Era la fine di maggio 2016 quando, dalla palude delle primarie repubblicane, emergeva come chiaro vincitore un candidato con nessuna esperienza politica, un facoltoso imprenditore proveniente da una delle più abbienti famiglie di New York: Donald J. Trump.
Nello scenario sociale americano si è assistito ad un inesorabile impoverimento della classe media in controtendenza alla progressiva e constante ripresa economica.
La richiesta di cambiamento sembrava favorire il Partito repubblicano che per otto anni era rimasto escluso dai vertici del governo, così ben sedici candidati si presentarono sul palco del primo dibattito, sedici aspiranti presidenti che non potevano immaginare quanto quell’elezione sarebbe stata diversa da ogni altra precedente.
Fomentata da un crescente sentimento di odio nei riguardi dell’amministrazione Obama, la base repubblicana ricercava leader più estremi che prima ancora di politiche economiche efficaci proponessero politiche sociali che tornassero a favorire la middle class storica: la middle class bianca.
Con una maggioranza relativa sempre più violenta Trump ha conquistato un numero sufficiente di delegati per vincere le primarie e battere il suo principale sfidante: Ted Cruz. Il suo segreto? Affossare la campagna dell’avversario diffondendo false teorie sulla sua infedeltà coniugale, affibbiandogli soprannomi dispregiativi e accusando il padre di essere uno dei cospiratori dell’assassinio di Kennedy.
La campagna Frankenstein
La campagna elettorale in America funziona quasi come un’identità autonoma che lavora e si organizza sul territorio perseguendo il fine ultimo di raccogliere consenso per il suo candidato.
Nel corso degli ultimi settant’anni gli americani hanno eletto 5 diversi presidenti dei 9 candidati proposti dal partito repubblicano. Di questi presidenti tre in particolare hanno segnato la storia del partito: Dwight Eisenhower, Richard Nixon e Ronald Reagan.
Donald Trump ha sezionato le loro campagne elettorali ricucendone i pezzi per dar vita alla sua.
Make America Great Again
Questo è stato lo slogan scelto da Trump per la sua campagna elettorale.
Tante cose si possono dire su Donald Trump, ma non che non sia capace di creare e imporre un brand. Eppure la frase chiave della sua intera corsa presidenziale ha scelto di rubarla interamente a Ronald Reagan, forse sperando di rievocarne così il ricordo.
Gli analisti hanno da subito fatto notare la lieve differenza tra i due slogan: la mancanza del “Let’s”; un termine che in inglese ispira propositività e spirito di squadra, tutte cose nelle quali la campagna di Tycoon si distanziava da quella di Reagan.
Trump non si “permette di proporre un’alternativa” come aveva fatto Reagan alla fine dell’ultimo dibattito nel 1980 Trump vende un cambiamento di brand piuttosto che di direzione: votando Trump si può riportare automaticamente l’America alla sua grandezza; ma quando l’America è stata grande davvero? E a quale epoca bisogna riportarla?
Law & Order
Forse la risposta a questa domanda possiamo trovarla nella teoria tanto amata da Trump del Law & Order una delle tematiche chiave della politica interna di Nixon. Forse è quello il periodo in cui l’America è stata grande e unita; in piena guerra fredda, con il Vietnam sotto assedio e i giovani in piazza a protestare.
Nixon fu un presidente risoluto, ma la sua amministrazione fu piena di tanti, troppi errori. Non è questo, però, che interessa a Trump. Non è veramente l’amministrazione Nixon a cui si riferisce quando rievoca la legge e l’ordine quando i suoi supporters agitano i cartelli con la scritta “la maggioranza silenziosa è con Trump”.
Trump si riferisce alla sola figura di Nixon, all’immagine dell’uomo che pur non piacendo alla gente era l’uomo giusto per guidare il paese.
Il concetto di maggioranza silenziosa introdotta da Nixon per legittimare le decisioni della sua presidenza è stata ripresa e modificata da Trump che ha esteso questo concetto ai suoi supporters i quali non costituiscono una maggioranza reale confermata.
Questa deformazione tende volutamente a legittimare un gruppo di persone creando uno stato di maggior confidenza ed entusiasmo, ma finendo anche con l’illuderle di avere un peso politico effettivo di cui non dispongono.
E se poi non dovessero vincere? Oppure se le informazioni dei giornali non confermassero le loro idee? La risposta sembra essere semplice: basta prendere come bersaglio i media.
Ed ecco che la campagna elettorale di Trump torna ad avere una parvenza di originalità , peccato però che anche l’attacco sistematico ai media, accusati di essere corrotti e di sostenere una determinata parte, sia un elemento già visto.
Non è lampante in Nixon come in un altro candidato che corse nella campagna presidenziale del 1968. Il candidato in questione è George Wallace, democratico segregazionista che nel 1968 corse e perse come candidato indipendente. Wallace, governatore dell’Alabama,affiancava ad un razzismo quasi colto delle strategie populiste efficaci che diversi politici in futuro avrebbero adottato.
A lui dobbiamo concetti come il “Big Government” ovvero l’impatto nefasto di un ruolo governativo troppo ampio, concetto supportato oggi dalla quasi totalità dei repubblicani.
In una delle sue interviste televisive Wallace colse l’occasione per difendersi dalle accuse di violenza razziale mossegli da alcuni giornali cominciando la sua intervista mostrando ritagli di giornali contenenti fotografie che raffiguravano la repressione di alcuni scontri nello stato di New York e della Pennsylvania. Dopo averle sbandierate a dovere le commentò dicendo che le violenze commesse in Alabama non erano dissimili dalle violenze perpetrate in altri stati. Invero le violenze accadute nel suo stato avevano una marcata connotazione razziale ed avvenivano con maggiore frequenza. Tuttavia grazie a questo stratagemma, Wallace era riuscito a creare una falsa equivalenza che poteva strumentalizzare per smontare le critiche sulla sua amministrazione confondendo l’opinione pubblica.
La medesima strategia è stata adottata da Trump per sviare le accuse di molestie sessuali pubblicate dal New York Times all’indomani dell’audio nel quale Trump vantava strategie di assalto sessuale nel backstage di un programma televisivo. Trump ha da subito cercato di sviare l’attenzione riportando alla luce i passati scandali dell’amministrazione Clinton organizzando nuove interviste dove diverse donne raccontavano di aver subito molestie dall’ex presidente Bill. Seppure i fatti risalivano a svariati anni prima e la loro natura fosse completamente differente, Trump era riuscito a dare all’opinione pubblica una nuova falsa equivalenza che ristabiliva la confusione necessaria a sgonfiare le accuse.
È importante sempre precisare che non si sta cercando un collegamento diretto tra eventi passati e correnti, ma che talvolta questo collegamento si riconosce in eventi indipendenti come la violenza dei comizi di Trump che oggi è dovuta a una forma di razzismo senz’altro diversa dal pensiero segregazionista del ‘68 ma che resta inequivocabilmente violenza.
Trump non è certo il nuovo George Wallace, certo vi sono diverse analogie tra le figure dei due politici, ma vi sono anche differenze fondamentali ad esempio l’ideologia estremista e il rispetto delle istituzioni, ecco, Trump non ha nessuna di queste due caratteristiche.
Quando Trump in televisione si diceva favorevole allo sviluppo delle armi nucleari per paesi come l’Arabia Saudita, le sue dichiarazioni non facevano veramente scalpore poiché non supportate da una qualsivoglia base ideologica. Certo la situazione sarebbe stata diversa se ci fossimo trovati nel 1964 quando Barry Goldwater, candidato repubblicano, paventava l’uso della bomba nucleare in politica estera e finì con l’essere pesantemente sconfitto dal democratico Lindon B. Johnson.
Se sicuramente possiamo affermare che Trump sappia meno di qualunque altro candidato di politica estera, dobbiamo però riconoscere la sua capacità di sintetizzare la confusione e il malumore della classe media a riguardo di argomentazioni così complicate.
Quello di Trump è fondamentalmente un non-messaggio che lui è capace di veicolare magistralmente connettendosi alle emozioni della gente comune.
Se dovessimo svuotare la campagna di Trump di tutte le teorie complottiste, degli slogan e delle false informazioni potremmo osservare due macro elementi: la metodologia comunicativa diretta e la continua aspirazione al ritorno ad una situazione di grandezza e felicità. Il ritorno alla dolce patria degli anni ‘50, l’età dell’oro della middle classe americana bianca, l’età dell’infanzia di Trump, l’epoca del presidente Eisenhower.
Se nel 1960 durante l’ultimo anno della sua amministrazione qualcuno avesse detto al presidente Eisenhower che dopo meno di sessant’anni il suo partito avrebbe candidato un uomo senza alcuna esperienza in campo militare, un uomo che sostenesse la Russia e la sua leadership non credo avrebbe mai potuto crederci. Il fatto è che forse conoscendolo un po’ anche lui avrebbe facilmente capito che Trump non vuole cambiare il mondo, o l’America, Trump vuole solo cambiarne l’immagine; ergersi a capo del mondo libero, lui, che è fondamentalmente tutto ciò che i suoi elettori odiano e contro cui si scagliano.
Trump è pero riuscito a costruirsi e a vendere agli Americani l’immagine dell’outsider, l’escluso, l’ultimo difensore di coloro che si sentono oppressi e sono così frustrati e superficiali da lasciarsi ingannare da un simbolo di cambiamento che nasconde solo nostalgia di tempi migliori, un passato ideale nel quale rifugiarsi per fuggire, per nascondersi dal mondo e dai suoi problemi. Trump è l’emblema di quel sogno americano ormai scomparso e che probabilmente è esistito per pochi.
Testo di Giovanni Nardone
Illustrazioni di Stefano Grassi
Un pensiero su “Trumpenstein, un mostro repubblicano”