Potremmo ricordare il 2016 come l’anno di Trump presidente, della Brexit, degli attentati terroristici di Bruxelles, Berlino, Nizza. Il 2016 come l’anno delle morti illustri, un triste corteo aperto circa un anno fa dalla Black star di David Bowie o come l’anno dei muri contro i migranti e degli assedi nelle città siriane, Aleppo e Madaya su tutte. Eppure, noi della redazione Diritti Umani di The Bottom Up proviamo a gettare il cuore oltre l’ostacolo, a fare uno sforzo che ci porti ad individuare ed illuminare, a modo nostro, chi ha reso il 2016 l’anno del cambiamento, della solidarietà, dei diritti. Ci siamo chiesti, semplicemente, chi è stato il nostro personalissimo eroe dei diritti umani? Chi ci auguriamo di ritrovare, più combattivo che mai, anche nel 2017 a resistere, lottare ed agire concretamente affinché i 30 diritti enunciati della Dichiarazione Universale del 1948 non restino tratti neri su un foglio bianco?
Non è impossibile scoprire e raccontare quelle piccole buone pratiche individuali che, da sole, non possono cambiare il mondo, ma dalle quali si può partire per comprendere che, insieme, un passo si può fare per arginare il dilagare di rabbia, paura e disillusione. Dal Mediterraneo all’Argentina, passando per il Messico, il Kenya e l’Irlanda, partiamo per il nostro viaggio con una dedica e un augurio, una cosa talmente semplice che quasi diamo per scontata: la libertà di ricercare e indagare la verità. Il 25 gennaio 2016 è stato rapito a Il Cairo il ricercatore Giulio Regeni, il 3 febbraio è stato trovato morto con segni di tortura. Nessuno ha pagato per quella barbara uccisione, nessuno ha spiegato cosa è successo e, soprattutto, perché: noi ci auguriamo che il 2017 sia ricco di persone come Giulio e che la verità venga a galla poiché, senza di essa, non esiste giustizia.
Nice Nailantei Leng’ete e la sua lotta contro il “taglio”
Nice era solamente una bambina. Nove anni, poco più, e l’incombenza di un destino che tocca a tutte, nel suo villaggio in Kenya: stava crescendo, presto sarebbe diventata una donna. Il passaggio sarebbe stato segnato da una delle pratiche più violente e aberranti che ancora oggi sopravvivono nella tradizione di molte aree dell’Africa: il “taglio”. Qui, però, la strada di Nice cambia, stravolge la storia già scritta per intraprendere quella della resistenza. Insieme alla sorella maggiore, scappa, si nasconde e, infine, si rivolge al nonno, capo villaggio. Forse mosso dall’amore per la nipotina, fosse colpito dallo slancio coraggioso di una ragazzina, il nonno riesce a risparmiare a Nice il taglio, ma non a sua sorella che viene presto mutilata: “È stato allora che ho capito che non volevo salvare solo me stessa, ma anche tutte le altre bambine”.
Così come la sorella maggiore di Nice Nailantei Leng’ete, ogni anno sono più di 200 milioni di bambine e ragazze che in tutto il mondo hanno subito mutilazioni genitali. 44 milioni di vittime hanno meno di 14 anni e, ogni anno, sono circa 3 milioni le donne a rischio in più di 30 paesi, concentrati soprattutto nell’area dell’Africa sub-sahariana. Le mutilazioni sono figlie di usi e costumi patriarcali che vedono la donna soggiogata e succube, oltre che dall’ignoranza sui reali effetti del “taglio”. Eppure le conseguenze sono gravissime sia dal punto di vista psicologico che fisico: emorragie, shock, cisti, difficoltà nei rapporti sessuali, elevato rischio di morte di parto, ascessi, ostruzioni croniche del tratto urinario e della pelvi, forti dolori nelle mestruazioni e nei rapporti sessuali, maggiore vulnerabilità all’infezione da Hiv, epatite e altre malattie.
Nice Nailantei Leng’ete, oggi venticinquenne, si batte per porre fine a queste cruente violazioni dei diritti delle donne. Come racconta in un’intervista a Radio popolare, “La reticenza fortissima e l’ostilità degli uomini del mio e dei villaggi vicini all’inizio mi spaventavano, ma sono sempre stata determinata a andare avanti nella mia battaglia e ho ottenuto dei primi risultati importanti: hanno iniziato a capire il mio messaggio, il suo valore, tanto che gli anziani, a un certo punto, mi hanno chiesto di essere ufficialmente un’educatrice e allora mi sono sentita investita di un ruolo quasi ufficiale, per cui non mi sono fermata più”.
Se penso ad un modello, penso a Nice, al suo coraggio, al suo spirito ribelle, alla sua sensibilità all’ingiustizia. E penso che dovremmo tutti conoscere la sua storia per unirci alla sua battaglia, ma anche per assorbirne l’entusiasmo e l’energia affinché tutti possiamo batterci per ciò in cui crediamo, sostenendoci e supportandoci a vicenda, creando una rete di solidarietà morale, coltivando insieme i principi, interconnessi, che rendono gli esseri umani tutti uguali.
Gli operatori, i medici, i volontari delle squadre di soccorso nel Mediterraneo
Riflettendo sull’ormai concluso 2016, il mio pensiero va ai medici, agli infermieri e alle squadre di soccorso che si occupano di assistere, in prima emergenziale battuta, i migranti in rotta verso le coste italiane. Penso a loro che salgono sui barconi e offrono un primo indispensabile aiuto, salvando ogni volta in questo modo “almeno” qualche vita. Qualche vita che, data la frequenza degli sbarchi e degli interventi, ormai ha raggiunto il numero di oltre 42.000 persone messe in salvo fin dal 2008. Tra questi, 27.000 sono quelli tratti in salvo solo da gennaio a ottobre dell’anno corrente. Penso a loro che compiono tutte le volte un piccolo miracolo entrando in azione, sfidando il mare in tutte le sue condizioni e andando alla ricerca dell’ennesima imbarcazione carica di persone, sperando che non sia troppo tardi.
Tra loro, tra lo staff di medici e delle squadre di soccorso del CISOM (Corpo Italiano di Soccorso dell’Ordine di Malta), ci sono anche i giovanissimi Giulia Marinig, dottoressa di 26 anni, e Alessio Gallotta, infermiere di 25. Giulia si è lanciata in questa avventura subito dopo la laurea in medicina e, come unica dottoressa a bordo, affiancata dall’altrettanto giovane infermiere, ha prestato soccorso a centinaia e centinaia di persone, intervenendo su situazioni di ogni genere: dalla disidratazione, alle malattie più serie, alle ustioni. Sulle navi, quando scatta l’emergenza, non c’è più tempo di pensare né di riflettere, rimane solo il tempo di agire, e alla svelta, per trarre in salvo quante più persone possibili. Giulia ed Alessio, poi, sono stati artefici e testimoni di qualcosa di straordinario nella straordinarietà: il parto di tre donne di origine eritrea proprio sulla nave Dattilo, tre nuove vite, “figlie” del Mediterraneo.
Quando mi ritrovo a pensare a quanto di buono c’è stato in questo anno trascorso, penso a questo. Penso a chi si mette in gioco, anche d’impulso, senza soffermarsi un minuto di più, lasciando a casa tutti i dubbi e le paure, penso a chi in prima linea contrasta, cerca di fermare o almeno di limitare i danni di questo massacro. Penso a chi non ha perso l’umanità, a chi si è immedesimato ed è sceso in campo, senza nascondersi dietro a politiche, pregiudizi o diffidenze. E penso a questa nuova generazione, che restituisce parecchia speranza: rincuora sapere che qualcuno preferisce ancora i fatti alle parole, senza paura di dimostrarlo. Rincuora sapere che ci sono persone che preferiscono far parlare le azioni, e che mettono in gioco tutto ciò su cui hanno investito per cercare di rendere il mondo un po’ meno ostile nei confronti delle difficoltà della vita.
Le volontarie di Veracruz, dove la solidarietà è ai bordi della ferrovia
Questa non è una storia tratta da un romanzo di Gabriel García Márquez o di qualche altra eccellenza letteraria latinoamericana. Questa è la quotidianità a La Patrona, piccolo villaggio nel Dipartimento di Veracruz, in Messico. Ciò che accade da più di vent’anni, dal 1995 per la precisione, da quando, cioè, Norma Romero Vasquez e sua sorella Bernarda hanno deciso di fondare un collettivo, quasi tutto al femminile, per aiutare le migliaia di migranti centroamericani che passano su treni fatiscenti in cerca di un futuro migliore oltre il confine.
Si muore per niente da queste parti. Non c’è neanche bisogno di salirci su quel treno da tutti conosciuto come La Bestia. Scelgono di farlo in molti, però. Sempre di più. A costo della vita o, nella migliore delle ipotesi, di essere rapinati o sequestrati. Un piccolo zaino con lo stretto necessario e via. Perché, non sai mai quando sarà il momento di correre. I dati della CNDH parlano chiaro: più 20.000 migranti vengono sequestrati, ogni anno, nel tentativo di raggiungere gli Stati Uniti. Non c’è niente, però, che possa “arrestare” la voglia di un futuro migliore. Il contributo umanitario de las Patronas sta anche qui. Nel aver saputo accendere i riflettori sulle violenze e le sevizie che i migranti centroamericani sono costrette a subire
Così, ogni giorno da e più di vent’anni, queste piccole grandi donne si “appostano” ai lati della ferrovia. Ogni giorno, si svegliano e iniziano a cucinare. Tanto che a guardarlo bene, questo piccolo villaggio, sembra un enorme ristorante a cielo aperto. I ritmi quotidiani segnati, ormai, dal passaggio del treno. Uno tra le 11 e le 12 del mattino, l’altro tra le 6 e le 7 di pomeriggio. Cassette in amano e si aspetta.
L’idea di “lanciare” cibo ai migranti, le sorelle Romeo Vazquez, l’hanno avuto di ritorno dal mercato. Passeggiando in prossimità dei binari ferroviari. Nel frastuono provocato dal sferragliamento del treno, hanno udito le grida dei migranti affamati: “Tenemos hambre madre” (abbiamo fame madre), urlavano a perdifiato da sopra al convoglio. Un grido d’aiuto, al quale le due ragazze hanno risposto donando il latte e il riso che aveva appena comprato. Un gesto umile, ma portentoso, capace di innescare una spirale di solidarietà che dura da allora e che, nel 2013, gli è valso il premio della Commissione Nazionale per i Diritti Umani.
Dalla campagna messicana alla notorietà mondiale, il collettivo non si è mai trasformato, ha continuato anzi ad operare senza mai scoraggiarsi. Oggi, grazie all’intraprendenza di Doña Leonica che ha deciso di andare a bussare a qualche porta, le 15 donne della Comunidad de Amaltan de los Reyes sono diventate l’emblema della lotta al razzismo e all’intolleranza. Contro chi, oltre confine, vuole alzare muri.
Le donne, le bambine, le ragazze unite dal grido: “Ni una menos!”
Confesso che, per me, scegliere il mio “eroe” dei diritti umani di questo 2016 non è stato semplice: quando si scrive di diritti si è talmente abituati a raccontare il marcio che c’è nel mondo che spesso ci si dimentica o si smette di prestare attenzione alle cose belle. Dopo qualche momento di riflessione ho deciso che le mie eroine dell’anno sono le donne argentine scese in piazza al grido di “Ni una menos” e, insieme a loro, tutte le donne del mondo che ne hanno seguito l’esempio.
In Argentina ogni 30 ore una donna viene uccisa. In Argentina, nel 2015 sono morte 286 donne.
In Italia ogni 72 ore una donna viene uccisa. In Italia, nel 2015 sono morte 128 donne.
Donne impallinate come animali, strangolate, pugnalate, bruciate, ma non solo.
Donne che subiscono violenze psicologiche, sessuali o economiche.
Due continenti diversi, ma cifre non troppo distanti, emblematiche di una situazione diffusa. Nella maggior parte dei casi – 71 % in Argentina – gli assassini sono familiari o conoscenti. Dei 286 femminicidi commessi nel 2015 in più della metà dei casi l’assassino era il partner. Partner che, in molti casi, commettono un duplice crimine, uccidere la propria compagna e lasciare dei bambini orfani. Nel 2015 322 bambini argentini hanno perso la madre e il 66% erano minorenni.
Il 3 giugno 2015, nella piazza del Congresso, a Buenos Aires e in centinaia di piazze argentine, una moltitudine di donne hanno lasciato il segno dando voce alle vittime della violenza sessista. A un anno e mezzo di distanza quelle donne continuano la loro lotta per un mondo in cui non devono avere paura di essere uccise perché sono donne. In questa lotta quotidiana le donne argentine non sono sole. Il 25 novembre, Giornata internazionale contro la violenza sulle donne, migliaia di bambine, ragazze, madri, nonne, sorelle in tutto il mondo hanno marciato una affianco all’altro per il cambiamento. Si è marciato per dire basta a qualsiasi tipo di violenza e per ribadire che non si tratta di un problema “privato”, ma di una grave crisi morale che si rivela come un problema sociale che deve essere discusso dalla classe politica. I centri antiviolenza e l’incriminazione degli aggressori non sono sufficienti per arginare il problema. Certo punire, migliorare il funzionamento del sistema giudiziario e fornire un sostegno alle vittime è necessario, ma si tratta di misure ex post. Chi restituirà la vita alle vittime? C’è bisogno di un approccio trasversale che oltre a prevedere migliorie sul piano normativo si focalizzi sull’aspetto sociale e lavori sulla formazione di una generazione che rispetti l’essere donna. La miglior difesa è l’educazione.
Organizzazioni di supporto all’aborto
L’unica speranza per chi non vuole essere madre in Irlanda
Nel 2016 abbiamo assistito a grandi tragedie in termini di diritti umani, ma abbiamo fatto anche qualche festa. Abbiamo festeggiato la legge sulle unioni civili in Italia e i passi avanti della Norvegia sui diritti delle persone transgender. La cattolica Irlanda ha legalizzato i matrimoni gay. Ma le donne irlandesi ancora non possono abortire.
La legge irlandese sull’aborto è tra le più rigide in Europa. Fino al 2012 era vietato in ogni caso, oggi è permesso solo se la madre è in pericolo di vita. Abortire è illegale anche in caso di stupro, incesto e malformazioni fetali. La pena è 14 anni di carcere. Non è però illegale recarsi all’estero per avere un’interruzione di gravidanza. Centinaia di irlandesi all’anno vanno in cliniche estere ad abortire, molte altre comprano pillole abortive on line ma non senza rischi, perché anche questo è un crimine.
Viaggiare per abortire è laborioso e stressante. Molte donne lo fanno di nascosto, perché temono la stigmatizzazione. Ma viaggiare per abortire è soprattutto costoso. Le donne delle classi più alte possono permettersi buone cliniche e qualche giorno in albergo per riprendersi dall’intervento. Le donne più povere fanno il viaggio in giornata, rischiando un’emorragia sull’aereo. Risparmiano sul cibo per comprare il biglietto. Oppure ricorrono a mezzi casalinghi come bere candeggina o procurarsi incidenti in macchina.
Le irlandesi che non vogliono portare a termine una gravidanza sono lasciate sole dal loro governo ed escluse dal loro sistema sanitario. Ma per fortuna non sono del tutto sole: ci sono organizzazioni che combattono al loro fianco. Alcune, come Coalition to Repeal the Eight Amendment, fanno campagne affinché il Parlamento cambi la legge. Altre, come Abortion Support Network, forniscono informazioni e supporto economico a chi vuole andare ad abortire in Inghilterra.
Attraverso internet e il telefono, la fondatrice Mara Clarke e i suoi volontari aiutano donne sole e disperate a trovare voli a prezzi stracciati e una clinica valida. Informano e cercano di dissipare la nebbia di disinformazione sparsa dalle organizzazioni anti-abortiste che affermano che l’aborto aumenti il rischio di cancro al seno. Quando la donna non ha possibilità di pagare, l’associazione cerca i fondi per pagare per lei. “Il fatto che qualcuno non possa permettersi un aborto, non dovrebbe mai essere l’unica ragione per cui questa persona diventa genitore” dice Mara Clarke. Oltre a fornire sostegno economico, Abortion Support Network ha formato una rete di famiglie che ospita le donne che non possono permettersi un albergo. Insieme a un letto pulito in cui riposare dopo l’intervento, queste persone offrono alle donne irlandesi una tazza di the e un po’ di conforto.
Se penso a cosa ci ha portato di buono il 2016, tra il polverone degli edifici che crollano ad Aleppo e le grida di Trump, non mi viene in mente nulla di meglio di questi volontari che si sono presi il compito di sostituire lo stato, le famiglie e la coscienza di un paese intero. E il desiderio che esprimo per il 2017 è che loro, come tutti i veri difensori dei diritti umani, non siano più necessari negli anni a venire.
Angela Caporale, Elena Baro, Mattia Bagnato, Sabrina Mansutti, Angela Tognolini
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