Il primo dovere di un critico musicale dovrebbe essere l’obiettività. È estremamente complesso raccontare le storie dell’arte musicale, specie della musica pop, senza far trasparire i sentimenti personali (come dimostra la mia recensione dell’ultimo dei Tool – smetterò mai di scherzarci? Chissà).
Nel caso dei Rush, però, per me è virtualmente impossibile essere obiettivo. I Rush sono il gruppo più importante per me, la cui musica ha significato così tanto in momenti belli e brutti. In questi giorni un po’ bui, voglio celebrare Neil Peart (si pronuncia Pìart), il loro batterista e autore dei testi, che già in altri momenti per me bui ha saputo portare luce.
I Rush li ho scoperti tardi rispetto agli altri gruppi rock più classici: questo naturalmente perché i Rush non sono uno dei gruppi rock più classici. Se prendete il fan rock medio, forse sa riconoscere “Tom Sawyer”, “The Spirit of Radio” o “Limelight”, al limite anche l’attacco di “2112”. Ma non hanno mai avuto il successo devastante, di critica e di pubblico, di moltissimi loro contemporanei. Io stesso ricordo che avevo recuperato in biblioteca 2112, il loro disco più importante, su suggerimento del mio amico Dodo, colui che a 14 anni mi introdusse ai Ramones aprendo la strada al delirio di cui sono preda tuttora, e non mi aveva colpito più di tanto, forse perché non lo avevo ascoltato con grande attenzione. Fu solo anni dopo che, in occasione di un mio viaggio in Canada (terra d’origine del trio), il mio amico David mi passò tutta la loro discografia. La prima notte a Toronto, dilaniato dal jet lag e dal vino rosso della cena di benvenuto, misi su un disco a caso, Hold Your Fire, e il secondo brano mi portò via tutto il cucuzzaro (il video è assolutamente terribile, lo so).
“I’m not looking back —
But I want to look around me now
See more of the people
And the places that surround me now”
Fu lì che mi resi conto della dolcezza, della tenerezza e della fiera umanità dei testi dei Rush – e li scriveva il batterista! Da impallinato dei Genesis, dovevo divorare quanta più musica possibile di quel gruppo straordinario, e carpire qualunque informazione disponibile su di loro.
Negli ultimi anni della loro carriera i Rush hanno avuto un ritorno di fiamma e una complessiva rivalutazione soprattutto da parte della critica (il pubblico non li ha mai abbandonati: l’esercito di nerd che si portano appresso ha riempito stadi e arene americani per decenni), il che ha portato all’emergere di amore per la band da parte di moltissime rockstar, alcune più ovvie (Les Claypool dei Primus, Jack Black, Dave Grohl e Taylor Hawkins dei Foo Fighters), altre più sorprendenti (Trent Reznor, Billy Corgan, Tim Commerford dei Rage Against the Machine). I Rush sono sempre stati la band degli sfigati, dei solitari, degli strambi, dei nerd, di chi si sentiva fuori posto, e lo splendido documentario Beyond the Lighted Stage è stato un po’ la scintilla che ha riacceso la fiamma.
Negli anni, i Rush mi sono stati accanto, come dicevo, in molti momenti, belli e brutti: ma soprattutto, nessun altro cantante, autore o poeta ha influenzato il mio modo di scrivere – e accompagnato il mio modo di vivere – come Neil Peart.
Peart è il secondo batterista dei Rush (entrato per il tour di promozione del loro album di esordio), un fatto che lo ha portato a essere soprannominato, anche a quasi quarant’anni dal suo ingresso nella band, “quello nuovo”, “the new guy”. Fin dall’inizio, però, la chimica con Geddy Lee (basso, voce e tastiere) e Alex Lifeson (chitarra) è stata totale, a partire dal secondo album del gruppo Fly By Night, la cui title track raccontava proprio l’esperienza di Peart in Inghilterra a cercare fortuna nei primi anni 70.
Dal 1980 al 2012, ogni album dei Rush – ogni album, in studio e live (con l’esclusione di Snakes & Arrows Live del 2007) – ha vinto il premio di Modern Drummer (storica rivista dedicata allo strumento in questione, punto di riferimento assoluto) per “Best Recorded Performance”. Hanno dovuto inventarsi l’”honour roll” (dopo aver conseguito il quale non si poteva più vincere un certo premio) perché vinceva sempre lui il premio per “best rock drummer”. Un mostro.
Con “2112″, la storia raccontata sul lato A del disco omonimo, ispirata alla novella Anthem di Ayn Rand, Peart rende chiaro il suo pensiero: solo l’individuo può essere un fautore di cambiamento per la società, in quanto parte di essa. È un Neil ancora molto giovane, e il testo della suite risulta a tratti acerbo, ma ne mostra già il talento immenso. Eppure, anche su quell’album del quale il pezzo più ricordato è l’immortale title track, il brano che mostra il vero Neil è la chiusura di “Something for Nothing”. Lavora sodo, e vedrai i risultati. Cresci. Costruisci chi sei, e a quel punto avrai la vittoria in tasca.
Negli anni ’80, i testi di Peart si allontanano ulteriormente dagli stilemi progressivi più classici, ed entrano nell’introspezione, nella coscienza di sé, e nelle esperienze romantiche (nel senso poetico, non nel senso dell’amore) che ognuno di noi ha nella sua vita. Per questo io adoro la trilogia degli anni ’80: Grace Under Pressure, Power Windows (esiste una maglietta con la copertina adattata a Power William – e la mia faccia al posto di quella del tizio in copertina) e Hold Your Fire hanno una grazia, un’umanità incredibile nelle storie che raccontano, e danno forza, portano luce là dove c’è il buio.
Purtroppo, alla fine il buio è arrivato, nella vita di Neil: nel 1997 la figlia muore in un incidente d’auto, e nel corso dell’anno successivo un cancro si porta via la moglie. Rimasto solo, prende la moto e parte, salutando i due compagni fraterni di avventure, che ovviamente considerano chiuso il capitolo Rush. Nel 2001, però, dopo essersi di nuovo innamorato, il trio si riunisce, pubblica un nuovo album, Vapor Trails, con testi catartici, che raccontano i suoi viaggi dall’Alaska al Messico e ritorno, con pensieri, incubi e speranza. Da qui in poi, il trio è sparato a bomba. Esce un live devastante (purtroppo piagato da un mix criminale), Rush in Rio, poi un EP di cover (tra cui una cattivissima “The Seeker” degli Who) come pretesto per fare un tour per il trentennale, seguito da un live del medesimo, e poi arrivano, uno dietro l’altro (con due live in mezzo, il già citato Snakes & Arrows Live e il mio preferito, Time Machine) i miei due dischi preferiti dei Rush, soprattutto per ragioni personali (Snakes & Arrows) ma anche per ragioni oggettive (Clockwork Angels): trovatemi voi un’altra band che, a quasi 40 anni di carriera, caccia fuori un pezzo come “Headlong Flight”.
Il brano finale, “The Garden”, fa intuire che la carriera della band è giunta alla fine. Sebbene poi usciranno ancora due live tratti dai rispettivi tour, Clockwork Angels chiude la lunga storia di una band leggendaria, e lo fa con le commoventi parole di Neil:
“The future disappears into memory
With only a moment between
Forever dwells in that moment
Hope is what remains to be seen”
I Rush si sciolgono, con estrema riluttanza, dopo il tour (solo Americano) per il quarantennale, al termine del quale, per la prima volta da decenni, Neil si aggiunge ai due compagni per un inchino, anziché scappare in camerino come suo solito. A quel punto, Geddy e Alex capiscono. Neil si gode la pensione con la moglie e la figlia Olivia. Purtroppo, dopo pochi anni, un tumore al cervello lo porta via, questo 7 gennaio. La notizia verrà data appena 3 giorni dopo dalla famiglia e dagli amici fraterni di una vita.
Neil Peart è sempre stato una rockstar riluttante: soprattutto con l’arrivo della fama vera, ai tempi di Moving Pictures, ha preferito ritirarsi nella grandiosità della sua batteria ed evitare i riflettori, come raccontato in “Limelight”. Questa riluttanza lo ha forse portato a scrivere di persone normali, di persone un po’ diverse da come la società le vorrebbe, e soprattutto lo ha portato a scrivere parole di ispirazione a chi è in difficoltà, a chi non riesce a trovarsi, a chi fa fatica ad andare avanti, senza mai piangersi addosso, ma accettando anche le sconfitte come parte della vita. Proprio questo rende le sue parole, e la sua musica, così indispensabili in questi anni incerti, in questo tempo di caucciù, come diceva Francesco Di Giacomo. Neil ci mancherà ma resterà sempre con noi.
Snakes & Arrows è il disco a cui sono più legato dei Rush, ed è il disco che ho ascoltato la sera in cui ho saputo che Neil non c’era più: il gioco da cui prende il titolo, Snakes and Ladders, è una specie di gioco dell’oca. Se cadi in una casella con il serpente, torni indietro; se cadi in una casella con la scala, vai avanti. Naturalmente, questo è deciso arbitrariamente dal lancio dei dadi. I brani su Snakes & Arrows, che parlano dello scorrere del tempo, di fede, e di coraggio, ci raccontano che siamo noi a tirare i dadi.
Grazie, Neil.
“Though we might have precious little
It’s still precious”
Guglielmo De Monte
@BufoHypnoticus
[un grazie, come sempre, a Luca di Limborush e alla Rush Italian Community, nella quale sono stato trascinato da Sasha anni fa, e nella quale mi diverto sempre a lanciare anatemi contro Caress of Steel]
[Immagine di copertina tratta da rollingstone.com]