Come ormai saprete, sono un nerd del prog rock. Ebbene, tale genere musicale, esploso in Europa alla fine degli anni ’60, ha una sua santissima trinità composta da tre gruppi, tutti inglesi: i Genesis, i King Crimson e gli Yes.
Gli Yes li avrete forse sentiti in radio grazie alla loro hit “Owner of a Lonely Heart” del 1983, e hanno fatto tre dischi-capolavoro (The Yes Album, Fragile e Close to the Edge, gli ultimi due con la loro miglior line-up di sempre: Jon Anderson, Bill Bruford, Steve Howe, Chris Squire e Rick Wakeman), seguiti da cose molto di maniera, per poi sbracare completamente nel pop, e diventando, specie negli anni zero, una sorta di cover band di loro stessi.
Se tanto mi da tanto, a meno che non siate come me dei nerd del prog rock (o abbiate letto il mio articolo), i King Crimson non avete idea di chi siano, e infatti dei tre sono gli unici rimasti sempre fedeli al verbo progressivo, grazie alla loro illuminata guida, Sua Maestà eccellentissima Robert Fripp, chitarrista e principale compositore.
I Genesis, però, li conoscete tutti.
Dopo un primo (breve) periodo, durato due dischi (uno, d’esordio, orrendo, e uno gemma non ancora matura di folk prog), di maturazione, la band ha sfornato quattro album considerati capisaldi del prog: Nursery Cryme, Foxtrot (seguito da Genesis Live), Selling England by the Pound e The Lamb Lies Down on Broadway. La formazione di questi album vedeva i fondatori Tony Banks (tastiere), Peter Gabriel (voce) e Mike Rutherford (basso, bass pedals e chitarra ritmica) più i nuovi arrivi, Steve Hackett (chitarra solista) e Phil Collins (batteria e voce): alla fine ci siamo arrivati, a Phil Collins.
Phil Collins, batterista di formazione soul e jazz, si era ritrovato in una band di gente di classe più elevata della sua, senza peraltro riuscire, per un lungo periodo, a farne realmente parte, venendo sempre trattato come un fratello minore (va detto che veniva comunque trattato meglio del povero Hackett). Nel 1976, però, il carismatico ed eccentrico frontman Peter Gabriel lascia la band, e dopo un travagliato percorso di audizioni per un nuovo cantante, Phil si rassegna ad accollarsi una responsabilità che sembrava però quasi naturale affidare a lui: da sempre si occupava dei cori, e, durante il tour per promuovere The Lamb Lies Down on Broadway, si ritrovava spesso a dover cantare le parti di un Peter Gabriel intrappolato nei suoi complessi costumi di scena.
I Genesis quindi vanno avanti, fanno due album serenamente all’altezza dei classici (A Trick of the Tail, il mio preferito in assoluto della band, e Wind & Wuthering), un disco di transizione dopo l’abbandono di Steve Hackett, stufo del bullismo a cui veniva sottoposto sempre più (…And Then There Were Three), con il loro primo singolo di turbo-successo, ovvero “Follow You, Follow Me”, con musica scritta dal trio rimasto, ovvero Banks, Collins e Rutherford, e testo di quest’ultimo; seguirà il loro ultimo disco prog, ovvero Duke, con uno dei loro più grandi successi, “Turn It On Again”, che lascerà poi spazio a Abacab, Genesis, Invisible Touch (il loro più grande successo in assoluto – e il primo disco dei Genesis da me ascoltato e adorato, in audiocassetta) e We Can’t Dance, a cui seguirà l’abbandono di Phil. La carriera in studio della band si chiude con il tristissimo Calling All Stations, con il povero Ray Wilson alla voce e due batteristi sostitutivi.
In tutto questo, Phil ha messo la sua amata batteria sempre più in secondo piano rispetto alla voce, facendosi sostituire, dal vivo, per un breve periodo dal collega Bruford (degli Yes, ricordate? Anche se poi suonò anche nei King Crimson), e poi, fino al 1993 e alla sua uscita dalla band, da Chester Thompson, ex batterista di Frank Zappa.
Anche la voce, purtroppo, è andata sempre più scemando, e sia nel dvd Finally… the First Farewell Tour del 2004 che nel tour di reunion con i Genesis nel 2007 sembrava la voce di uno con una brutta rinite cronica, dunque non è stata una gran sorpresa sentirlo da Jimmy Fallon qualche giorno fa – non peggiorato ma di certo non migliorato – suonare alcuni suoi classiconi tra cui il suo primo successo da solista nonché brano di apertura del suo primo disco solista Face Value: “In the Air Tonight” (che conoscono anche i sassi).
Già, la carriera solista!
Phil Collins è molto conosciuto un po’ come la versione prog di Yoko Ono (e si è visto addirittura affibbiare, il nomignolo di “nano pelato”, che in molti associano a qualcun’altro), quello che ha rovinato per sempre i Genesis. Di certo, passare da cose come “Firth of Fifth” (su Selling England) o “Los Endos” (su Trick) a cose come “Invisible Touch” fa un certo effetto, ma tutti i cambiamenti nella band sono sempre stati decisi collettivamente (o quasi – povero Steve), dunque biasimare il solo Phil è quantomeno scorretto.
Un ruolo, però, lo ha giocato la sua carriera solista, cominciata col botto non solo economico ma anche qualitativo: Face Value, pubblicato nel 1981 e registrato tra Duke e Abacab, è un ottimo disco di jazz pop con venature funk che dimostra un eclettismo notevole da parte del nostro, tra pezzoni da classifica, roba che sembra uscita direttamente dalla Motown (“I Missed Again”), lentoni strappamutande (“If Leaving Me Is Easy”, con Eric Clapton alla chitarra) e persino curiose cover dei Beatles (“Tomorrow Never Knows”). I buoni propositi si ripetono con il successivo Hello, I Must Be Going!, che vira più sul sound Motown, ma il botto vero Phil lo fa con No Jacket Required, del 1985, a cui seguono la sua esibizione al Live Aid da solo, come batterista di Eric Clapton (col quale era andato in tour l’anno precedente dopo aver suonato sul suo August) e come batterista dei Led Zeppelin (anche se di questa disastrosa performance non va molto fiero – ma anche qui non è stata solo colpa sua). Su No Jacket ci sono alcuni dei singoli più grossi di Phil: “Sussudio”, “One More Night” “Don’t Lose My Number” e “Take Me Home”. Seguiranno diversi altri dischi, con qualità calante, fino al grande boh che è il suo ultimo disco in studio per ora, Going Back, che comprende solo cover della Motown con parti strumentali identiche agli originali e parti vocali con la famosa rinite.
Il tema di Phil è uno solo, con qualche rara eccezione: la storia d’amore andata a catafascio. Praticamente tutti i suoi dischi contengono solo canzoni che parlano di questo. Il che probabilmente è la ragione per cui tutti lo odiano così tanto. Ma è davvero così ingiusto odiare Phil Collins?
Probabilmente sì.
Non fraintendetemi, Phil ha fatto della musica pop che non è scusabile (praticamente tutti i suoi dischi dopo …But Seriously), ma è davvero la brutta persona che in molti pensano lui sia? Phil stesso cerca di togliersi di dosso quest’immagine nella sua autobiografia Not Dead Yet, uscita il 31 ottobre anche in Italia (tradotta con un efficace ma un po’ buffo No, Non Sono Ancora Morto), in cui si concentra molto di più sulla sua vita privata che su quella pubblica, proprio per dimostrare che in fondo in fondo è uno che più che stronzo è stato un po’ sfigato, come quella volta che venne nominato agli Oscar con “Against All Odds (Take a Look at Me Now)”, uno dei suoi pezzi pop più smielati – e riusciti, ma non gliela lasciarono suonare, accampando la scusa che non era “uno del cinema” (salvo poi lasciar suonare Stevie Wonder, che poi quell’Oscar lo vinse, con “I Just Called to Say I Love You”, e Phil si risentì un po’). La canzone la cantò una perfetta sconosciuta che la distrusse sotto gli occhi del povero Phil. Per la cronaca, come tutti voi saprete, l’Oscar alla fine Phil lo vinse nel 1999 con “You’ll Be in My Heart” dalla colonna sonora (pilastro della mia infanzia) del Tarzan della Disney: ebbe la sfortuna di essere in lizza assieme a “Blame Canada” dal film di South Park, e quindi Phil si prese un sacco di insulti da Trey Parker e Matt Stone.

Io non sono di certo obiettivo – come non lo è Luca Sofri, che in questo bell’articolo che ha ispirato quello che state finendo di leggere racconta qualcosa di più sull’autobiografia di Phil, e che, nel suo libro Playlist, ovvero quella che è stata la scintilla per il mio desiderio di scrivere di musica, racconta diversi aneddoti interessanti sui Genesis e su Phil – ma non posso fare a meno di chiedermi:
che sia venuta l’ora, dopo anni di largamente ingiustificato astio, di voler di nuovo bene a Phil Collins?
Guglielmo De Monte
@BufoHypnoticus
Un pensiero su “Phil Collins ti voglio bene! – Storia di un omino normale”