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Sempre più persone in fuga (anche) dai cambiamenti climatici

Nell’analisi del fenomeno migratorio, c’è un segmento della popolazione migrante che rimane pressoché invisibile e poco indagato: si tratta dei migranti climatici. “Migrazioni forzate che non fanno rumore, perché difficili da quantificare, non tutelate dal diritto internazionale, complesse da comprendere e da spiegare”, si legge nella seconda edizione del rapporto Crisi ambientali e migrazioni forzate. Nuovi esodi al tempo dei cambiamenti climatici, curato da Salvatore Altiero e Maria Marano per Associazione a Sud e Centro Documentazione Conflitti Mondiali.

Migranti climatici, quanti sono e da dove provengono?

Secondo i dati UNHCR relativi al 2017, 68,5 milioni di persone sono state costrette ad abbandonare le proprie case. Di questi, 25,4 milioni sono rifugiati, di cui l’Europa accoglie solo una minima parte. Per la precisione, 11 milioni, compresi quanti si trovano in Turchia, paese con cui l’Europa ha siglato un accordo scellerato perché filtrasse e contenesse gli arrivi provenienti dalla rotta balcanica. In realtà, la maggior parte dei rifugiati internazionali si trova in paesi cosiddetti in via di sviluppo (86%) e in assoluto i paesi che accolgono di più sono, nell’ordine, Turchia, Pakistan, Uganda, Libano, Iran, Germania e Bangladesh. Il Libano, per esempio, che è grande quanto l’Abruzzo (!), secondo il Global Trends 2017 dell’UNHCR ospita 169 rifugiati ogni 1.000 abitanti.

Per di più, la maggior parte dei migranti forzati sono sfollati interni, persone che si spostano all’interno del proprio paese in cerca di condizioni di vita migliori: secondo il Global Report on Internal Displacement 2018, sono 30,6 milioni, di cui 18,8 a causa di catastrofi naturali.

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Fonte: Internal Displacement Monitoring Centre

Alluvioni e piogge torrenziali, cicloni, prolungate siccità sono solo alcune delle cause all’origine di questi spostamenti. Tra l’altro, i paesi più colpiti da fenomeni climatici estremi sono spesso anche paesi a basso reddito, come le Filippine, la Somalia o lo Sri Lanka, principalmente paesi dell’Africa subsahariana e dell’Asia meridionale.

Sempre nel dossier Crisi ambientali e migrazioni forzate, si precisa ad esempio come le principali nazionalità destinatarie dei 262.770 permessi di soggiorno concessi nel 2017 in Italia – tra cui il 38,5% per motivi umanitari, forma di protezione oggi abolita dal Dl Salvini-, siano state la Nigeria, il Pakistan e il Bangladesh. Secondo l’Internal Displacement Monitoring Centre, questi ultimi due sono tra i paesi più a rischio di calamità naturali.

Quindi, non stiamo parlando solo di migrazioni interne, né di un fenomeno passeggero: l’OIM stima tra i 200 e i 250 milioni di migranti ambientali entro il 2050, una media di 6 milioni di persone che ogni mese saranno costrette ad abbandonare la propria terra e il proprio paese, attraversando anche i confini territoriali nazionali. Come garantire loro un’adeguata forma di protezione?

 

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Fonte: Internal Displacement Monitoring Centre

 

Le lacune di una normativa in evoluzione

Ad oggi, i migranti climatici non costituiscono una vera e propria categoria giuridica autonoma. In realtà, non c’è accordo nemmeno su come “etichettarli”: migranti o rifugiati ambientali? La differenza non è di poco conto, perché rischia di accostare i primi ai “migranti economici” che l’Europa cerca caparbiamente di respingere, ponendo enfasi su una dimensione volontaristica della migrazione che non è sempre facile determinare con chiarezza. E che, come sappiamo bene, spesso non dà diritto ad accedere a forme di protezione statale.

L’espressione “rifugiato ambientale”, usata per la prima volta negli anni ’70 da Lester Brown, ambientalista statunitense fondatore dell’Earth Policy Institute, diviene di uso comune dopo il 1985, a seguito della definizione contenuta nella pubblicazione Environmental Refugees del ricercatore Essam El-Hinnawi.

Il richiamo alla Convenzione di Ginevra del 1951 pone un grosso problema di interpretazione: per riconoscere lo status di rifugiato, infatti, è necessario dimostrare un giustificato timore di persecuzione fondato su motivi di razza, religione, nazionalità, opinione politica e appartenenza ad un determinato gruppo sociale.  Chiaramente, all’epoca della stesura della Convenzione un fenomeno relativamente nuovo come quello delle migrazioni ambientali non era stato oggetto di considerazione e la categoria di rifugiato ambientale non viene menzionata. A meno che non si opti per una sua interpretazione estensiva, così com’è formulata la Convenzione tende ad escludere chi migra a seguito di disastri e cambiamenti climatici.

Bangladesh battles in the frontline against climate change
Fonte: flickr.com

Tuttavia, in Italia un’ordinanza del tribunale de L’Aquila ha riconosciuto a febbraio 2018 la protezione umanitaria ad un cittadino bengalese, costretto ad andarsene per aver perso la fonte del suo sostentamento a seguito di un’alluvione. Il riconoscimento del legame, seppur non diretto, tra cataclisma, distruzione dell’ecosistema e perdita del proprio tenore di vita è una piccola vittoria.

In linea con la definizione, proposta nel 2007 dall’OIM, che torna però a parlare di migranti climatici:

“persone o gruppi di persone che, per pressanti ragioni di un cambiamento improvviso o graduale che influisce negativamente sulle loro vite o sulle loro condizioni di vita, sono costretti a lasciare le loro dimore abituali o scelgono di farlo, temporaneamente o per sempre, e che si spostano sia all’interno del loro paese che oltre confine.

Purtroppo, un passo avanti ancora insufficiente. Tanto è vero che il problema rimane: una definizione chiara e condivisa di migrante ambientale non esiste; di conseguenza, è difficile mettere in campo strumenti di tutela adeguati.

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Una questione di giustizia globale e intergenerazionale

Nella decisione di spostarsi, possono intrecciarsi in maniera complessa tutta una serie di motivazioni di ordine economico, demografico, sociale e ambientale che non andrebbero analizzate separatamente. Le disuguaglianze sociali, le guerre e la povertà sono infatti correlate con il cambiamento climatico, su cui pesa la condanna di un impatto antropico che ha da lungo tempo superato la capacità di rigenerazione delle risorse terrestri.

Surriscaldamento globale e inquinamento dell’aria, innalzamento del livello dei mari, scioglimento dei ghiacciai e desertificazione non sono fenomeni mitizzati ma la prova tangibile del baratro ecologico su cui ci stiamo affacciando. A subirne le conseguenze peggiori, proprio quelle zone del mondo da cui continuiamo ad estrarre la maggior parte delle risorse, contribuendo al peggioramento e alla distruzione di ecosistemi già fortemente stressati. Alla luce delle enormi responsabilità del modello economico occidentale, risultano ancor più inconsistenti le posizioni di leader mondiali come Trump e il neoeletto presidente brasiliano Bolsonaro, convinti negazionisti del climate change.

La costruzione di grosse infrastrutture, come le dighe lungo la valle dell’Omo in Etiopia o gli oleodotti dell’Eni in Nigeria, per esempio, sono all’origine di gravi danni ambientali e, di conseguenza, dello spostamento massiccio di persone. E cosa direste se sapeste che la coltivazione intensiva di avocado, quel gustoso frutto che ha invaso le nostre tavole, ha un costo idrico esorbitante che in Cile ricade in gran parte sulla popolazione locale, lasciata senz’acqua? Le monocolture, infatti, sono un’altra piaga ecologica dai risvolti drammatici, che lascia vaste zone impoverite e consumate, dando vita ad un fenomeno conosciuto come land grabbing, una spartizione vorace e neocoloniale di ettari ed ettari di terre. La scarsità di risorse inoltre, in particolar modo quelle idriche, è all’origine della maggior parte dei conflitti e dei movimenti migratori.

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Fonte: unimondo.org

 

La questione dei rifugiati ambientali riguarda solo in apparenza popolazioni e luoghi lontani, vi siamo implicati tutti: ad essere preso in causa è il nostro stile di vita, incapace di fare i conti con un minimo di progettualità futura. Secondo il rapporto di Oxfam Ricompensare il lavoro, non la ricchezza, diffuso alla vigilia del Forum economico mondiale di Davos, l’82% della ricchezza globale finisce nelle mani dell’1% della popolazione più ricca del mondo. Una forbice di disuguaglianze abissale e preoccupante.

Migrazioni e ambiente in senso lato sono profondamente correlati, è ora di prenderne coscienza. Soprattutto, è ora di fare i conti con le responsabilità di un sistema di produzione e consumo insostenibile, che lascia in eredità alle generazioni future, di ogni provenienza geografica, un mondo saccheggiato e depauperato.

Martina Facincani

2 pensieri su “Sempre più persone in fuga (anche) dai cambiamenti climatici

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