Un bambino piccino, sporco e sperduto. Così si presenta Saroo.
Solo alla fine scopriremo che in realtà si chiama Sharu: vuol dire “leone“. Ma lui è troppo piccolo per sapere la giusta pronuncia del suo nome. Così come è troppo piccolo per ricordarsi correttamente il nome di casa sua: Ganesh Tilai. Saroo si trova solo, a Calcutta, e dopo essere riuscito a scappar via dai pericoli più crudeli, finisce in un orfanotrofio. Un luogo che, per quanto povero, si rivela essere la sua salvezza: è da qui che viene adottato da una coppia australiana. Ed è da qui che la sua vita ricomincia. Saroo cresce, va all’università e si innamora. Sembrerebbe che la sua vita sia ricominciata, ma non è così. Non può essere così perché il passato continua a cercarlo: non smette di ricordare il volto del fratello o il sorriso della madre. Ed è da qui, e dai suoi pochi ricordi di casa (quella vera), che comincia la sua ricerca ossessiva.
Lion è il debutto cinematografico di Garth Davis, che si presenta sul grande schermo basandosi sul libro La lunga strada per tornare a casa, scritto dal vero Saroo. Si, è una storia vera. Infatti, nella prima parte del film, il regista decide di lasciare la recitazione in lingua originale hindi e bengali. Si tratti di lingue profondamente diverse da quelle europee, e risulta perciò forte il contrasto con il doppiaggio. Tanto da lasciare lo spettatore quasi disorientato non appena ritorna l’italiano. Una scelta registica che vuole evidenziare quanto le differenze tra la società occidentale e quella indiana.
Ritroviamo una grande interpretazione di Dev Patel nel ruolo del “Saroo cresciuto”, che molti ricorderanno soprattutto per la parte in The millionaire. Ritroviamo anche una brillante Nicole Kidman in Sue Brierley, la madre adottiva. Ma soprattutto scopriamo un eccezionale Sunny Pawar, bambino indiano di otto anni al suo esordio. Il film gioca con i colori per ben rappresentare le differenti ambientazioni: se le “inquadrature australiane” sono ordinate e caratterizzate dalla vista ricorrente del mare e dai colori freddi, quelle “indiane” sono l’esatto opposto: vi è un turbine di colori caldi, quasi a farci sentire l’afosità del sole. Ci trasmettono sempre chiasso, disordine, rumore. Fa eccezione la radura, l’unico luogo indiano che trasmette pace e serenità. Un luogo dove anche le farfalle ti accarezzano la pelle.

Lion è la ricerca della strada verso casa. Una casa che rappresenta l’amore fraterno e l’amore tra madre e figlio. Ma è anche la storia dell’amore coraggioso e incondizionato di chi, i figli, decide di sceglierli, adottandoli. Un film che forse arriva a far comprendere il dolore di stare al mondo senza la propria famiglia, e la gioia di ritrovare un luogo da chiamare “casa”, nonostante tutto. Si esce dalla sala con un senso di speranza, ma anche con tanti interrogativi. È una storia che tocca temi difficili ai quali forse prestiamo troppa poca attenzione: l’adozione o le sparizioni dei bambini in India. Una regia che delicatamente ci fa pensare agli orrori più terribili, quali prostituzione minorile o il traffico d’organi. Garth Davis riflette su come il passato possa continuare a tormentarci, soprattutto quando è oscuro, ma allo stesso tempo ammette che non è possibile rinunciarci, perché le nostre radici sono importanti. Ed è questo il messaggio di Saroo e del suo viaggio, un Ulisse che fugge da mostri umani sino a trovare un posto in cui riposare e crescere, per poi riprendere la sua odissea e tornare nella sua India, da sua madre. Insomma, Garth Davis fa un’entrata spettacolare nella scena del cinema, ricordandoci una lezione che abbiamo imparato nei banchi di scuola: camminare sempre verso ciò che è degno di essere domandato non è avventura, ma ritorno in patria. Regalando così, in fondo, anche la promessa di una speranza.
Paola Pitzus