Con la legge 5 agosto 1981, n.442, entrata in vigore il 5 settembre dello stesso anno, vengono abrogate le disposizioni sul delitto d’onore e sul matrimonio riparatore, facenti parte di un “residuo legislativo” del Codice Rocco, in vigore dal Fascismo. Sicuramente un grande passo avanti nel processo atto a tutelare le donne che subiscono violenza, ma un intervento che non è sufficiente per eliminare un fenomeno che, ancora oggi, risulta presente ed estremamente diffuso.
Secondo i dati EU.R.E.S, infatti, nel 2018 la violenza di genere era ancora in crescita, con 142 donne uccise (+0,7% rispetto all’anno precedente), delle quali 119 in famiglia, registrando come movente principale (32,8%) gelosia e possesso. Inoltre, negli anni, sempre secondo i dati forniti da EU.R.E.S., sono aumentate anche le denunce per violenza sessuale (+5,4%), Stalking (+4,4%) e maltrattamenti in famiglia (+11,7%). L’Associazione Telefono Rosa Piemonte di Torino, attraverso il suo report annuale aggiunge che in media, in Italia, ogni anno vengono uccise 150 donne, cioè circa un caso ogni 2 giorni, e che nel 55,8% dei casi esiste una relazione sentimentale tra l’omicida e la vittima.
Dati tutt’altro che rincuoranti, che ci fanno chiedere se l’attuale assetto normativo da solo possa funzionare per eliminare un fenomeno così diffuso come quello della violenza di genere. Ne abbiamo parlato insieme ad Arianna Enrichens, Avvocata che collabora con l’Associazione Telefono Rosa Piemonte di Torino, e con Silvia Semenzin, sociologa, dottoranda in Sociologia Digitale all’Università di Milano, attivista per i diritti digitali e membro del collettivo Virginandmartyr.
La violenza va prima di tutto riconosciuta
“Al momento attuale non ci sono carenze normative” afferma l’Avvocata Arianna Enrichens, “basti guardare ad esempio alla Convenzione di Istanbul contro la violenza nei confronti delle donne, per capire che quello che manca è piuttosto un’approfondita riflessione culturale e sociale, una formazione a tutti i livelli sul fenomeno della violenza, sulle sue radici”, evidenziando così la necessità di un cambiamento a 360° di cui “ognuno e ognuna di noi si deve sentire portatore/trice nella vita quotidiana, sia nella vita privata che nella vita pubblica, qualunque sia il proprio ruolo”. Secondo l’Avvocata, quindi, ciò che risulta fondamentale al giorno d’oggi non sono tanto gli strumenti normativi di cui il nostro Paese dispone al momento, considerati appunto sufficienti: quello che fa la differenza è come questi vengono applicati e come viene descritta e riconosciuta la violenza nella singola situazione esaminata. “Lo strumento normativo è sufficiente quando si tratta di repressione e tutela, ma non è sufficiente nella formazione di operatori e operatrici (tra cui avvocati/e, giudici, medici, psicologi, assistenti sociali, insegnanti, etc.) che si occupano di applicare gli stessi”, enfatizzando che questi/e dovrebbero avere lucidità e coraggio nel riconoscere e chiamare la violenza con il suo nome, poiché questa è un fenomeno complesso che attiene alla costruzione personale e sociale del soggetto, fino ad arrivare a strutturazioni patriarcali.

Educare per liberare dalle gabbie dei ruoli di genere
“Inasprire le pene e creare reati ad hoc è necessario, perché la legge serve a nominare il problema, a riconoscerlo come un fenomeno grave e al quale prestare la massima attenzione. Nel momento in cui non esiste una legge che regola un determinato comportamento non c’è possibilità di tutela specifica, perciò il fatto che queste leggi esistono rende evidente che la violenza di genere, articolata in tutte le sue forme, è un tema serio e pervasivo.” Infatti reati come la diffusione illecita di immagini o video sessualmente espliciti, o lo stalking (per citarne alcuni) “senza una specifica norma non sarebbero punibili e il fatto di individuare e nominare delle “categorie” di comportamenti illegittimi, specificamente adattati alla dinamica della violenza di genere, sono passi molto importanti, che permettono ai centri antiviolenza e ai giudici e agli operatori/operatrici in generale di prevedere delle forme di adeguata tutela.” A questo proposito, però, l’Avvocata Enrichens pone ulteriormente l’accento sulla necessità di un cambiamento sociale e culturale, che possa formare ogni singola persona a riconoscere una violenza che non è facilmente identificabile data la varietà di forme e declinazioni che può assumere. In questo senso secondo Enrichens è fondamentale l’attività dei centri anti-violenza, come l’Associazione Telefono Rosa per la quale lavora, nel suo ruolo formativo, per non limitarsi ad un approccio punitivo, ma per lavorare sulla prevenzione e per fare così in modo che questi fenomeni non si verifichino. “Fino a quando alle donne non verrà riconosciuta piena autorevolezza, fino a quando non ci sarà una vera lotta alle discriminazioni di genere, fino a che non ci sarà un’educazione a una mascolinità responsabile e bambini e bambine verranno liberati/e dagli schemi in cui le femmine devono essere carine e accondiscendenti, mentre i maschi possono spaccare il mondo, conquistare galassie ed essere vincenti, conquistatori e dominanti, non usciremo mai dalla relazione violenta. Perchè tutto questo determina modelli che noi stessi/e facciamo fatica a combattere”.
Le leggi rappresentano quindi enormi e positivi passi in avanti, ma è necessario un lavoro più profondo per dare la visione di un fenomeno culturale più ampio rispetto al quale tutti e tutte siamo chiamati/e a lavorare. In particolare, uno dei punti su cui è necessario focalizzarsi, è quello del riconoscimento della violenza in tutte le sue forme e non solo nella sua più brutale espressione fisica che porta a percosse o all’omicidio, chiamando con il loro nome rivelazioni violente più occulte, ma non meno pervasive.
Revenge porn: una legge non basta, il problema è il patriarcato
Che la risposta penale, da sola, non basti a contrastare la violenza di genere, in tutte le sue espressioni, ce lo conferma anche Silvia Semenzin, che da anni si occupa del rapporto tra violenza di genere e fruizione di spazi digitali. È anche grazie al suo lavoro che un anno fa, nel luglio del 2019, è stato inserito un emendamento al disegno di legge “Codice Rosso” (Legge 19 luglio 2019, n. 69) che ha portato alla creazione di un reato ad hoc, il cosiddetto “revenge porn”. Oggi, “chiunque invii, consegni, ceda, pubblichi o diffonda immagini o video a contenuto sessualmente esplicito, destinati a rimanere privati, senza il consenso delle persone rappresentate” rischia fino a 6 anni di carcere e una multa da 5mila a 15mila euro.
Tutto ha inizio nel 2018 con il lancio di una petizione online, #intimitàviolata, appoggiata da Associazioni come Bossy, I Sentinelli di Milano e Insieme in Rete. La campagna raccoglie in poco tempo moltissime firme, nonché l’appoggio dell’ex presidente della Camera Laura Boldrini, che promette l’inserimento di una legge specifica all’interno del codice penale.
“La legge era necessaria”, ribadisce la ricercatrice, che come promotrice ha preso parte ai lavori tecnici e ai confronti con le istituzioni, “ma non possiamo pensare che basti punire i colpevoli per porre fine ad un fenomeno complesso che affonda le proprie radici in una cultura profondamente misogina e patriarcale”. “Le conseguenze reali, sulla vita delle persone, sono pesantissime, dalla depressione allo stalking, sino all’allontanamento dal luogo di lavoro o, nel peggiore dei casi, al suicidio”. La vicenda di Tiziana Cantone, morta suicida a 31 anni, avrebbe dovuto insegnarcelo.
“L’errore sta nel considerare la diffusione di immagini, audio o video intimi di donne senza il loro consenso esclusivamente come una violazione della privacy, mentre ha molto a che fare con la violenza di genere. Le due questioni si intrecciano”. Non è un caso che colpisca in modo sproporzionato le donne, riflettendo le dinamiche di disuguaglianza, dominio e discriminazione sociale sottostanti. “Come per lo stupro o l’hate speech, la diffusione non consensuale di materiale privato è più una questione di potere che di sesso”, chiarisce la sociologa. Anche per questo, la locuzione “revenge porn” necessita di almeno due specifiche: innanzitutto, chiariamo che la diffusione di materiale privato non consensuale non sempre avviene alla fine di una relazione, o tra persone che si conoscono. L’idea di “vendetta”, poi, rischia di far passare un messaggio distorto: la responsabilità non è mai di chi invia una propria foto o video, ma di chi li diffonde senza il consenso della persona coinvolta.
È cultura dello stupro, nominiamola
Recentemente, si è tornati a parlare di “revenge porn” in seguito all’inchiesta di Wired che ha rivelato l’esistenza di chat Telegram in cui gruppi di uomini di ogni età – si parla di chat con oltre 40mila iscritti – si scambiavano foto, video, nomi e contatti social di donne, partner, ex partner o perfette sconosciute, anche minorenni (in questo caso, quindi, si tratta di pedopornografia), accompagnando il tutto con insulti sessisti, commenti violenti e a sfondo sessuale.
In sociologia, si chiama cultura dello stupro, una violenza di genere endemica e sistematica che permea l’intera struttura sociale. Come ci insegnano la letteratura e gli studi femministi, la “rape culture” comprende un’ampia gamma di comportamenti, dal linguaggio sessista, passando attraverso gli stereotipi di genere e la narrazione mediatica della violenza, sino alla violenza domestica, alle molestie o allo stupro. La maggior parte di questi comportamenti sono normalizzati e accettati, rimanendo spesso sommersi e andando a creare i presupposti di una cultura che accetta e giustifica la violenza contro le donne, quando addirittura non gliene attribuisce le responsabilità. Secondo l’indagine Istat “Gli stereotipi sui ruoli di genere e l’immagine sociale della violenza sessuale”, la percentuale di chi pensa che le donne possano sottrarsi ad un rapporto non consensuale (il non detto è “se davvero non lo vogliono!”) o che possano provocare la violenza sessuale è ancora elevata e preoccupante. “Come per la violenza domestica, dobbiamo smetterla di considerare il revenge porn un problema tra privati cittadini, tra una donna e l’ex partner per esempio”, insiste Semenzin.

Quello che serve è educazione digitale, di genere e sessuale
Quello che veniva messo in scena nelle chat di Telegram era un vero e proprio rito collettivo, lo “stupro digitale” di donne e ragazze, con la protezione dello pseudo-anonimato che la debole regolamentazione dell’applicazione sembra garantire. “Non bisogna però demonizzare Telegram”, spiega la sociologa, “perché se è vero che la piattaforma – e, in generale, gli spazi virtuali – agevola la diffusione del fenomeno, la vera questione è in che modo questi strumenti, mai neutrali, riflettono le strutture sociali in cui vengono creati, nonché l’utilizzo che se ne fa”.
Insieme alla collega Lucia Bainotti dell’Università di Torino, la Dottoressa Semenzin ha svolto un’importante ricerca etnografica – una delle poche basate su dati italiani – che mette in relazione l’utilizzo di Telegram per la diffusione non consensuale di immagini intime e la creazione di grandi comunità maschili in cui viene performata la cosiddetta “maschilità egemonica”, ossia quell’insieme di pratiche e abitudini sociali, apprese mediante socializzazione, che perpetuano con violenza l’asimmetria di potere tra uomini e donne, tra uomini e maschilità non conformi.
Nei gruppi Telegram – cinquanta quelli analizzati dalle due ricercatrici – l’oggettificazione e l’umiliazione del corpo femminile diventano il mezzo per affermare la propria virilità e rinsaldare legami di omosocialità maschili, scaricando la “colpa” sulle vittime. Quest’espressione tossica di maschilità non nasce con Telegram, bensì si nutre e trova conferme, più o meno esplicite, nel mondo “offline”, nelle sue strutture sociali. Ma le strutture sociali, è bene ricordarlo, non sono immutabili. E come Enrichens, Silvia Semenzin afferma che è proprio dalle strutture sociali che bisogna partire.
“La legge è un primo passo, ma il lavoro da fare è ancora lungo. Nonostante l’importanza di aver colmato un vuoto normativo, il fenomeno persiste. Il problema è innanzitutto culturale, per questo è fondamentale introdurre percorsi di educazione sessuale e digitale, a partire dalle scuole, per smantellare la cultura dello stupro e avvalorarne una fondata sul consenso, in cui la libertà sessuale femminile sia riconosciuta e rispettata. Il cambiamento culturale è sicuramente lento e difficile, ma più efficace del solo strumento legale. Per questo è importante continuare a parlarne, fare sensibilizzazione e farlo in rete”, conclude Semenzin.
Per una società dove sesso, corpi e desideri siano finalmente legittimati e liberati dalla violenza di tabù e pregiudizi. Ne godremmo tutti e tutte, perché ruoli di genere stereotipati e costrutti sociali patriarcali danneggiano anche gli uomini.
Martina Facincani e Anna Toniolo
Foto di copertina: Michele Lapini, via: pagina Facebook di Non Una di Meno.
Un pensiero su “Violenza di genere: la risposta non può essere solo penale”