Ammalarsi di carcere
all’interno degli oltre 200 istituti di pena italiani continua ad essere un nervo scoperto. L’offerta di prestazioni è spesso discontinua ed insufficiente, sia per qualità, che per quantità, e l’accesso alle cure mediche è subordinato all’ Negli anni, gli interventi legislativi si sono mossi nella direzione di riconoscere la necessità di garantire un’adeguata assistenza medica ai detenuti, (per ricostruzioni dettagliate sulle principali tappe di riforma della sanità penitenziaria, si veda gli approfondimenti messi a disposizione da , tra cui quello alla salute (art.32). In tal senso, la svolta decisiva sarebbe dovuta arrivare con il passaggio delle competenze sanitarie dal Ministero della Giustizia al Ministero della Salute , avvenuto, non senza intoppi, tra il 2008 e il 2010. La presa in carico da parte di ASL e Regioni avrebbe dovuto ribadire la priorità assoluta data alla salvaguardia del benessere e della dignità umana, ma ha generato in realtà , dovute in egual misura ai continui tagli, alle resistenze dell’Amministrazione penitenziaria e alla mancanza di una seria programmazione degli interventi. Ad oggi, si tratta di un processo rimasto sostanzialmente incompleto. Giusto per dare un’idea della “salute diseguale” goduta in carcere, basti considerare questo aspetto: nell’era della digitalizzazione dei dati, non tutti gli istituti dispongono di cartelle cliniche informatizzate, da cui deriva il rischio che vengano perse informazioni essenziali sulla condizione psico-fisica del paziente detenuto, banalmente anche nel corso di un trasferimento da sezione a sezione. La stessa raccolta ed elaborazione di informazioni cliniche è difforme, lasciata alla sensibilità delle singole amministrazioni carcerarie. Il problema è senz’altro culturale, oltre che amministrativo. Sebbene l’art. 27 della Costituzione italiana stabilisca che “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e che devono tendere alla rieducazione del condannato” – affermazione, certo, che solleva non poche problematiche -, si fatica ancora molto a Nell’immaginario comune, solo una sanzione che risponda a logiche retributive spietate può restituire giustizia allo strappo tra il reo e la società. Questo giustificherebbe, quindi, il attraverso cui passano tutta la serie di pene accessorie che aggravano la condizione di privazione della libertà personale, non previste da regolamenti, leggi, né tantomeno dalle linee guida europee e internazionali. Lungi dal voler fare apologia della devianza o una trattazione organica di diritto penale, nel parlare di tutela alla salute in prigione non è possibile prescindere dal considerare le , che rimane un luogo altamente patogeno, tanto che in Italia il . Il comparto sanitario, a cui vengono destinate risorse insufficienti – un imbarazzante 8,5% in cui convergono tutte le spese sostenute per i detenuti -, è inesorabilmente fagocitato da questioni più urgenti. . Meno reati, più detenuti: tra questi, il 34,2% sconta condanne per reati legati alla droga. Simile la percentuale di detenuti stranieri presenti, molti dei quali “irregolari” e sotto custodia cautelare. Il risalto mediatico e politico concesso al senso di insicurezza percepito sta mettendo a dura prova la tenuta del nostro sistema penale. Il panico generalizzato c , che credono di poter far fronte ai complessi mutamenti sociali accanendosi contro i segmenti più fragili della società: poveri, immigrati, tossicodipendenti/piccoli spacciatori. Le stesse fasce sociali che tendenzialmente commettono reati minori, ma su cui si concentra lo stigma del controllo. , emessa dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo nel 2013, i numeri tornano nuovamente a salire: 56.919 persone recluse al 30 giugno 2017, di cui 19.432 stranieri è possibile consultare la serie storica dei dati dei detenuti presenti per sesso, posizione giuridica e nazionalità, anni 1991-2017). Paradossale, considerato il calo sensibile di reati gravi come la violenza sessuale o l’omicidio . Sovraffollamento significa minor spazio, minori risorse e condizioni di vita peggiori, ben al di sotto degli standard minimi stabiliti: in breve, una grave compressione del diritto ad un trattamento individualizzato. Basta dare un’occhiata ai report stilati dall’ strutture fatiscenti, carenza di spazi di socialità e condizioni igieniche precarie , non tutte le celle delle prigioni italiane dispongono di una doccia, come da regolamento, e l’acqua calda non è sempre disponibile. In molti istituti c’è carenza di beni di prima necessità come carta igienica, shampoo o dentifricio. Un enorme sfiatatoio del disagio umano, un girone infernale che funge da “discarica umana”, dove le esigenze e le complicate biografie degli ospiti richiederebbero personale altamente qualificato e protocolli operativi standard. Invece, il numero degli operatori, esclusi coloro che sono adibiti alla sicurezza, continua ad essere fortemente sottostimato, fatto gravissimo laddove c’è estremo bisogno di interventi mirati. deve essere affrontata dando vita a percorsi trattamentali e di rinforzo psicologico specifici, pensati in un’ottica riabilitativa, possibilmente in regime alternativo. Com’è noto, l’ è un fenomeno tristemente comune tra le mura di una cella. Ugualmente, malattie infettive e sessualmente trasmissibili come necessitano di monitoraggi costanti e interventi preventivi, come la distribuzione di profilattici e la possibilità di eseguire screening periodici. non sono pensate per farsi carico di malattia, anzianità ed esigenze particolari (maternità, disabilità, LGBTQ). Le conseguenze, fisiche e psicologiche, sono drammatiche: secondo il dossier , tra le 55 persone decedute in carcere al 30 giugno 2017, Il fenomeno coinvolge anche il personale, in particolare gli agenti di polizia penitenziaria: cinque solo quest’anno. In crescita gli episodi di autolesionismo, soprattutto tra la popolazione straniera: secondo gli Osservatori di Antigone, si tratterrebbe dell’“ da parte di un universo di disperati che, nella gran parte dei casi, non possiede molte altre alternative per far sentire la propria presenza.” L’insorgenza di disturbi psichici rimane elevata, e trattare di ex O.P.G., ora R.E.M.S., meriterebbe uno spazio tutto suo. Rimane il fatto che , che sconta le resistenze mentali e la lentezza normativa incapace di superare una concezione di carcere ghettizzante, unicamente contenitivo, ben lontano dallo sforzo rieducativo di cui dovrebbe farsi carico. , giornale della casa di Reclusione di Padova e dell’Istituto Femminile della Giudecca Clicca per condividere su Google+ (Si apre in una nuova finestra) Clicca per condividere su Tumblr (Si apre in una nuova finestra) Clicca per condividere su Pinterest (Si apre in una nuova finestra)
