La discriminazione razziale causa più arresti, oppure è anche una questione di povertà e criminalità? La riforma del lavoro ha causato una diminuzione dell’occupazione? Il nuovo centro commerciale ha causato la chiusura dei piccoli negozi? Quanto la temperatura aumenta a causa dell’attività dell’uomo e quanto correlata a variazioni cicliche?

Il concetto di causalità è estremamente complicato e largamente sconosciuto. L’economia è una scienza sociale, ossia utilizza un metodo scientifico, rigore matematico, applicandoli a dati che derivano da interazioni umane. Al contrario, la parola “scienza” viene comunemente associata all’immagine di Marie Curie: la scienziata in laboratorio. Le condizioni che portano alla causalità nelle scienze hard (fisica, chimica, etc) sono generalmente molto diverse da quelle che si garantiscono l’identificazione della causalità nelle scienze sociali.
Ipotizziamo un semplice esperimento: mettiamo una pallina in cima ad un piano inclinato. Sappiamo che la pallina scorrerà verso il basso fino a cadere sul pavimento. Cambiamo un solo elemento: inseriamo una rete in fondo al tavolo. La pallina ora non cadrà più per terra, ma si fermerà, appunto, sospesa nella rete. Immaginate di condurre entrambi gli esperimenti, e di registrare i dati della pallina (posizione, velocità, accelerazione etc). La posizione della pallina è diversa nei due scenari a causa della retina.
La banalità logica percepita in questo ultimo paragrafo nasconde in realtà un passaggio estremamente delicato, una condizione che non si verifica sostanzialmente mai nelle scienze sociali. Possiamo infatti replicare lo stesso scenario più volte, alle stesse condizioni, cambiando solamente un fattore.
Abbiamo aggiunto la retina, senza che questa abbia cambiato il peso della pallina, per esempio. E siamo sicuri che non sia successo nient’altro che abbia portato la pallina a fermarsi, perché siamo in laboratorio (sappiamo che non c’è un filo, un magnete, un ventilatore, una mano di altri): è proprio la retina.
In termini tecnici, si parla di fattuale (la pallina cade per terra) e il controfattuale (l’esperimento con la retina, alle stesse condizioni). La differenza tra i due scenari permette di calcolare l’effetto causale del fattore che è stato modificato.
Nelle scienze sociali, fattuale e controfattuale sono un concetto assai più complicato. Tornando all’esempio iniziale, per sapere se la riforma del lavoro ha causato l’aumento o meno dell’occupazione, dovremmo poter osservare lo stesso mercato del lavoro, con e senza riforma. A questo punto giornalisti e lettori solitamente inciampano: mettere a confronto i numeri prima e dopo la riforma non è sufficiente. Perché l’economia non è la stessa: sono due economie diverse, in due momenti diversi. Possono quindi esserci altri fattori che determinano l’aumento della disoccupazione. Non possiamo garantire, come nel caso dell’esperimento di laboratorio, che il controfattuale avvenga alle stesse condizioni.
In questo caso non possiamo parlare di relazione causale, ma semplicemente di correlazione. Semplificando, la correlazione è un numero che riassume quanta forza esiste tra due variabili. Se una aumenta e l’altra aumenta/diminuisce allora c’è correlazione. Se invece una cambia e l’altra no, correlazione zero. Questa forza tra le due variabili è basata esclusivamente sui numeri, non sulla causalità.
Per esempio:

Il grafico mostra come il consumo di mozzarella sia estremamente correlato con il numero di dottorati in ingegneria civile. Sappiamo però che la mozzarella non causa il dottorato in ingegneria, così come il numero di ingegneri non causa il consumo di mozzarella. Si tratta di una relazione statistica, non di un rapporto causale.
E allora, come si determina la causalità? Suonerà strano per chi associa la scienza ad un lavoro esclusivamente legato ai numeri, ma la causalità nelle scienze sociali non deriva quasi mai esclusivamente dai soli dati, ma anche e soprattutto da ragionamenti teorici. Usiamo uno schema grafico:
L’obiettivo è conoscere quale sia l’effetto causale di D su Y, rappresentato dalla freccia orizzontale. Per esempio: un grado di istruzione più alto causa uno stipendio più alto? In questo caso D è il livello di istruzione e Y è il salario. Per ottenere il rapporto causale bisogna isolare l’effetto dell’istruzione da tutti gli altri fattori che influenzano sia reddito sia salario. Questi fattori sono riassunti da U. Per esempio, U può essere il reddito dei genitori: andare all’università è una decisione più facile se provieni da una famiglia benestante, e al tempo stesso la ricchezza porta a fare parte di un network sociale che probabilmente porterà ad uno stipendio più alto.
Portando l’esempio all’estremo, in caso di mobilità sociale nulla, quando cioè il salario è interamente determinato dalle condizioni di partenza, il grado di istruzione riflette il reddito della famiglia, non lo determina, non lo causa. Nell’altro caso estremo, il sistema scolastico determina il reddito in modo completamente indipendente dal reddito iniziale (l’obiettivo delle società che promuovono l’equità).
Se non riusciamo a separare la freccia orizzontale da quelle tratteggiate, il rapporto causale che pensiamo di ottenere dai dati sarà distorto. L’effetto causale del livello di istruzione sarà più alto o più basso di quello “vero”, la freccia orizzontale, poiché dimenticandoci di U, la variabile D “assorbe” anche il rapporto di causa delle linee tratteggiate.
La soluzione sembra essere quella di non dimenticarsi di nessuna variabile U. In pratica è impossibile: le relazioni economiche, quindi umane, sono determinate da un numero enorme di fattori. In aggiunta, alcuni di questi non sono osservabili (l’abilità dello studente), oppure i dati non sono disponibili. Come si fa in pratica? Formulando teorie, e testando le teorie sui dati utilizzando tecniche econometriche, cioè statistica applicata all’economia.
Prima di mostrarvi come questo ragionamento sia applicato alla discriminazione razziale, assicuratevi di aver capito la vignetta iniziale (soprattutto l’ultimo riquadro).
Riassumerò in estrema sintesi, senza andare nei dettagli tecnici, due articoli economici che cercano di isolare la discriminazione razziale come causa di un certo fenomeno.
Kate Antonovics & Brian G Knight (2009) “A New Look at Racial Profiling: Evidence from the Boston Police Department” The Review of Economics and Statistics
Guidando in auto, la polizia può fermare il veicolo per effettuare un controllo. Se sospetta di reati legati, per esempio, al traffico di droga, la polizia statunitense può perquisire l’auto. Tra Aprile 2001 e gennaio 2003, la polizia di Boston ha fermato macchine guidate da afroamericani il 33 percento delle volte, mentre le perquisizioni sono molto più alte, il 43 percento.
I due autori si chiedono la seguente domanda: c’è discriminazione razziale nel momento in cui la polizia ferma e decide di perquisire un’automobile?
Cosa potrebbe essere U in questo caso? Per esempio, il livello di criminalità. Non si tratterebbe quindi di discriminazione: dato che gli afroamericani hanno una probabilità più alta di commettere un reato (ed è importante chiedersi perché, ma questo merita uno spazio dedicato), la polizia tende a perquisirli più spesso. Non perché discriminerebbe volontariamente, ma appunto per una questione di “discriminazione statistica”: in questo scenario la riforma necessaria sarebbe quella di una modifica dei modelli analitici di racial profiling.
Gli autori, con una serie di tecniche econometriche, dimostrano invece l’esistenza di discriminazione, al netto dell’effetto statistico che già discrimina la comunità black: agenti non afroamericani tendono a perquisire maggiormente conducenti afroamericani.
Si rendono quindi necessarie politiche che rimuovano entrambe le forme di discriminazione: sia statistica, ma anche individuale. Mettendo in discussione, per esempio, il processo di selezione e formazione delle forze dell’ordine.
David Arnold, Will Dobbie, Peter Hull: “Measuring Racial Discrimination in Bail Decisions” (working paper, non ancora pubblicato)
In caso di crimine e all’arresto, l’imputato viene sottoposto a processo. Cosa succede tra il momento dell’arresto e il processo: viene rilasciato, oppure tenuto in prigione? Il secondo caso è giustificato dalla probabilità che l”imputato non si presenti al processo, fuggendo, e nell’eventualità che commetta un altro crimine.
A New York City, questa decisione viene presa da un giudice apposito, poco dopo l’arresto. L’audizione avviene per videoconferenza e dura pochi minuti, durante i quali il giudice sceglie, in base alle informazioni disponibili, tra quattro opzioni.
Se l’imputato ha un profilo di rischio minimo, viene rilasciato senza condizionalità. Oppure, viene richiesto di pagare una cauzione. Profili di rischio più elevati portano il giudice a mettere l’imputato sotto vigilanza, oppure a disporre della custodia cautelare se il rischio è troppo alto.
Le opzioni che vengono concesse variano tra bianchi e neri: con effetti fortemente negativi per gli afroamericani, a cui vengono sistematicamente offerte cauzioni più alte che spesso non sono in grado di pagare.
Per ottenere l’effetto causale non basta confrontare i dati: bisogna usare le tecniche che permettono di ottenere un effetto causale:
Cosa può essere U in questo caso? È possibile che le informazioni a disposizione del giudice – spesso un vero e proprio algoritmo – riflettano, come nel caso precedente, la più alta probabilità degli afroamericani nel commettere reati. [Sottolineo ancora una volta, l’importanza di investigare le cause profonde di questo fatto.] Quindi si tratta di distinguere tra la discriminazione volontaria dei giudici dalla discriminazione statistica, dovuta all’incertezza nella condotta dell’imputato e un modello di previsione sottostante.
Lo studio mostra come due terzi delle differenze nel rilascio degli imputati è dovuto a discriminazione razziale, mentre un terzo dalla discriminazione statistica.
In conclusione, ottenere l’effetto causale nelle scienze sociali, cioè dimostrare l’effetto di un solo fattore (D) su un evento (Y) richiede sia dati di qualità, sia la capacità di ragionamento teorico. Non bastano quindi due numeri messi a confronto. Gli economisti, utilizzando modelli matematici e tecniche statistiche, hanno da anni confermato con rigore scientifico la presenza di discriminazione razziale.
Giacomo Romanini
[immagine di copertina: The New York Times]
3 pensieri su “Economia e causalità. La discriminazione razziale nel sistema giudiziario, dimostrata scientificamente”