Benoit Bringer è un giovane giornalista francese che, all’interno del Consorzio Internazionale dei Giornalisti Investigativi (ICIJ), ha lavorato sui famosi Panama Papers. Come in molti sanno, si tratta di un’enorme mole di documenti che mostrano nel dettaglio come personaggi facoltosi di tutte le nazionalità abbiano evaso il fisco tramite la creazione di aziende fittizie, dette “off-shore”, in paesi del centroamerica. Proprio su questo scandalo Benoit ha incentrato il suo documentario Paradis fiscaux: la casse du siecle, premiato al Terra di Tutti Film Festival di Bologna, che potete trovare qui in lingua originale. Lo abbiamo intervistato per parlare della sua esperienza nell’inchiesta Panama Papers e dell’importanza del giornalismo d’inchiesta.
Benoit, potresti descriverci come è stata a livello professionale la tua esperienza all’interno del team di giornalisti che è stato coinvolto nell’inchiesta sui Panama Papers?
È stato incredibile specialmente perché è stato un lavoro di squadra. Molti giornalisti, provenienti da diversi paesi del mondo, erano impegnati in questa inchiesta. Nel nostro lavoro normalmente non siamo abituati a condividere le informazioni e ciò che scopriamo. Ma l’inchiesta sui Panama Papers era qualcosa di completamente diverso. Abbiamo scambiato informazioni e lavorato spalla a spalla per analizzare tutti i dati. In questo senso è stata un’esperienza estremamente interessante. Senza questo lavoro di squadra non saremmo mai stati capaci di riuscire a portare a termine il nostro compito e far emergere questo scandalo. Solo un gruppo di giornalisti molto competenti e motivati poteva riuscire a raccogliere tutte queste informazioni e tradurle in rivelazioni così scottanti. Perché la mole di dati era appunto pazzesca. Sto parlando di milioni e milioni di documenti.
Quale elemento dello scandalo è più sconvolgente secondo te?
La segretezza di questi meccanismi di evasione fiscale, direi. Per la prima volta con questi documenti siamo riusciti a guardare dall’interno l’universo delle attività off-shore, che è davvero molto segreto. La segretezza è la priorità non solo per i chi intende aprire una società falsa, ma anche per gli avvocati e le banche che lo aiutano a farlo. Con questi documenti abbiamo potuto avere uno sguardo di insieme su questo problema. Siamo riusciti a capire effettivamente come funziona il sistema delle società off-shore.
Fatta eccezione per le dimissioni dell’ex primo ministro islandese, Sigmundur Davíð Gunnlaugsson, i Panama Papers apparentemente non hanno avuto grandi ripercussioni dal punto di vista politico e della lotta all’evasione fiscale. Ti aspettavi che queste rivelazioni così straordinarie avessero un impatto più dirompente?

Non sono completamente d’accordo con te. Le dimissioni del primo ministro islandese non sono state l’unica conseguenza dei Panama Papers: molte autorità nazionali in materia fiscale hanno infatti intrapreso delle indagini sui soggetti coinvolti. L’Unione Europea ha anche istituito una commissione speciale. A livello ancora più globale, il G20 ha promesso misure per combattere il problema dell’anonimato per i beneficiari delle società off-shore. In Francia molte persone che possedevano società off-shore hanno deciso di riportare in patria i loro soldi, nonostante ci fosse una penale. È un processo lento comunque. Ma è solo quando ci sono questi scandali che i politici fanno qualcosa. Senza queste inchieste giornalistiche non ci sarebbero miglioramenti. Questo è deprimente. Perché i politici devono aspettare che scandali di questo tipo vengano alla luce per fare qualcosa? Prima dei Panama Papers ci sono stati i “swissleaks” e i “luxleaks”. Solo quando c’è questo tipo di pressione da parte dell’opinione pubblica le cose cominciano a cambiare.
Come si può già evincere dalla tua attività e dalle tue precedenti risposte, sei un forte sostenitore dell’importanza del giornalismo d’inchiesta. Perché pensi sia così importante?
È molto importante perché se vuoi che la democrazia funzioni ci vuole un bilanciamento tra i poteri. Accanto a quello legislativo e quello esecutivo ci deve essere un’informazione libera e indipendente. Perché alcune persone potenti non vogliono che la gente sappia certe cose. Ma il giornalismo, e non solo quello d’inchiesta, deve vigilare per portare alla luce tutte quelle verità nascoste che possono alimentare un dibattito pubblico. Insomma secondo me una stampa libera è un elemento essenziale per la democrazia.
Secondo te, oggi il giornalismo d’inchiesta, come strumento per portare alla luce verità nascoste, è ancora più rilevante di quanto lo fosse nel passato?
Non penso. Abbiamo visto in passato, per esempio con lo scandalo Watergate, che il lavoro dei giornalisti può avere un impatto enorme sulla società. Il giornalismo d’inchiesta non è una novità. Il giornalismo d’inchiesta è giornalismo e basta. Si tratta semplicemente di raccogliere prove, poi raccoglierne di nuove e alla fine rivelare fatti di pubblico interesse. Esisteva nel passato e continuerà ad esistere nel futuro. Ma l’idea di mettere in collaborazione giornalisti provenienti da tutto il mondo, come è successo nell’inchiesta sui Panama Papers, è qualcosa di davvero innovativo e secondo me può aprire nuove porte per il futuro.
Nel giornalismo d’inchiesta quanto è cruciale proteggere le privacy e la sicurezza delle fonti?
Le fonti sono essenziali per i giornalisti. Senza fonti non c’è informazione. Quindi è molto importante proteggerle. Ma sono i governi e le autorità che dovrebbero creare il quadro legislativo per proteggere le fonti e i cosiddetti “whistleblower”. È una responsabilità che hanno nei confronti dell’opinione pubblica. Il nostro lavoro è semplicemente mantenere i contatti con queste figure che, va ricordato, corrono rischi enormi. Per esempio per lo scandalo “Luxleaks”, che riguardava sempre l’evasione fiscale, due whistleblower sono stati condannati da una corte semplicemente per avere detto la verità. È inaccettabile che questo tipo di cose capitino in Europa. Ed è altrettanto inaccettabile che l’Unione Europea non prenda provvedimenti.
Pensi che ci siano delle particolari circostanze in cui alcune notizie non vadano pubblicate e nelle quali il diritto all’informazione dei cittadini passi in secondo piano?
L’unica domanda da porsi per decidere cosa deve e cosa non deve essere rivelato è: “la questione è di pubblico interesse?”. Se una notizia è rilevante per il dibattito pubblico e, quindi, per la salute della democrazia, dovrebbe essere pubblicata. In caso contrario e qualora la privacy di alcune persone sia in ballo, come per esempio nel gossip, non c’è bisogno di rendere pubblica la notizia. A volte un’informazione di grande rilievo può mettere in pericolo la vita di alcune persone. In queste situazioni è meglio fermarsi un attimo e dire ‘aspettiamo, possiamo pubblicarla successivamente e non mettere a rischio l’incolumità di nessuno’. Ma alla fine, quando questo pericolo viene meno, bisogna pubblicare l’informazione.
Per chiudere una domanda più concettuale. Sembra che il giornalismo di qualità cerchi sempre di più di grattare la superficie della realtà alla ricerca della “verità” nascosta dietro le narrative del potere. Vedi per esempio la crescita esponenziale del fact-checking in politica. Secondo te qual è in termini giornalistici il significato di “verità” nel 21esimo secolo?
Le notizie si devono basare sui fatti. La verità sta esattamente nei fatti nel giornalismo. Come è sempre stato e sempre sarà.
Valerio Vignoli
Un pensiero su “I Panama Papers e il giornalismo d’inchiesta – intervista a Benoit Bringer”