Dopo oltre un mese di lockdown, in cui la curva dei contagi da Covid-19 si è inevitabilmente appiattita e gli introiti di tante famiglie italiane si sono altrettanto inevitabilmente ridotti, si è aperto il dibattito sulla cosiddetta “Fase 2”. Quando riaprire? Meglio farlo subito e dare un po’ di ossigeno all’economia o aspettare che la situazione sanitaria migliori ancora? E come farlo, in maniera più graduale, dilazionando le aperture, o più rapida, in una sorta di liberi tutti? Il Presidente del Consiglio Conte ha scelto la linea della prudenza, ma le critiche non stanno mancando. Soprattutto da destra, con Salvini e Meloni, ma anche Fontana e Zaia, presidenti rispettivamente di Lombardia e Veneto, due regioni molto colpite, che affermano la necessità di riaprire più velocemente per far ripartire la domanda.
Ma come si è schierata l’opinione pubblica sulla Fase 2? C’è una divisione tra chi sostiene un approccio più prudente e chi invece ritiene che sia meglio andare di fretta? Ed eventualmente, da cosa dipende? Ne abbiamo parlato con Lorenzo De Sio, professore di scienza politica alla LUISS di Roma, nonché direttore del Centro Italiano di Studi Elettorali (CISE), che in questi giorni ha pubblicato uno studio interessante sul tema, basato su un sondaggio online. “L’idea era cercare di stimare in termini di percezione degli intervistati l’impatto della chiusura sulle pratiche lavorative, tra chi aveva avuto la possibilità di ricorrere allo smart working, chi aveva continuato invece ad operare in settori che hanno continuato a lavorare, e chi invece è stato costretto a cessare la propria attività”, sottolinea De Sio.
La prima immagine che emerge è quella di un’Italia in cui tantissime persone si sono viste mancare le proprie entrate. Allo stesso tempo però, le formiche, che qualcosa avevano messo da parte in precedenza, sono molte di più delle cicale. “Circa un quarto della popolazione è stata costretta a rinunciare alla propria attività. Per circa metà si è avuto una diminuzione del reddito. Ma di questo 50 per cento il 30 per cento aveva a disposizione dei risparmi. Quindi la quota che ha subito più pesantemente la crisi è circa un 16 per cento degli intervistati, che ha avuto una diminuzione del proprio reddito senza avere dei risparmi con cui fronteggiarlo”. Insomma, in tanti ci stanno rimettendo. Ma solo una porzione limitata di italiani sembra essere in condizione di assoluta difficoltà e non in grado di affrontare l’emergenza.
Riguardo alla riapertura, la stragrande maggioranza degli italiani è d’accordo con la linea Conte. Il 71 per cento degli intervistati è a favore dell’approccio graduale e addirittura un altro 6 per cento pensa che sarebbe stato meglio andare avanti con il lockdown. Ma da cosa dipende la posizione sulla Fase 2? Ci si potrebbe attendere che chi è stato più colpito dalle chiusure, come gli autonomi che hanno dovuto tenere le serrande abbassate o gli operai lasciati in cassa integrazione, sia anche maggiormente a favore di un rapido ritorno alla normalità. Le indicazioni del sondaggio in questo senso sono sorprendenti. “Il danno economico subito non è in relazione significativa con l’atteggiamento verso la riapertura. Ci aspettavamo che a voler riaprire con maggiore sollecitudine fossero gli intervistati più colpiti dalla crisi economica. In realtà non è così”, puntualizza De Sio.
Allora come spiegarsi quel 20 per cento che preme per riaprire? Così come bisogna spiegarsi il fatto che i principali leader della destra italiana si siano eretti a paladini delle fasce che più hanno sofferto l’interruzione delle attività lavorative. È possibile che Salvini e Meloni abbiano sbagliato i loro calcoli? Pare proprio di no “Gli orientamenti politici generali (che catturiamo attraverso le intenzioni di voto) contano di più della situazione economica”, spiega De Sio. “Quando si tratta di decidere tra tutela salute e interesse economico, emerge l’associazione con il colore politico. Gli elettori di centro-sinistra tendono a privilegiare la salute, gli elettori di centro-destra tendono a privilegiare l’economia; qui si può vedere una classica divisione valoriale tra universalismo da un lato e individualismo dall’altro”. E più che l’impatto del lockdown, a fare leggermente la differenza sembra essere l’occupazione degli italiani. “Tra i commercianti e gli operai c’è una quota di intervistati superiore per le riaperture anticipate; ma tuttavia va comunque segnalato che anche in queste categorie la stragrande maggioranza è sulla linea più prudente. Quando questa linea è preferita dal 70% degli intervistati, è chiaro che anche le differenze tra categorie sono relative”.
Di sfondo, il dato forse più inaspettato dell’intero sondaggio: le previsioni dell’opinione pubblica sul futuro economico, del Paese e della propria famiglia. Molto meno fosche di quanto si possa pensare. “Abbiamo pubblicato un altro studio, da cui emerge che un 12 per cento ritiene che l’Italia tornerà ai livelli di reddito pre-crisi già tra 6-12 mesi, e un ulteriore 48 per cento ritiene che comunque questo avverrà entro due-quattro anni. Per quanto riguarda il proprio nucleo famigliare, c’è un 38 per cento che dice che il reddito non sia stato intaccato. Se ci sommiamo quelli che pensano che il proprio reddito tornerà ai livelli pre-crisi entro 6 mesi-un anno, si arriva al 63 per cento. Insomma, non sembra esserci un pessimismo così radicale e diffuso su un impatto di lunghissimo termine della crisi”. Questo influisce chiaramente sul rapporto tra riduzione del reddito durante la quarantena e supporto per una riapertura graduale. “Alla fine, il discorso della riapertura non sembra tanto legato ad un’urgenza economica. Quella parte di italiani che aveva dei risparmi e si aspetta che verosimilmente il proprio reddito tornerà normale in fretta, pensa che tutto sommato è meglio stare attenti adesso che rischiare una seconda ondata del contagio. Questo spiega perché le opinioni riguardo alla riapertura sono molto più legate alle proprie posizioni politiche che ad un danno economico reale”.
Questo per quanto riguarda l’opinione pubblica, ma nel dibattito politico la divisione c’è ed è piuttosto acuta. A gettare benzina sul fuoco, tramite anche gesti simbolici, come l’occupazione del Senato, è stato Salvini. Il leader leghista è in passato stato bravo ad intercettare gli umori della maggioranza degli elettori (o quantomeno quelli sui quali punta maggiormente), ma in questa situazione potrebbe aver sbagliato tattica. “La sua forza secondo me, nei primi anni, è stata nel suo essere post-ideologico: dire cose di destra sull’immigrazione e cose di sinistra sulle pensioni. Così in qualche modo riusciva a mantenere una sintonia con il mainstream della società italiana. Il suo errore è quando ha cominciato a virare sistematicamente a destra, per esempio con le ambiguità su Casapound, con l’episodio del citofono, dandosi una caratterizzazione più radicale ed estremista, che per un partito intorno al 30% non può mai pagare. Anche in questa situazione un Salvini più ecumenico, più vicino alla linea di Zaia avrebbe forse pagato di più. È giusto solleticare le sensibilità del proprio bacino elettorale di riferimento, ma in situazioni come questa la cosa che paga di più alla fine è il mostrarsi un leader capace di governare un paese”.

Stando a tutti i sondaggi, il premier Conte, una figura enigmatica nella politica italiana, a metà tra il tecnico e il politico, ha visto la sua popolarità schizzare alle stelle. L’Italia si è stretta intorno al proprio Premier e ai suoi decreti, alla disperata ricerca di sicurezza e fiducia. Chi sperava di beneficiare di questa situazione erano probabilmente anche i due partiti al governo, Movimento 5 Stelle e Partito Democratico, che ultimamente vedevano da molto lontano la Lega nei sondaggi. “Dagli indici di gradimento dei leader viene fuori che traggono benefici le figure che valorizzano i loro incarichi di governo (anche locale), e non necessariamente i partiti al governo”, puntualizza De Sio. “Come ha messo in evidenza Roberto D’Alimonte su Il Sole 24 Ore, Il leader che ha fatto il grande balzo è Zaia. Un leader che occupa una posizione di governo, seppur regionale, e che ha saputo gestire la situazione in maniera efficace. Il gap con Fontana è evidente. Anche De Luca ha avuto buona visibilità. L’esempio contrario è Renzi. Ha cercato visibilità in tutti i modi possibili ed immaginabili, ma gli si è ritorta contro. Perché l’ha cercata con posizioni divisive e costantemente conflittuale, e con l’inevitabile punto debole di non occupare in questo momento nessun ruolo di governo: senza quindi poter far eventualmente seguire alle parole i fatti”.
La parola d’ordine è quindi una e una sola: unità. E dire che la politica italiana è abituata a litigare su qualunque cosa, contribuendo così a polarizzare l’opinione pubblica. Che questa emergenza possa essere d’aiuto per un dibattito meno conflittuale? “Il problema è che ci sono tante variabili in gioco: ad esempio le caratteristiche del sistema dei media, che non riesce a dipingere il dibattito politico se non in termini di politics, scontro tra leader e partiti, e non di policy, quella dei contenuti”. Il primo terreno di scontro che si staglia all’orizzonte è l’Europa. “Nei nostri recenti sondaggi, se si fa la somma di chi vuole uscire dall’Unione e chi solo dall’Euro viene fuori addirittura una maggioranza per un’uscita. E’ un risultato da prendere con mille cautele per vari motivi metodologici, ma la tendenza è in ogni caso chiara (e registrata da tutti gli istituti). Perché è ineluttabile che la gestione da parte dei partner europei e delle istituzioni UE (a parte la BCE) è stata davvero problematica, soprattutto in termini comunicativi. Il risultato è che anche gli intervistati più favorevoli all’Europa si lamentano della poca solidarietà dei partner europei. Se la percezione rimarrà questa, il tema può diventare veramente controverso e quindi pericoloso”.
La coesione che ha amalgamato opinione pubblica e politica in questa battaglia contro il Covid-19 rischia di essere solo una parentesi. Purtroppo, o per fortuna, a seconda dei punti di vista.
Valerio Vignoli