Brexit. Tutto il mondo ne ha parlato come l’evento politico del 2016, almeno per qualche mese (poi è arrivato Trump). Anche il Bottonomics uscì con un commento non tradizionale ma obbligato, visto che a caldo gli scenari futuri sul destino della Gran Bretagna erano impossibili da ipotizzare nel concreto.

Più di un anno dopo, molte cose sono cambiate e le negoziazioni per l’uscita della Gran Bretagna dall’UE finalmente sono cominciate. Ecco quindi un riassunto della situazione attuale di Brexit.
Chi, cosa, come, quando
Theresa May, nuovo Primo Ministro britannico dopo le dimissioni di David Cameron a seguito del risultato referendario, ha, dopo vari tentennamenti, invocato l’articolo 50 del Trattato sull’Unione Europea il 29 marzo 2017, dando inizio al conto alla rovescia per l’uscita della Gran Bretagna: secondo l’articolo le negoziazioni devono concludersi entro due anni, dopo i quali il Trattato non si applica più al paese che ha fatto richiesta di uscita, e che quindi in mancanza di un accordo verrebbe trattato come un paese extracomunitario qualunque. Segnate dunque il 29 marzo 2019 sul calendario.
Le negoziazioni dureranno meno dei due anni previsti: sono ufficialmente cominciate a Bruxelles il 29 giugno scorso e i più ottimisti attendono la prima proposta di accordo a novembre 2018 per essere presentata al Parlamento e al Consiglio Europeo. La struttura delle negoziazioni segue un ciclo di quattro settimane: una di negoziato vero e proprio e tre di preparazione/aggiornamento/riassunto.
Il capo negoziatore per la Gran Bretagna è David Davis, 68 anni, membro del Partito Conservatore. Per l’Unione Europea è stato scelto Michel Barnier, 66 anni, francese, Ministro dell’Agricoltura sotto la Presidenza Sarkozy ed ex Commissario Europeo per il mercato interno e i servizi. Un nutrito numero di funzionari completa le due squadre.
L’attitudine e l’umore delle due parti
La Gran Bretagna ha avuto un percorso di avvicinamento alle negoziazioni decisamente turbolento a seguito dello shock per il risultato del referendum, ma May si è complicata la vita da sola. A livello nazionale si è molto discusso della linea da tenere, e i termini Hard e Soft Brexit sono comparsi sulle pagine dei giornali. Con il primo si intende la tendenza a volere un’uscita totale dall’influenza europea, recidendo ogni legame amministrativo ed economico, inclusa la libera circolazione delle persone. Con Soft Brexit si indica la linea di quelli che spererebbero di raggiungere con l’UE un accordo più costruttivo, volto a conservare i legami tra le due parti. Vale la pena sottolineare che queste due espressioni non vogliono dire nulla in termini legali: come May ha ricordato, “Brexit means Brexit”, soft o hard è una questione di gusto.
A complicare le cose sono arrivate le elezioni a sorpresa chieste da May, con l’obiettivo malcelato di aumentare la propria maggioranza in Parlamento e presentarsi in forma al tavolo delle negoziazioni. Una tremenda campagna elettorale e Jeremy Corbyn le hanno messo i bastoni tra le ruote. Risultato: 13 seggi persi e governo tenuto in piedi dalla stramba alleanza con il DUP nordirlandese, e la sensazione che l’elettorato cominci a farsi qualche domanda sull’opportunità di Brexit. Non proprio il miglior viatico per cominciare un lungo braccio di ferro diplomatico.

Dall’altra parte Barnier e l’Unione Europea hanno mostrato la forza dei nervi distesi. In fin dei conti è la Gran Bretagna che ha fatto richiesta di uscire, per cui la spinta per l’accordo deve arrivare da quel lato. Non bisogna però sottovalutare la lunga tradizione di autolesionismo europeo, con il fronte degli Stati membri sempre suscettibile a spaccarsi.
Come sono andati i primi tre round di negoziati
Malino e a rilento, tra differenze di vedute e perplessità. Quest’ultime sono legate all’effettivo livello di preparazione della delegazione britannica: le malelingue vociferano di un livello piuttosto basso dei funzionari presenti e di richieste sconnesse dalla realtà. Altri invece, consci della eccezionale tradizione diplomatica britannica, si aspettano il trappolone: una partenza diesel per guadagnare tempo, approfittando poi del calo di tensione agostano per inondare a settembre il tavolo con position paper ufficiali. E infatti questo è già in parte successo (trovate i documenti qui).
Il problema principale è costituito dall’ordine di discussione degli argomenti in agenda. L’Unione Europea ha posto tre argomenti prioritari, e non è disposta a trattare altro se prima non si raggiunge un accordo su questi punti. La Gran Bretagna riconosce le priorità, ma vorrebbe cominciare a discutere in parallelo anche delle relazioni future con l’Europa, soprattutto di quelle commerciali.
Le tre priorità europee, in breve
- Il “Divorce Bill”
Come in tutti i divorzi, una parte deve pagare. L’Unione si attende che la Gran Bretagna onori il proprio impegno finanziario al bilancio europeo, calcolato fino al 2020, e non è disposta a cedere: nelle intenzioni di Barnier, i soldi non possono essere oggetto di scambio su altri argomenti. Il calcolo della cifra che la Gran Bretagna dovrebbe pagare non è semplice: in questi mesi si sono lette variazioni da 45 a 100 miliardi di euro (si è a lungo parlato di May disposta ad accettare un conto di 54 miliardi di euro, ipotesi poi smentita).
- I diritti dei cittadini europei
Punto critico, perché si mischiano diritti fondamentali, immigrazione e sovranità nazionale. Sono circa 3 i milioni di cittadini europei residenti in Gran Bretagna, 1.2 milioni i britannici sul Continente. La condizione fondamentale per l’UE è quella di riuscire a garantire il mantenimento degli attuali diritti dei propri cittadini, che non vorrebbe vedere inficiati dal referendum: il nodo è la richiesta di mantenere la giurisdizione della Corte Europea di Giustizia sugli individui e sulle imprese, per tutti i casi giudiziari aperti prima del 29 marzo 2019.
Dall’altro lato la Gran Bretagna ha un duplice obiettivo: cercare di soddisfare l’opinione pubblica in tema di immigrazione e, appunto, recidere ogni tentacolo della Corte sulla legge britannica. L’avversione verso la Corte non è argomento nuovo, e nemmeno esclusivamente britannico (qui un’interessante analisi, in francese, del ruolo non solo giuridico della Corte).
Il 5 settembre però il Guardian ha sganciato la bomba, pubblicando la bozza della proposta britannica in tema di circolazione delle persone. Alcuni punti: permesso di soggiorno al massimo di due anni per i lavoratori non qualificati (cinque anni per i più qualificati), pratiche per avere lo status di “settled” più lunghe e complesse, incluse quelle per i ricongiungimenti famigliari, obbligo di mostrare il passaporto (non più la carta d’identità) alla frontiera, priorità alla manodopera domestica. Per usare un eufemismo, le parti sono ancora lontane.
- Il confine irlandese
Questo è il punto dove forse le posizioni sono più vicine, ma è tecnicamente difficile da risolvere. Tutti sono infatti consapevoli che il confine irlandese sia delicato, sia in termini di pace che economici, dopo tutti gli sforzi fatti negli ultimi 40 anni. Creare un confine “duro” non converrebbe a nessuno, men che meno alle merci irlandesi: per l’economia dell’isola si tratterebbe di una catastrofe, perdendo l’appoggio logistico dovuto al facile transito verso sud attraverso il territorio britannico.
La mossa britannica
Partendo dal nodo del confine irlandese, i negoziatori britannici hanno provato a inserire le discussioni sulle future relazioni commerciali con l’Unione, sostenendo (non completamente a torto) che le priorità europee si devono risolvere anche alla luce di quello che verrà concordato alla fine delle negoziazioni. Un documento ufficiale propone due possibili scenari per il commercio: la prima suggerisce di creare una vera dogana tra UE e Gran Bretagna, ma cercando un allineamento di massima, arrivando a qualcosa di simile alla dogana UE – Svizzera. La seconda soluzione è più creativa, ma poco plausibile: la Gran Bretagna applicherebbe le regole doganali europee (quindi di fatto non ci sarebbe un confine doganale tra i due blocchi), ma, sui prodotti destinati al consumo sull’isola si applicherebbero delle tariffe decise dalla Gran Bretagna. Resterebbe il problema di tracciare ogni singolo prodotto che passa per il territorio di Sua Maestà.
La risposta europea è stata: “carino il documento, ora però torniamo a parlare di cose serie, ossia soldi, diritti e confine, s’il vous plait“.
E ora?
Obiettivamente, la Gran Bretagna sembra un po’ affaticata: i suoi diplomatici e funzionari si trovano davanti una sfida immane, considerando che dovranno poi mettersi a negoziare accordi commerciali con il resto del mondo, cosa impossibile nel breve termine. In più le conseguenze sull’economia reale non sono ancora chiare: lasciando per un istante il deprezzamento della sterlina, sarebbe interessante capire come i settori che si appoggiano di più sui lavoratori stranieri (finanza e sanità) reagirebbero alle nuove proposte in tema di migrazione. Anche in tema legislativo interno la situazione è complessa: senza le leggi europee, si aprirebbe un enorme vuoto legislativo. La soluzione (paradossale) è quella di fare un enorme copia-incolla dall’ordinamento europeo a quello britannico tramite il Great Repeal Bill, fresco di discussione in Parlamento. In pratica le leggi europe saranno assorbite, per poi decidere cosa eliminare e cosa modificare per garantire la sovranità britannica. Complicato.
La sensazione è che i due anni di negoziazione previsti siano pochi: mancano poco più 18 mesi alla fine e non si è trovato un accordo nemmeno su cosa definire “progresso” per passare alla fase successiva. Sono mille le situazioni da calibrare e discutere: dal controllo della sicurezza delle centrali nucleari fino al rispetto delle indicazioni geografiche, si tratta di una tanto colossale quanto capillare trattativa, di cui si stenta a vedere il fondo.
Roberto Mantero
Fonte dell’immagine di copertina: la pagina Wikipedia dell’immortale “Tutto quello che avreste voluto sapere sul sesso* (*ma non avete mai osato chiedere)”, modificata in Paint dal sottoscritto. Spero che Woody mi perdoni un giorno.