Dieci anni di solitudine: The ghost in my head – 2010-2019

Seconda puntata della mia monumentale retrospettiva sul decennio che si concluderà tra pochi giorni, e qui gioco un carico: questi sono i 5 dischi migliori di questi dieci anni, quelli che non stancano dopo ascolti ripetuti, ossessivi e continuativi. C’è un certo disequilibrio sulla prima metà della decade, non so se perché la mia evoluzione come ascoltatore sia avvenuta in larga parte in quegli anni o semplicemente perché, per una sorta di coincidenza, in quegli anni si siano pubblicati dischi migliori. In ogni caso, come al solito ho ragione io e basta.

 

5. Ad Plenitatem Lunae – Tempus Non Est Iocundum (2012)

Comincio questa classifica con una botta di nostalgia pazzesca, scolpendo nella pietra il mio amore per un disco ingiustamente e criminalmente sottovalutato all’epoca, oltre che invecchiato splendidamente. Vi sfido a trovare un disco dell’underground friulano autoprodotto che, a 8 anni di distanza, sembra uscito ieri. Tempus Non Est Iocundum è l’unico full-length di una formazione folk metal di Gemona (UD), che oltre ad esso ha prodotto un EP di esordio (poi ripulito e ripubblicato) e due singoli, prima di sciogliersi. Sebbene il termine folk metal rimandi inevitabilmente a un’orgia di ridondanti cornamuse, non potrebbe essere più lontano da ciò che invece è questo album, che passa dal thrash (“Sante Agnês”), al death (“L’Ustîr”), al black e al doom (“Agane” e “La Strie”, vero inno della band), fino all’etereo prog di “Cogoçârs”, il tutto condito da elementi industrial mai eccessivi. La band canta in friulano, forse l’elemento che più di tutti gli altri li rende terribilmente interessanti dal punto di vista sonoro (il friulano è una lingua incredibilmente musicale, anche grazie al suo essere lingua popolare e contadina). Come scrissi in una recensione contemporanea all’uscita, il cantante Nakia Spizzo dimostra una versatilità poco comune nel campo, e il suo growl è qualcosa di davvero spaventoso, senza nulla da invidiare ai maestri del genere. Tempus Non Est Iocundum è una perla rara alla quale forse, un giorno, la storia darà la gloria che merita.

 

4. Steven Wilson – The Raven that Refused to Sing (and other stories) (2013)

Con il suo terzo vero album solista, Steven Wilson diventa lo Steven Wilson, re del prog contemporaneo che conosciamo tutti: dopo l’esordio vagamente post-punk di Insurgentes e il seguito, lo splendido Grace for Drowning, il musicista trova qui la dimensione perfetta per creare il suo capolavoro. L’album è sì un chiaro omaggio alle sonorità del prog più classico, ma con una svolta moderna che gli consente di non essere derubricato a semplice nostalgia act. La differenza vera, però, la fa la scelta di registrare il disco dal vivo in studio con una band fissa, composta dallo stesso Wilson, Nick Beggs al basso, Guthrie Govan alla chitarra, Adam Holzman (ex direttore musicale di Miles Davis, per dirne una) alle tastiere, Marco Minnemann alla batteria e Theo Travis ai fiati. La compattezza sonora, stilistica e atmosferica, di questa band e di questo disco ne fa trasudare una magia che Wilson non ritroverà più nei dischi successivi (comunque ottime prove). Raven è il grande classico prog del nuovo millennio, a partire dalla fulminante intro di “Luminol” fino agli accordi finali di pianoforte della title track che chiude il disco.

 

3. Opeth – Pale Communion (2014)

Gli Opeth sono una delle band prog più importanti del nuovo millennio – avendo cominciato a costruirsi la reputazione già in quello vecchio. Pale Communion, del quale avevo scritto a suo tempo qui su TBU è il miglior disco dell’ultimo periodo, quello in cui Mikael Åkerfeldt e sodali armeggiano con gli stilemi del prog classico per crearne una versione nuova, meno nostalgica di quella dell’amico Wilson, più ispirata dai toni lugubri del doom scandinavo. Su Pale Communion sono le voci, i mellotron e l’orchestra a farla da padrone, molto più delle chitarre, ed è proprio questo ciò che rende quest’album così unico. L’introduzione di “Eternal Rains Will Come” con il suo scroscio di tastiere, un opener che non ha nulla da invidiare ai classici death metal della band, la complessa “Moon Above, Sun Below” rispolverata per il loro tour più recente, e la sublime, struggente chiusura orchestrale di “Faith In Others” (dal cui testo prende peraltro il titolo questo articolo), tutti gli ingranaggi si muovono in armonia.

 

2. Ghost – Infestissumam (2013)

Non ho mai fatto mistero del mio amore appassionato per la banda di Tobias Forge, mastermind dietro ai Ghost, e questo album è stato oggetto del mio secondo articolo in assoluto per The Bottom Up. La fama planetaria era ancora di là da venire per loro, che avevano comunque già alle spalle un tour in apertura a Mastodon e Opeth. I Ghost sono forse l’unico gruppo che ho visto nascere, crescere e diventare grande in diretta. Li ho scoperti poco prima di Infestissumam, il loro secondo album e il loro vero, grande trionfo. Infestissumam straborda di veri inni da stadio pop metal satanici. L’intro eponima è semplicemente devastante, e poi ci sono “Per Aspera ad Inferi”, “Jigolo Har Megiddo”, “Ghuleh (Zombie Queen)”, la totemica “Year Zero”, “Body and Blood”, “Idolatrine” e la conclusiva, definitiva “Monstrance Clock”, una celebrazione dell’orgasmo femminile. Dischi genuinamente divertenti e coinvolgenti come Infestissumam non ne uscivano da tanto, tanto tempo.

 

1. RUSH – Clockwork Angels (2012)

I Rush sono l’unico gruppo del quale posso davvero definirmi un fan: gli unici per i quali farei davvero follie, e il gruppo che per me significa più di qualunque altro. Questo decennio, sfortunatamente, ci ha maledetti con la chiusura della loro storia: dopo 19 LP e 1 EP in studio e 11 LP dal vivo, il Santo Triumvirato canadese ha deciso che era finita. Molto più triste vedersi morire che non essersi mai conosciuti, per parafrasare la loro splendida “Losing It”, e quindi meglio non vederlsi morire. Il batterista Neil Peart, stanco dopo una vita passata in tour e preoccupato di non riuscire più a suonare ai livelli del passato, ha preso la decisione, seguito dai compagni di una vita Alex Lifeson e Geddy Lee (che comunque non hanno nessuna intenzione di appendere chitarra e basso al chiodo – solo, non suoneranno più con il nome Rush). Il decennio, però, ci ha anche regalato il miglior album di chiusura di carriera di sempre (no, la terza parte di questa retrospettiva non smentirà questa affermazione), ovvero Clockwork Angels. Un concept album basato sul Candido di Voltaire, il bildungsroman di un giovane in un universo steampunk fatto di angeli meccanici, carnevali e dirigibili, il primo vero concept album della band a quasi 40 anni di carriera. I tre picchiano come fabbri su pezzi come “BU2B” e si destreggiano aggraziati su altri, come “Halo Effect” e “The Wreckers”, mescolando sapientemente queste due anime su uno dei brani portanti del disco, “Headlong Flight”, ricco di creativi giri di basso e sferzanti riff di chitarra  sull’ossatura del Professore della batteria, prima di chiudere con il trittico catartico “BU2B2”/ “Wish Them Well”/ “The Garden”, quest’ultima vero testamento spirituale del batterista e liricista Peart. Nessun’altra band ha saputo mantenere il livello del proprio output creativo alto tanto quanto i Rush per tanto quanto lo hanno fatto i Rush (una frase un po’ alla Bilbo Baggins, mi rendo conto – capitemi), e ci mancano già infinitamente.
I Rush sono morti, lunga vita ai Rush!

 

Guglielmo De Monte
@BufoHypnoticus

 

[Immagine di copertina: dal DVD Time Stand Still dei Rush]

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