“It will be chaos”: uno spaccato umano sulle migrazioni

“It will be chaos”: uno spaccato umano sulle migrazioni

Una lunga serie di bare di legno chiaro viene adagiata con lentezza sulla banchina di un porto. Urla strazianti lacerano l’aria, corpi che si abbracciano, aspettano, si guardano attorno smarriti in cerca di risposte inafferrabili occupano ogni angolo di inquadratura. , com’è stata definita dall’antropologo Marco Aime in un recente testo che ne ricostruisce la storia, si è appena consumata una delle tragedie più drammatiche dell’epoca recente: sono morte nel tentativo di attraversare il Mediterraneo, in tasca il sogno di un futuro. distribuito dalla statunitense HBO e da Sky Atlantic (in Italia) e . Nel farlo, si fanno delicatamente da parte e lasciano che siano le storie di due percorsi migratori diversi eppure così simili, nelle difficoltà che devono affrontare, a condurci nella complessità di un fenomeno troppo spesso demonizzato. un gran numero di giovani a cercare un’alternativa scappando dal proprio paese. Si tratta di una leva militare obbligatoria che in molti casi si protrae in maniera indefinita, persino per decenni, paragonabile, ai lavori forzati. Aregai ha lavorato come guardia in una prigione militare, . “Ho fatto il soldato per quindici anni”, racconta lo stesso Aregai, “gli anni d’oro in cui avrei potuto lavorare, mettere da parte dei soldi, costruirmi una famiglia”. Invece ha vissuto nella paura di essere catturato o arrestato dalla polizia, nella certezza di non poter disporre liberamente della propria vita. Secondo le Nazioni Unite, l’Eritrea rimane , Aregai ha perso tre cugini, inghiottiti dalle onde salate del mare. Lui è stato più fortunato: salvato dai fratelli pescatori Colapinto, attraverserà le maglie del sistema di accoglienza italiano, le sue lungaggini e le attese senza fine, sino all’agognata meta del nord Europa. ha una moglie e quattro figli piccoli, una determinazione di ferro nel cercare di portarli lontano da una terra martoriata da un . Come quasi sempre succede quando i confini si fanno più difficili da attraversare, , e così la famiglia Orfahli è costretta anche a pagare trafficanti e : Turchia, Grecia, Macedonia, Serbia, Ungheria, Croazia, Austria ed infine Germania, dove ad attenderli c’è il fratello di Wael, Thair. La preoccupazione che incalza senza tregua, la fatica, lo sforzo di doversi ambientare in un nuovo paese, . Wael ce l’ha fatta, eppure sente addosso la pesantezza di una scelta che non è mai facile, né può essere appiattita a spiegazioni monodimensionali. , avendo cura di non tralasciare nemmeno gli aspetti più scomodi e ambigui: la pressione degli arrivi sulle coste italiane più esposte, la gestione emergenziale dell’ , le preoccupazioni dei residenti, sino alle esternazioni più intolleranti e al diffondersi dei populismi. Le riprese, durate cinque anni, seguono da vicino i protagonisti in un documentario dal ritmo via via sempre più incalzante, in cui la parola d’ordine sembra essere e oggi tristemente sotto attacco, di fronte alle telecamere ricorda le subite in prigione, mostrando le braccia piene di bruciature di sigaretta. Una storia di sofferenza drammatica, eppure analoga a quella di molti altri migranti, nel tempo e nello spazio. Perché , di perdita e di ricerca di spazi di vita che possano dirsi dignitosi.