Esistono molteplici possibilità per narrare quello che sta succedendo lungo la rotta balcanica. Il fotoreportage è sicuramente una di queste: un racconto basato sui volti, sui movimenti, sulle voci delle persone che si trovano sulla strada in Bosnia, in Crozia, in Slovenia e anche in Italia. Le fotografie scattate, insieme alle parole, hanno un potere fondamentale: arrivano dritte a chi le osserva, suscitando emozioni senza filtri. Questo il valore aggiunto, secondo il fotogiornalista indipendente Valerio Nicolosi, del racconto fotografico delle migrazioni. Regista, fotografo e giornalista, Nicolosi si occupa di rotte migratorie e di Medio Oriente e, a partire dal 2015, ha più volte lavorato lungo la rotta balcanica soffermandosi spesso, negli ultimi inverni, in Bosnia.
Proprio alla Bosnia oggi è rivolta l’attenzione dei media e delle organizzazioni internazionali, dopo che lo scorso 23 dicembre un incendio ha distrutto il campo profughi di Lipa. Si è trattato di un evento che ha suscitato molto scalpore nell’opinione pubblica e politica e che ha acceso i riflettori, ancora una volta, su una triste e ciclica situazione: la condizione delle persone migranti lungo la rotta balcanica. Nel reportage scritto da Francesco Cibati per The Bottom Up si capisce chiaramente cosa si intenda per ‘ciclica’. I primi arrivi risalgono al 2017, seguiti da un incremento nel 2018 e 2019, per poi diminuire nel 2020, a causa dei respingimenti dei Paesi limitrofi. Sorge spontaneo chiedersi perché tutta l’attenzione sia stata rivolta a Lipa, a seguito dell’incendio, come se fosse l’unico campo presente sulla rotta balcanica degno di attenzione mediatica. Purtroppo il contesto generale è molto più complesso e vale la pena andare oltre le narrazioni correnti, per cercare di comprendere cosa realmente affrontano i e le migranti che percorrono la rotta balcanica.
Con questo obiettivo, abbiamo intervistato proprio Valerio Nicolosi, che è tornato recentemente in Bosnia per verificare le conseguenze degli eventi di fine dicembre e la condizione di coloro che vivono nei campi, in un periodo particolarmente rigido come l’inverno. La sua prima osservazione è farci sapere che “la situazione non è mai cambiata nel corso degli anni, al contrario è tragicamente stabile” e soprattutto, come ci racconta, “mi ha colpito vedere che l’attenzione della stampa italiana sia stata così concentrata su Lipa, quando in realtà è uno dei tanti punti sui quali dovremmo focalizzarci”. Nicolosi è convinto che per affrontare realmente questa situazione tragica non si dovrebbe parlare solo di un evento circoscritto, seppur drammatico, come può essere stato l’incendio al campo di Lipa, ma analizzare tutto il contesto, partendo dalla chiusura delle frontiere. “Non dobbiamo dimenticarci che il campo di Lipa è comunque gestito da IOM (International Organization for Migration) e rientra nella sfera dell’accoglienza dove i migranti possono essere presi in custodia e aiutati. Ma chi si occupa degli altri 7.000, sparsi in altri campi fuori dall’accoglienza, senza un pasto al giorno, senza bagni, e che vivono in fabbriche abbandonate?”

Nicolosi si occupa di testimoniare non tanto quello che appare sotto i riflettori, ma il nascosto, il complesso, ciò che necessita di essere compreso anche con tempistiche diverse. Tra un impegno e l’altro, cerca di recarsi sul campo: “scelgo il periodo e i luoghi dove c’è meno attenzione mediatica, anche se a volte mi ci ritrovo senza volerlo. Per il lavoro che faccio io e per le storie che voglio raccontare ho bisogno del momento di minima attenzione”. Inoltre, ha bisogno di conoscere le persone prima di raccontarle e questo approccio esige tempi diversi e più lenti rispetto alle interviste veloci di altri giornalisti. “Non mi interessa la polemica, mi interessa il racconto e per trovarlo cerco contatti in loco, prima di partire, oppure parto direttamente, come nel caso della Bosnia, dove mi sono recato per la prima volta da solo, nonostante non avessi alcun appoggio”.
Nicolosi ci confessa che lungo la rotta balcanica c’è una grande consapevolezza dell’importanza del racconto e molte delle persone che ha incontrato sono state disposte a parlare e a confidarsi con lui. Ci sono aspetti legati al suo lavoro da fotografo che mettono in luce una tipologia di narrazione personale e intima. “La foto è l’ultima cosa che faccio: prima vado sul posto e mi faccio raccontare le storie e poi eventualmente scatto”. L’intento di questo approccio non è fare notizia, ma entrare in empatia con le persone e metterle a proprio agio. Una delle dinamiche da prendere in considerazione quando ci si reca in questi luoghi è il consenso delle persone fotografate e la tutela delle fonti, ma come ci confida: “le persone sono ben disposte e non si creano spesso problemi. Se ogni tanto qualcuno mi comunica di non voler essere fotografato, giro la camera e faccio altro”.
Il lavoro del fotoreporter ha bisogno di tempo per conoscere e capire quale può essere il momento migliore per scattare. Le prime immagini sono sicuramente più ingessate e meno naturali, ma piano piano, entrando in confidenza, le persone iniziano a fidarsi di chi sta dietro la camera e si lasciano riprendere. Questa è la ragione per cui Nicolosi preferisce non recarsi dove l’attenzione mediatica è troppo alta, altrimenti non avrebbe nè tempo nè possibilità di stabilire un contatto diretto con queste persone. “Ci sono punti di forza nell’utilizzo di immagini: se fatto con coscienza questo lavoro può davvero mostrare e testimoniare con un grande impatto visivo determinate situazioni”. Ma ci sono anche dei rischi: “il rovescio della medaglia è che a volte le foto e i video raccontino delle scene dove la dignità delle persone viene meno”.
La linea tra una fotografia rispettosa del soggetto e una dove il soggetto diventa mera informazione è veramente sottile. “Nel mio ultimo viaggio ho fotografato molte persone mentre si facevano la doccia al gelo, ma non erano sconosciuti per me. Prima ci ho parlato e li ho conosciuti e ho chiesto loro se potevo documentare questo aspetto della loro vita quotidiana”. Ci sono purtroppo alcuni servizi che vengono trasmessi in televisione dove ‘sconosciuti’ vengono ripresi nella loro intimità senza consenso e così la loro dignità finisce per non essere rispettata. “Io cerco di enfatizzare la dignità di queste persone, o almeno ci provo” ed è sicuramente uno degli aspetti più importanti da prendere in considerazione in questi casi.

Spesso, ancora oggi, la rotta balcanica attira l’attenzione dell’opinione pubblica solo quando accade qualcosa di straordinario, come l’incendio del campo profughi di Lipa. Ma quella di Lipa è soltanto una delle tante emergenze. Le politiche italiane sulle migrazioni degli ultimi anni hanno permesso che le persone venissero respinte alle frontiere, anche con la forza, pur consapevoli delle condizioni di vita nei campi profughi e delle violenze subite durante il percorso migratorio. Molte delle persone che ha incontrato Nicolosi nel corso degli anni hanno tentato il cosiddetto “game” per entrare in Europa attraversando Croazia, Slovenia e Italia. Ad ogni passo falso le persone vengono rimandate indietro, finendo per ritrovarsi al punto di partenza in Bosnia, dove già erano arrivate dopo lunghe traversate dalla Turchia e dalla Grecia. Peraltro, i respingimenti italiani sono recentemente stati dichiarati illegittimi dal Tribunale di Roma e le violenze sui corpi delle persone sono solo alcune delle conseguenze che queste pratiche, tutt’altro che pacifiche, possono avere.
In questi mesi, Nicolosi sta lavorando a un documentario sulle frontiere d’Europa per parlare ancora una volta di un argomento che troppo spesso viene affrontato ponendosi quesiti sbagliati e dando risposte insoddisfacenti. L’urgenza di occuparsi dei flussi migratori lungo la rotta balcanica è grande e imprescindibile, che sia attraverso la parola scritta o per immagini. L’apporto visivo che è in grado di dare il fotoreporter è sicuramente fondamentale per testimoniare realtà che sembrano lontane, ma riguardano ognuno di noi. La necessità odierna è non far spegnere i riflettori su questa situazione e impegnarsi ad essere più empatici e più umani.
Lucrezia Quadri
Tutte le fotografie © Valerio Nicolosi.
2 pensieri su “Come si racconta la rotta balcanica? Intervista al fotoreporter indipendente Valerio Nicolosi”