Una storia longform parte del progetto Signal, un progetto editoriale in cui cerchiamo di darvi il segnale, ovvero strumenti per comprendere la complessità statunitense, spiegandone le dinamiche politiche, sociali e storiche più profonde.
[immagine di copertina: illustrazione di Stefano Grassi per TBU]
“Quando Colombo approdò nel 1492 a Hispaniola, era convinto di avere raggiunto l’Asia da Oriente [..]. E nulla cambiò ai suoi occhi nemmeno quando ci si rese conto che il nuovo continente non solo non era l’India occidentale immensamente ricca d’oro e di spezie, ma anzi un formidabile ostacolo sulla via per raggiungerla [..] E siccome noi uomini propendiamo proprio a questo, egli “risolse” il conflitto tra le cose com’erano e come egli riteneva che dovessero essere, sacrificando i nudi fatti sull’altare dei suoi sogni . Ma così egli divenne il capostipite di tutti i pellegrini d’America i quali sanno a priori che dall’altra parte dell’Atlantico troveranno il favoloso Nuovo e che, grazie a questa profezia che si autoadempie, divengono in brevissimo tempo più americani degli Americani.”
Così inizia “America istruzioni per l’uso”, piccolo saggio di Paul Watzlawick, psicologo e filosofo austriaco naturalizzato statunitense. Una guida di viaggio, pubblicata in italiano nel 1985 da Feltrinelli, che usa la quotidianità per evidenziare le differenze culturali tra Stati Uniti ed Europa: oggetto del testo è l’estraneità, intesa come “contrasto con il consueto”. Si passa dall’uso del sistema con 12 ore (am e pm), al fatto che il British toilet diventi restroom, forse per una questione di pudore. Si parla dell’uso del contante visto come sintomo di inaffidabilità in quanto incapaci di essere degni di (carta di) credito, all’uniformità linguistica che contribuisce alla straordinaria mobilità interna della popolazione.
A lettori cosmopoliti o avidi consumatori di prodotti visivi, che siano film di Hollywood o serie di Netflix, questi dettagli potranno essere conosciuti, o perlomeno sembrare tali. Non si pensi tuttavia di confinare il dominio mediatico statunitense dentro un circolo del cinema. La vicinanza culturale si traduce in maggiori scambi commerciali e bancari (la Cina sta cercando di investire sempre di più su questo aspetto, che rientra nella più generale categoria politologica del soft power). Si traduce anche in maggiori scambi migratori, temporanei e di lungo periodo.
Come quantificare la centralità culturale?
Tra le varie possibili misure, una è data dal numero di italiani che partecipano al programma di Intercultura (AFS), onlus che permette a studenti di quarta superiore di vivere all’estero, ospitati da una famiglia, e frequentare una scuola del posto. Nel 2019 dall’Italia sono partiti in 10mila. Circa un quarto volano negli Stati Uniti.
Non solo solamente in uscita, ma anche in entrata: l’Italia [in giallo] è la seconda destinazione preferita dagli studenti statunitensi, di poco sotto il Regno Unito:

Fonte: Elaborazione propria su dati OpenDoors.
Un’altra lente è quella dell’emigrazione. Nonostante forte trend negativo, nel 2019 ci sono più di 300mila italiani residenti negli USA (legali e illegali): tra il 2009 e il 2018, dati Istat, circa 50mila italiani si sono trasferiti negli States. Un numero equivalente all’intero comune di Battipaglia.

Ovviamente si potrebbero trovare altri indicatori più prettamente culturali: perché conosciamo i cartoni della Disney e non Krtek, la talpa cecoslovacca? Perché se dico: facemmo tutta una tirata da Omaha a Tucson sembra figo, anche se questo comporta rimanere in macchina in mezzo al nulla per ore, mentre da Piumazzo a Sant’Anna Pelago non è la stessa cosa?
Dalla Costituzione alla Guerra Fredda
Dopo il crollo del muro di Berlino, siamo diventati tutti “americani”: l’URSS ha perso, vince l’Ovest. Il linguaggio sportivo riflette la natura acritica delle varie posizioni pre-1989, o con gli USA o con Stalin. Nascondendo la violenza dei due schieramenti: i carri armati sovietici a Budapest e Praga, i massacri sponsorizzati dagli USA in Indonesia, Africa, America Latina. I documenti ufficiali vengono desecretati, si passa da cronaca a Storia. Non senza traumi per chi ha costruito una carriera o un credo politico sulla base di informazione limitata. La Guerra Fredda ha sicuramente radicalizzato gli Italiani, con un PCI legato dalla conventio ad excludendum e il piano Marshall a sostenere un Paese strategico a confine con la Jugoslavia di Tito (leader dei non-allineati di Bandung). Ma sarebbe riduttivo scavare solo fino al 1945: il fascino degli USA sugli italiani, e in generale sugli Europei, nasce da ben prima. Tra il 1880 e il 1924, 4 milioni di Italiani emigrano negli States. È il tempo della corsa all’oro in California, dopo quella del Klondike: la fase finale della conquista dell’Ovest (o meglio, del genocidio dei nativi americani).
A sostegno del sogno dell’America, la Dichiarazione d’Indipendenza del 1776. In essa, i neonati Stati Uniti garantiscono ai loro cittadini il diritto alla ricerca della felicità. Qui ha origine l’inganno di Thomas Jefferson, l’autore della bozza della Dichiarazione. La scrittrice Anne Taylor Fleming, in un articolo su Newsweek del 1975, lo riassume così:
” [..] ancora aspetto di essere felice, di avere quella rara combinazione di pancia piena e cuore gonfio che sentivo da bambina. E quando non sono felice, quando il mio stato d’animo anche per una sola giornata non è equilibrato, allora mi arrabbio. Mi sento ingannata e per molti anni ho ritenuto di essere l’unica a soffrire di questo inganno. Adesso sono invece convinta che quasi tutti gli Americani sentono allo stesso modo, che non solo da bambini ma per tutta la vita ci aspettiamo la felicità e che a causa di questa aspettativa non siamo capaci di sopportare dignitosamente l’infelicità.”
Sconfitta l’URSS, tra il 1990 e il 2008 Colombo e Jefferson si prendono per mano: sogno e felicità USA diventano valori universali. Vietato criticare il modello Americano. Sia dall’interno, silenziando l’epidemia di morti per suicidio, alcool e droga, le deaths of despair della classe media e bianca analizzate da Deaton e Case nel loro ultimo libro. Sia dall’esterno: tutti gli stati tendono ad adottare il modello Reagan/Clinton, senza che nessuno faccia a controllare le ipotesi che reggono l’impianto teorico economico neoliberista e globalista. La direzione è quella di un capitalismo rent-seeking, simile a quello clientelare che avrebbe dovuto combattere, non unirsi a lui.
2020: risveglio dal sogno?
La crisi finanziaria del 2008 dà la prima spallata, mettendo in discussione il modello finanziario nato dal ventennio della great moderation. In ambito culturale, il dominio mediatico di Hollywood, Netflix, Amazon e Disney aumenta, raramente messo in crisi, se non in piccole occasioni, come quando Bong Joon Ho, regista di Parasite, riduce l’Academy a un circolo di provincia: “The Oscars are not an international film festival. They’re very local”.
Ma soprattutto, ed è la tesi, è il 2020 ad aver portato il grande pubblico vicino al risveglio. Due gli attori principali: le proteste scatenate dalla morte di George Floyd e la gestione dell’amministrazione Trump della crisi Covid-19. Le prime hanno raggiunto un pubblico globale, rendendo giustizia al Colin Kaepernick del 2016, primo a rendere l’inginocchiarsi durante l’inno nazionale simbolo della lotta alla violenza della polizia e della segregazione razziale.
Il Covid ha mostrato al mondo e agli stessi statunitensi i limiti del loro Paese. Alcuni specifici all’amministrazione Trump e al suo elettorato: il rifiuto di adottare una strategia federale basata sull’evidenza scientifica, le proteste anti-lockdown. Altri più strutturali: un sistema federale che, come in Germania, penalizza la coordinazione in caso di emergenza; ma soprattutto il fatto che non esistono contratti a tempo indeterminato, e quindi in caso di crisi si perde il lavoro, e con esso l’assicurazione, unico strumento, oltre a Medicare e Medicaid, che garantisce l’accesso alle cure sanitarie senza il rischio della bancarotta. Difficile attribuire la responsabilità totale a Trump: come scritto in precedenza, Sanders viene percepito dall’elettorato dem come portatore di riforme estremiste, al netto degli a priori italiani: i Democratici sono ampiamente corresponsabili della polarizzazione e delle disuguaglianze presenti nel Paese.
Gli italiani ne stanno assumendo sempre più consapevolezza, spostando il loro interesse lontano dall’analisi patologica dei sondaggi elettorali, verso le caratteristiche socio-economiche di lungo periodo (sanità, segregazione). Data l’influenza culturale degli USA, questo processo comporta una forte riflessione personale: quanto di chi sono è prodotto della storia? Quanto sono disposta/o a mettere in dubbio? Quanto di questa incertezza che provo è solo legata a Trump, e se dovesse vincere Biden potrei ricominciare a sognare?

Tre interviste sull’incertezza
Ho parlato con tre persone, tre storie che raccontano come l’incertezza legata al Covid abbia alterato la centralità degli USA. Non ho la pretesa di arrivare a delle conclusioni, è presto per dire quali siano gli effetti nel lungo periodo. Le loro voci mi e ci guidano nella riflessione.
Clelia Maestri, coordinatrice di Intercultura (AFS) Parma
“Gli studenti sono stati tra i primi rimpatriati dagli USA, circa 450 studenti, con enorme dispendio di energie e risorse economiche.” In generale, la forte preoccupazione che si potessero ammalare in viaggio, la difficoltà di rientrare da alcuni Paesi: per esempio dalla Costa Rica, che ha chiuso i voli con l’Italia, obbligando gli studenti a raggiungere prima il Cile.
L’importanza degli Stati Uniti è evidente: “Se salta AFS USA, salta tutto”. Come ho mostrato, non solo gli States sono il Paese più richiesto, ma anche quello che accoglie più studenti in assoluto. Anche dopo il 2008 c’era stato un calo dei partecipanti, perché era difficile trovare scuole e famiglie che accettassero gratuitamente studenti, ma l’entità non è paragonabile. “È una crisi a cipolla” – dice Clelia – “la difficoltà nel garantire la sicurezza sanitaria in generale, a scuola, nelle famiglie”. Il programma permette a studenti delle superiori di vivere un’esperienza di totale immersione nella cultura del Paese ospitante, imparare a gestire lo shock culturale, confrontarsi con la famiglia. Il 70% degli studenti fruiscono di borse di studio, a ulteriore dimostrazione dell’importanza del programma: viene permesso a studenti non solo di imparare una lingua, non solo di andare all’estero, ma di acquisire informazioni sul mondo che non avrebbero mai potuto ottenere causa vincoli di reddito. Gli sponsor sospendono – ma non ritirano, fortunatamente – mentre le fondazioni mantengono i rapporti. La situazione è incerta, mentre tutti cercano sicurezze. “Io ho fiducia, un giusto mix di ottimismo e precauzione, ma non possiamo permetterci di stare fermi.” – conclude Clelia.
Carmen De Lorenzo, docente di Italiano alla Michigan State University
Nel dipartimento Lingue Romanze alla MSU si lavora per cercare di dare continuità agli studenti che hanno scelto Italiano come corso minor. I problemi non si esauriscono qui: “in generale il College si occupa di inglese come seconda lingua. Tanti studenti stranieri devono dimostrare, prima di accedere ai corsi nelle università americane, di padroneggiare la lingua”. L’incertezza nella gestione del Covid e il tentativo (fallito) di limitare l’accesso alle università da parte degli studenti stranieri già iscritti hanno generato negli studenti stranieri un “sentimento di trattamento diverso, di ingiustizia“. Proprio in questi giorni si sta discutendo di una nuova regolamentazione, che cambierebbe la durata del visto per studenti (F1): non più per la durata degli studi, ma un numero fisso di anni. Aumentando il costo burocratico, chiudendo le porte agli scambi culturali. Il blocco degli scambi è bilaterale: “Le aziende e le scuole italiane, o europee in generale – dice Carmen – non accettano scambi. Nel momento in cui il legislatore statunitense non dà garanzie, c’è incertezza. E quindi tutta questa incertezza danneggia gli stessi studenti statunitensi perché i Paesi ospitanti non li vogliono.”
Daniela Zippo, customer service nel settore finanziario in Michigan
“Siamo arrivati con il visto L1 di mio marito, per trasferimento all’interno della stessa compagnia. Può essere esteso fino a 5 anni+2: abbiamo raggiunto il massimo di rinnovi e adesso ci troviamo all’interno del processo della Green Card.” Daniela soffre l’impossibilità di rientrare in Italia: “le risorse umane di moltissime grandi aziende multinazionali hanno mandato email ai dipendenti con visti L1, H, E2 dicendo di non lasciare gli Stati Uniti per nessuna ragione”. Il rischio è quello di vedersi il visto cancellato. E non si tratta di studenti: “Se lo scopo è venire qui, prendere il pezzo di carta e andarsene può anche non disturbare tantissimo il senso di non integrazione, sensazione che si è acuita in questi 4 anni e negli ultimi mesi. Se fossi temporanea, sentirmi più o meno benvenuta non sarebbe la mia priorità, mentre ho figli che studiano qui, lavoro qui, ho comprato casa, pago le tasse quanto gli altri. Ma non ho ricevuto nessuno stimulus check“. Oltre all’investimento economico c’è infatti anche quello emotivo, umano, culturale: lavorare e crescere una famiglia all’estero comporta una serie di sfide: “Lo fai pensando di dare più opportunità ai tuoi figli”. Per i lavoratori stranieri, far valere la propria posizione è complicato: mentre le prime pagine sono dedicate alla scuola e alle università, in Italia come negli USA, “è difficile che aziende straniere facciano lobbying sul governo”. Daniela e la sua famiglia avrebbero avuto la possibilità di essere ricollocati in Italia, ma ai tempi preferirono rimanere, e sono ora costretti a navigare nella pandemia sopra un’assicurazione sanitaria che si regge su un contratto a tempo determinato.
“Sono sempre stata filoamericana, un po’ accecata da uno modello che, con una famiglia, permette una vita più facile. Ma ora sono emerse quelle contraddizioni di questa nozione che prima non sapevo o non si potevano cogliere.”
Giacomo Romanini