E così nei prossimi mesi un referendum chiamerà gli elettori ad esprimersi sull’abolizione dei voucher.
Mercoledì scorso, infatti, la Consulta ha ammesso il quesito relativo all’abrogazione delle disposizioni sul lavoro accessorio, a coronamento di una campagna di raccolta firme promossa dalla CGIL che aveva visto l’adesione di oltre tre milioni di italiani. “I voucher sono come i pizzini – aveva affermato recentemente la segretaria generale Susanna Camusso – retribuiscono qualsiasi attività. Così facendo si inquina il buon lavoro e si condannano milioni di giovani e lavoratori a un futuro assai povero. Vanno aboliti”.

A fronte di appelli così accorati ed accesi, comprenderete la mia sorpresa quando, leggendo un articolo a firma del responsabile comunicazione della CGIL, sono venuto a sapere che “la CGIL non vuole abolire il lavoro occasionale accessorio” bensì “abrogare le disposizioni di legge che hanno consentito un utilizzo di questo istituto improprio ed invasivo, tale da favorire forme incontrollate di precariato”. Un proposito a testimonianza del quale si rimandava agli articoli 80 e 81 della nuova Carta dei diritti universali del lavoro, promossa dal medesimo sindacato e depositata sotto forma di legge di iniziativa popolare.
Ma quindi la CGIL la pensa come il Ministro del Lavoro Poletti? Non aveva persino lui recentemente testimoniato la volontà del governo di rivedere la normativa in merito “rideterminando dal punto di vista normativo il confine del loro uso”, aggiungendo di aver “introdotto la tracciabilità, e dal prossimo mese vedremo l’effetto. Se è quello di una riduzione della dinamica di aumento e di una messa sotto controllo di questo strumento, bene. Se invece i dati ci diranno che anche questo strumento non è sufficiente a riposizionare correttamente i voucher la cosa che faremo è rimetterci le mani”.
Abolizione o riforma, dunque?
Nonostante le dichiarazioni battagliere di esponenti politici vicini al sindacato – da Roberto Speranza del PD, che aveva legato agli intenti di riforma del meccanismo dei voucher il voto contrario alla mozione di sfiducia del Ministro Poletti, sempre appropriato e moderato nelle sue dichiarazioni, a Roberto Paglia di Sinistra Italiana (“Lo strumento dei voucher va abolito, non semplicemente migliorato”) – pare che persino i promotori del referendum riconoscano la necessità di non smobilitare completamente la normativa sul lavoro accessorio.
E d’altronde, se da un lato gli abusi sono stati talvolta evidenti, come nel caso dei lavoratori in sciopero del ristorante Flunch di Modena, sostituiti da personale pagato con voucher, dall’altro lato esiste indubbiamente un’intera platea di lavori effettivamente saltuari, stagionali o occasionali per i quali occorre prevedere forme di pagamento regolare.
Non voglio in questa sede soffermarmi sul dettaglio della normativa in vigore, rimandandovi alla neutra e puntuale trattazione a disposizione sul sito dell’Inps.
In attesa di dati complessivi aggiornati al 2016, le indicazioni che emergono sono peraltro ambivalenti: mostrano cioè che affermare che i voucher abbiano sostituito il lavoro tradizionale a tempo indeterminato è alquanto pessimistico (la gran parte dei percipienti è effettivamente costituita da studenti, pensionati, disoccupati e cassaintegrati – e comunque sul totale dei lavoratori italiani, nel 2015, destinatari di voucher era l’1,3%).
Al tempo stesso, almeno fino all’introduzione della tracciabilità, l’obiettivo di far emergere il grosso del lavoro nero era però lontano, stando alle parole del presidente INPS Boeri (“per il momento non sembra esserci grande evidenza: quello che viene fuori è che non sono tanti i lavoratori nelle fasce centrali d’età, si vedono poche persone che prima non lavoravano che di colpo prendono voucher”).
L’abuso più frequentemente denunciato risulta nella possibilità per il datore di lavoro di pagare meno ore di quante effettivamente lavorate, esibendo anche un solo voucher corrispondente ad un’ora di servizio in caso di controlli. In questo senso, l’introduzione dell’obbligo di comunicare preventivamente il numero di ore richieste al determinato lavoratore e dunque l’esatto corrispettivo in voucher a lui destinato, potrebbe aiutare ma, come detto, ancora mancano dati.
Fare un’antologia del dibattito in corso, tuttavia, non è l’obiettivo di questo breve articolo: gli argomenti sono vari e variamente validi. Né interessa perdersi nella polemica sull’utilizzo da parte della stessa SPI-CGIL dei tanto odiati voucher: erano anzi probabilmente una forma adatta e regolare per rimborsare piccole prestazioni, un miglioramento significativo rispetto a pratiche comuni come gonfiare rimborsi chilometrici.
Rimandando eventualmente ai più ferrati colleghi del The Bottonomics una disamina seria su uso e abuso di voucher e sui possibili margini di correzione, interessante è la questione politica che soggiace a questa nuova avventura referendaria.

Recentemente, il segretario del Sindacato Pensionati Italiani Ivan Pedretti non soltanto ha aperto alla possibilità di correttivi e modifiche legislative corpose, tali da rendere ininfluente il referendum, ma ha messo in discussione l’eccessivo attivismo politico della CGIL. Queste le sue parole: “Io credo che il sindacato non debba diventare un agitatore politico ma debba restare legato alla sua funzione storica: negoziare, contrattare, difendere i diritti dei lavoratori. Con grandi lotte ma anche con grandi intese […] La politica non è il nostro mestiere, il nostro mestiere è garantire migliori diritti e condizioni per i lavoratori”.
Al segretario della maggiore componente del sindacato di Susanna Camusso, altri potrebbero obiettare che tramite uno strumento politico quale una consultazione referendaria si stia esercitando una legittima pressione sull’esecutivo al fine di ottenere, almeno secondo le convinzioni dei suoi promotori, effettivi miglioramenti nei diritti dei lavoratori.
Come spiegare però l’intensa campagna elettorale condotta dalla CGIL per il No alla riforma costituzionale, oppure la particolare formulazione del quesito relativo all’articolo 18 – sottoposto al vaglio della Consulta insieme a quelli su voucher e appalti – che non chiedeva soltanto l’abrogazione di una norma con il ritorno alle condizioni precedenti al Jobs Act, ma anche una parziale estensione della normativa sui licenziamenti, fornendo così concreti appigli per un rigetto? Non assomiglia tutto ciò ad un comportamento squisitamente politico e strategico?
Voglio però andare oltre alle parole di Pedretti. La CGIL fa politica? Si possono non condividere le posizioni espresse, talvolta, oppure segnalare un grado di mobilitazione e fervore non registrato in altri passaggi cruciali della nostra legislazione sul lavoro. Ma la CGIL resta libera, autonoma e sovrana nel proprio agire pubblico.
A mio modesto avviso, piuttosto il problema sorge altrove: quali fini giustificano la quotidiana presenza nell’agone politico?
Può essere il bersaglio una forma contrattuale che riguarda l’1,3% dei lavoratori italiani, e che peraltro in parte funziona, al punto da riconoscere più o meno apertamente la semplice, per quanto urgente, necessità di modifiche?
Può esserlo di fronte a questioni decisamente più profonde e talvolta addirittura epocali che riguardano il nostro mondo del lavoro?
Alcuni esempi. Il lavoro “fordista” a cui siamo ancora tanto legati è, che piaccia o meno, in esaurimento: come costruire allora nuovi rapporti di lavoro adatti ad un contesto diverso ma non per questo spogliati di dignità e diritti? Che ruolo deve avere l’economia del nostro Paese, in un contesto globale dove certo non possiamo pensare di competere a livello di salari e garanzie? Come conciliare diritti, merito e professionalità in un settore pubblico che non brilla per efficienza? Come rispondere al dilemma che si farà sempre più tragico tra tutela del lavoro e tutela dell’ambiente? Come ci rapporteremo con una tecnologia e con nuovi modelli di consumo che renderanno talvolta inutile l’operato di lavoratori “umani”?
Ma i voucher sono un simbolo, si potrebbe obiettare. Vero, d’altronde la storia recente del nostro sindacato è fatta di totem e tabù, strenuamente (e spesso legittimamente) difesi. Nel frattempo, però, la precarizzazione è avanzata, e molto più delle riforme hanno potuto l’incapacità di politica e sindacati di dare risposte di lungo respiro alle domande di cui sopra.
Ma va bene, accettiamo che i voucher siano uno di quei tabù, un nemico simbolico contro cui battersi non tanto per quello che è ma per quello che rappresenta.
Un tempo, però, i simboli erano molto, ma molto più grandi.
Andrea Zoboli
3 pensieri su “La CGIL (non) vuole abolire i voucher”