cui affari criminali erano stati oggetto di numerosi lavori di Ján. Kočner era, ed è tuttora, uno degli uomini più potenti del Paese, potendo vantare il controllo su membri delle istituzioni e dei servizi segreti, che pedinava e intercettava per poter ricattare. Aveva minacciato telefonicamente anche lo stesso Ján, nel settembre 2017, ma alla denuncia del giornalista non era seguito alcun provvedimento. Con il movente di voler mettere a tacere Ján e vendicarsi di quanto pubblicato dal ragazzo, il pubblico ministero aveva individuato in Kočner il mandante dell’omicidio.
Lo scorso settembre, tuttavia, la Corte Penale di Pezinok ha condannato gli esecutori materiali dell’omicidio a 25 e 23 anni, mentre ha assolto i presunti mandanti, Marián Kočner e Alena Zsuzsová. Nonostante il procuratore abbia chiesto il riesame della Corte Suprema e il giudizio definitivo sia atteso per i prossimi mesi, l’esito della sentenza ha profondamente deluso l’opinione pubblica slovacca, che dopo la morte dei giovani si era riversata nelle strade esigendo che venissero condotte indagini trasparenti ed indipendenti, e chiedendo elezioni anticipate.
Ján è diventato il simbolo della lotta contro gli oligarchi e la corruzione sistemica, in un Paese che da anni ha ormai perso la fiducia nelle proprie istituzioni e in particolare nel partito SMER, al governo da un decennio. La sua storia ha contribuito ad attirare l’attenzione sul fondamentale lavoro dei giornalisti investigativi in Slovacchia, al punto che il primo centro investigativo del Paese, l’Investigative Center of Ján Kuciak (ICJK), ha preso il suo nome. “Il nome del talento giornalistico più significativo della sua generazione” come si può leggere nella descrizione del centro.
Lukáš Diko, presidente e redattore capo presso l’ICJK, descrive il lavoro del Centro e parla dei mutamenti che hanno interessato la Slovacchia nei tre anni trascorsi dalla scomparsa di Ján.

Com’è nato ICJK e in che modo porta avanti l’eredità del lavoro di Ján?
Il ICJK è stato fondato dopo l’omicidio di Ján e Martina, su iniziativa Pavla Holcová del Czech Center for Investigative Journalism, di Zuzana Petková, giornalista investigativa e direttrice della Fondazione Stop the Corruption e di Arpád Soltész, reporter investigativo. Prima non esisteva nulla di simile in Slovacchia.
Il Centro è nato per realizzare il progetto di Ján che, avendo lavorato per il centro investigativo della Repubblica Ceca, aveva avuto modo di sperimentare l’impatto sociale che potevano ottenere i giornalisti unendo le loro risorse. Oggi ci adoperiamo per portare avanti la sua eredità, cercando di realizzare il miglior giornalismo investigativo possibile, basato su dati e fatti verificati, ma anche presentando il nostro lavoro in modo che risulti interessante per le persone.
Ci basiamo molto sulla cooperazione tra i media e sulla condivisione delle scoperte, perché era ciò a cui aspirava Ján: che si collaborasse invece che entrare in competizione.
Con quali fondi è stato fondato il Centro e come riesce a rimanere indipendente?
Non abbiamo mai chiesto fondi dal governo slovacco perché non vogliamo compromettere l’indipendenza del progetto, e rischiare di perdere la nostra imparzialità nei confronti del governo.
L’avvio del Centro è stato possibile grazie ad una raccolta fondi, al contributo di alcune organizzazioni e del Fondo per il Giornalismo Investigativo, creato anch’esso dopo l’omicidio.
Oggi ci appoggiamo ai bandi per i finanziamenti dei progetti investigativi e al contributo di chi ci segue.
Da questo punto di vista, l’Ungheria è un esempio di cosa può andare storto quando i media vengono finanziati dal governo. Come ICJK avete scoperto che alcuni dei finanziamenti previsti dal governo Orban raggiungono anche la Slovacchia.
Pensi che questo possa compromettere il pluralismo e la libertà di stampa dei vostri media?
La nostra inchiesta ha raccontato il sistema di finanziamenti destinati ai giornali delle minoranze ungheresi che vivono all’estero, non soltanto in Slovacchia ma anche in Croazia, Romania, Serbia, Slovenia e Ucraina. È un sistema non dissimile a quello impiegato da altri Stati nei confronti delle loro minoranze nazionali all’estero, senonché, secondo le nostre analisi, il governo ungherese si limita a supportare le realtà che lo sostengono e ne diffondono la propaganda, contribuendo in questo modo a distorcere la percezione dei lettori. Questo fenomeno, però interessa soltanto i media della minoranza ungherese (di cui fanno parte circa il 10% dei cittadini slovacchi), non la totalità dei media slovacchi.
Parliamo del processo per l’omicidio di Ján, conclusosi lo scorso settembre.
Secondo il Comitato per la protezione dei giornalisti, nove volte su dieci i processi legati alla morte di un giornalista si concludono con l’impunità del colpevole, ma nel caso di Ján e Martina gli esecutori materiali sono stati condannati, anche grazie al contributo dei giornalisti investigativi.
Credi che senza il vostro apporto sarebbe stato possibile condurre indagini imparziali?
Penso che ci siano stati anche altri fattori che hanno spinto le autorità ad investigare correttamente, primo tra tutti il fatto che l’omicidio di Ján e Martina ha portato decine di migliaia di persone a riversarsi nelle strade per chiedere indagini indipendenti sul caso, oltre che le dimissioni del Primo Ministro e del Ministro dell’interno.
Non credo sia possibile spiegare quale shock sia stato per la Slovacchia il fatto che un giornalista sia stato ucciso a causa del suo lavoro, come è emerso in seguito.
Io credo che sia stata soprattutto questa pressione pubblica ad aver consentito il corretto svolgimento dell’istruttoria. Nonostante siano stati documentati tentativi di pilotare le indagini, gli investigatori e il pubblico ministero sono riusciti a raccogliere elementi sufficienti per trascinare i responsabili di fronte ad una corte.
Alla fine l’oligarca Marián Kočner, finora intoccabile per via delle sue amicizie con giudici e procuratori, è stato processato. Oggi si trova in carcere per reati di frode, sui quali lo stesso Ján aveva investigato, ma è stato invece assolto per l’omicidio dei due giovani.
È possibile che sia stato prosciolto per via dell’influenza che ancora detiene all’interno del sistema giudiziario?
Non c’è prova che abbia influenzato in qualche modo la corte. Come dicevo, ci ha provato, ma i suoi tentativi sono falliti. Non posso dirlo al 100%, ma al 99% credo che la sentenza non sia frutto di manomissione.
Ad oggi la Corte ha decretato l’assoluzione di Kočner e della sua collaboratrice Alena Zsuzsová per insufficienza di prove, ma il processo non è ancora concluso. Vedremo cosa dirà la Corte Suprema, e come valuterà le prove prodotte in dibattimento.
È possibile che emergano nuovi indizi dalla “Kočner library”? Di cosa si tratta?
È un progetto al quale stiamo lavorando insieme ai giornalisti di varie testate slovacche: stiamo analizzando i 70 terabyte di dati del file investigativo dell’omicidio di Ján e Martina. Anche qui, l’idea principale è la cooperazione: non cerchiamo di avere uno scoop, ma se qualcuno trova qualcosa tutti ne scriviamo allo stesso momento.
Quanto emerso dalle nostre ricerche ha dato avvio a numerose indagini, soprattutto grazie ai tabulati dei messaggi che Marián Kočner inviava ai suoi conoscenti attraverso l’app Threema, che ci hanno permesso di ricostruire le sue conoscenze e le sue amicizie. Ad esempio, la parlamentare Petra Krištúfková ha dovuto dimettersi dall’incarico, quando sono state ritrovate le sue foto su uno yatch insieme all’oligarca.
Poi sono emersi episodi di turbativa degli appalti pubblici, ad esempio nel caso della potente società di sicurezza privata Bonul, i cui proprietari (ndr la famiglia Bödör, di cui si era occupato anche Ján Kuciak nei suoi articoli), sembrano essere connessi al partito SMER. Uno di loro è stato anche accusato di aver assoldato un gruppo di funzionari di polizia per corrompere e ricattare altri uomini d’affari.
Nel corso dell’ultimo anno sono stati avviati almeno venti o trenta casi giudiziari simili a questi, basati sulle storie emerse dalla Kočner library e sulle prove che abbiamo prodotto.
In un primo momento, dopo la morte di Ján, i sospetti sono ricaduti su alcuni imprenditori italiani residenti in Slovacchia e legati alla ‘Ndrangheta. Pensi che sia stato un errore aver abbandonato la “pista italiana” così presto nel corso delle indagini? Dalla “Kočner Library” sono emersi altri elementi che dimostrano i rapporti tra la criminalità organizzata italiana e i leader politici slovacchi?
All’inizio delle indagini si sono da subito delineate una pista che portava a Kočner e una che portava alla mafia calabrese, per via dell’ultimo articolo scritto da Ján. La polizia si è mossa rapidamente e ha messo in stato di fermo alcuni uomini d’affari italiani per verificare il loro coinvolgimento, rilasciandoli pochi giorni dopo. Io ho avuto modo di leggere i file delle indagini e non credo che fosse troppo presto per abbandonare la pista italiana. Penso, anzi, che la polizia e il team investigativo abbiano fatto un buon lavoro nel raccogliere le prove, e che queste non dimostrassero alcun legame con la mafia italiana.
Per quanto riguarda il nostro lavoro di ricerca, siamo riusciti a ricostruire episodi di frodi e altri presunti crimini che vedono il coinvolgimento di persone residenti in Slovacchia e vicine alla mafia italiana, ma non so se qualcuno di loro sia mai stato condannato per associazione di tipo mafioso.
Oggi stiamo lavorando ad altre storie di questo tipo, ma non posso ancora scendere nei dettagli.
La morte di Ján e Martina ha contribuito a portare a galla un sistema di corruzione, minacce e funzionari compiacenti che aveva raggiunto il cuore delle istituzioni slovacche.
Oggi i cittadini hanno riacquistato fiducia nelle istituzioni, nelle forze dell’ordine e nel sistema giudiziario?
Vedi, il partito OL’aNO ha vinto le elezioni un anno fa, basando la sua campagna elettorale sull’esigenza di fermare la corruzione e condannare tutte le persone coinvolte negli scandali. In quest’ottica, una volta saliti al governo hanno provveduto a sostituire procuratori, magistrati e uomini delle forze dell’ordine, ma questo non sembra essere bastato a far riguadagnare fiducia nel sistema alle persone.
Penso che la gente sia stanca, sono molti anni che le prove raccolte dai giornalisti e le storie pubblicate non vengono investigate adeguatamente, con l’unica eccezione della morte di Ján.
Negli ultimi due anni sono stati costruiti dei casi solidi anche contro soggetti molto potenti, come l’uomo a capo della compagnia di sicurezza Bonul di cui ho parlato prima, o altri importanti oligarchi vicini al partito SMER, ma questo non è sufficiente se alla fine queste persone non vengono mai accusate.
In passato, durante il governo del Primo Ministro Vladimír Mečiar, abbiamo vissuto una situazione analoga quando i servizi segreti slovacchi sono stati coinvolti in alcuni scandali legati al Partito Popolare di Mečiar, tra cui il rapimento del figlio del Presidente della Repubblica.
Sono stati avviati almeno quindici processi relativi a questi eventi a partire dal 1998, ma quasi nessuno è terminato con la condanna degli imputati. Avendo già visto come sono andate le cose in passato, se nemmeno ora la polizia riuscirà a produrre prove sufficienti a far condannare i colpevoli, la sfiducia delle persone nelle forze dell’ordine e nel funzionamento del sistema giudiziario non farà che aumentare.
Com’è possibile che l’ex primo ministro Robert Fico sia ancora politicamente attivo, e non sia stato processato dopo che sono state rese pubbliche le sue connessioni con gli esponenti della ‘ndrangeta e con Marián Kočner?
Preferisco non commentare le vicende di politici specifici, dirò solo che in tutte le nazioni democratiche le persone sono da ritenersi innocenti fino a prova contraria. Per quanto riguarda le connessioni emerse grazie alle indagini di Ján e dalle ricerche successive, ad esempio quella tra gli imprenditori calabresi e i funzionari dell’ufficio di Fico, non lo vedono coinvolto in prima persona.
Tuttavia Fico rimane una figura controversa, che tra le altre cose ha spesso attaccato e minacciato i media. Ad esempio, pochi mesi fa la giornalista Monika Todova ha riportato di essere stata seguita dai suoi uomini.
Tu hai mai temuto per la tua sicurezza nello svolgere il tuo lavoro? Pensi che oggi i giornalisti siano più tutelati, rispetto a tre anni fa?
Penso che i ripetuti attacchi verbali indirizzati ai media da parte di Fico e altri politici, siano ormai divenuti uno strumento della politica e che questo porti ad un pericoloso calo di fiducia nei mezzi di informazione da parte del pubblico.
Per quanto riguarda la mia sicurezza personale (sospira), io fortunatamente non sono stato seguito dagli uomini di Kočner né da altri, com’è successo ai miei colleghi e ad Ján. Penso che ora siamo tutti più consapevoli dei rischi che possiamo correre, molto più alti di quelli che ci saremmo mai potuti aspettare prima che Ján fosse ucciso.
Ma cerchiamo nuovi modi per farvi fronte, ad esempio cooperando nella Kočner Library e in altre iniziative. Questo tipo di collaborazione non esisteva prima dell’omicidio, penso sia un modo che i giornalisti hanno trovato per reagire a questo clima di insicurezza.
Poi credo che adesso anche i politici e le forze dell’ordine siano più sensibili quando si tratta dell’incolumità dei giornalisti, e spero che lo siano anche le persone.
A tal proposito, da alcuni mesi è stata annunciata l’emanazione una nuova legge sui media e sulla protezione dei giornalisti. Pensi che fornisca ai giornalisti gli strumenti necessari per svolgere al meglio il loro lavoro?
Si è parlato di una nuova legge, ma io non l’ho vista. Sono in contatto con il Segretario di Stato del Ministero della Cultura, perché come Centro Investigativo vorremmo essere coinvolti nella discussione, analizzare la proposta e parlarne con avvocati ed esperti che possano compararla con la legislazione estera. Solo a quel punto potremmo dire cosa ne pensiamo, ma non sembra essere ancora avvenuta questa discussione in seno all’attuale governo. Sembra che il segretario del ministero della cultura stesse preparando la discussione in marzo, ma ora con la crisi di governo non so se l’iter di questa legge potrà proseguire.
Da cosa è dipesa la crisi?
È complicato. L’insoddisfazione nei confronti di OL’aNO è nata dalla cattiva gestione della pandemia, ma la crisi è stata scatenata dal fatto che (l’ormai ex) Primo Ministro Igor Matovič ha scelto di comprare il vaccino Sputnik dalla Russia senza l’approvazione ufficiale dell’EMA, presentandolo con grandi cerimonie. Per questa scelta è stato fortemente criticato dai partiti di coalizione che da mesi non facevano che discutere al loro interno, nonostante la Slovacchia fosse tra gli Stati con il maggior numero di morti a causa del Covid in rapporto agli abitanti.
Pensi che il fallimento di OL’aNO possa riportare il partito SMER al governo, e cancellare i progressi realizzati negli ultimi anni nel campo della legalità e della trasparenza?
L’anno scorso OL’aNO ha vinto le elezioni inaspettatamente, raccogliendo i voti dei cittadini speranzosi che volevano eliminare il morbo della corruzione, ma il modo in cui poi hanno governato il Paese ha aperto gli occhi a molte persone. Per quanto riguarda il vecchio partito di maggioranza, invece, è avvenuta una scissione al suo interno. Ora c’è SMER di Robert Fico, e il partito HLAS di Peter Pellegrini, che ha succeduto Fico nel ruolo di Primo Ministro dopo che quest’ultimo aveva rassegnato le dimissioni, un mese dopo la morte di Ján.
Non so cosa succederà nei prossimi mesi. In vent’anni nel giornalismo ho visto molte cose che non mi sarei mai aspettato ma, a meno che non avvengano eventi straordinari, penso che OL’aNO avrà una percentuale molto minore rispetto alle ultime elezioni, e che non SMER, ma HLAS, potrebbe invece ottenere un forte consenso. Il problema è che, anche se Pellegrini si è distanziato dallo SMER, il suo nuovo partito è composto dalle stesse persone che vi hanno militato per anni.
Tutti i leader di HLAS ne hanno fatto parte, alcuni di loro, tra cui lo stesso Pellegrini, sono lì dall’inizio e altri sono stati ministri di SMER per due o tre governi. Certo, può sempre darsi che con questo nuovo partito abbiano voluto liberarsi di Fico, percepito come il simbolo della vecchia classe dirigente corrotta, e dell’influenza degli oligarchi. Alcuni articoli hanno insinuato che anche in HLAS possano esserci intrecci di questo tipo, ma queste affermazioni non sono state provate e non possiamo sapere se vi siano realmente elementi vicini agli oligarchi.
Ad ogni modo, qui va sempre così. C’è un ampio gruppo di elettori che si schiera soltanto in prossimità delle elezioni, e quasi sempre tende a votare per il nuovo partito. Penso siano elettori guidati dalla speranza: l’anno scorso hanno votato OL’aNO, forse tra tre anni voteranno per HLAS, perché sono speranzosi che il nuovo porterà il cambiamento che vogliono. Quasi sempre, però, capita che poi rimangano delusi e la volta dopo votino per qualcun altro, e così via.
Un’ultima domanda, cosa raccomandi ai giovani che vogliono lavorare nel giornalismo investigativo?
Le raccomandazioni principali sono quelle di seguire il proprio istinto, essere sempre curiosi e fare sempre domande, andando dove portano i fatti senza cercare scorciatoie e risposte facili, anche se può sembrare difficile in questi tempi veloci lavorare ad un’inchiesta per molti mesi.
Per quanto riguarda la sicurezza…tre anni fa la mia risposta sarebbe stata diversa, perché non mi sarei mai aspettato che un giornalista investigativo avrebbe potuto essere ucciso qui in Slovacchia. Penso che chi si occupa di inchieste debba muoversi con attenzione quando si imbatte in qualcosa di potenzialmente pericoloso. Questo è quello che cerco di fare anche qui, nel Centro, garantendo comunicazioni protette e spingendo a confrontarsi sempre con i colleghi.
Tuttavia, penso che non si dovrebbe mai avere paura, perché questo frenerebbe dall’essere curiosi e non permetterebbe di vedere il quadro completo delle cose.
Chiara Zannelli