Immaginate per un attimo la classica cartolina dell’Alto-Adige/Südtirol: gerani prosperosi che tracimano dalle fioriere, slanciate torri dolomitiche, prati pettinati e mucche infiocchettate, speck profumati e laghetti di montagna incastonati nel verde-più-verde-che-c’è. Ecco, ora inserite in questo idillio un corpo estraneo, un personaggio venuto da fuori (dagli Stati Uniti, per l’esattezza) e fermatosi qui solo in virtù di una parentela. Fategli fare il suo lavoro, cioè girare un documentario sul soccorso alpino alto-atesino; fate succedere un terribile incidente sul ghiacciaio dell’Ortles durante un’operazione di soccorso; fate morire tutti gli altri, ma lasciate lui vivo, e costringetelo a una permanenza forzata al paese per potersi riprendere dalla tragedia. Avete ottenuto un potenziale mix esplosivo, che già di per sé basterebbe a sostenere un bel romanzo sulle periferie esterofile del nord Italia.
La diffidenza verso lo straniero, per di più se percepito come responsabile di una tragedia (“sindrome del sopravvissuto”, mi dicono si chiami), è appena mitigata dal suo essere il genero di un personaggio rispettato da tutta la comunità: Werner Mair, il fondatore del Soccorso Alpino Dolomiti. Ciò nonostante, il nostro protagonista viene irrimediabilmente percepito come un estraneo, facendoci sentire sulla pelle quanto forte possa essere l’identità e la coesione di un piccolo paesino inesistente, Siebenhoch, adagiato ai piedi del Corno Bianco e a due passi dalla terribile gola del Bletterbach (questa sì esistente, come ho scoperto con una certa sorpresa). Come se non bastasse, dopo l’incidente il nostro – quasi per caso – scopre che nel canyon del Bletterbach nel 1985 è avvenuto un vero e proprio massacro, una mattanza in cui sono stati fatti letteralmente a pezzi tre giovani della zona, che avevano deciso di fare un’escursione, incuranti del maltempo previsto che sarebbe sfociato in una terribile tempesta. Il colpevole non è mai stato scoperto.

Inizia quindi un lungo percorso di indagine che porta il protagonista a scontrarsi con una sorta di omertà, o di solidarietà di branco: nessuno sembra minimamente propenso ad aiutarlo, da un lato per una forma di reticenza (il solito “meglio dimenticare”), dall’altro per la paura dello sciacallaggio mediatico che il regista di documentari potrebbe provocare se venisse a conoscenza di tutta la storia. L’intero villaggio sembra essere, sotto l’impeccabile apparenza linda e serena, pieno di segreti, lotte, odi inconfessati, una Twin Peaks italiana, o quasi.
Su tutto aleggia la terribile fama del Bletterbach, la gola maledetta, il canyon che sprofonda fino a toccare gli strati di terreno formatisi nel permiano, trecento milioni di anni fa. Nel Bletterbach da tempo immemore si amministra la “legge dei padri”: nei secoli dell’inquisizione le streghe vengono portate lì, e lasciate a morire, così come gli assassini, i ladri, i traditori. La miniera che vi sorge crolla rovinosamente negli anni venti, contribuendo ad aumentare la fama sinistra del luogo. Il Bletterbach, con il suo inoltrarsi verso il profondo e verso il passato, diventa per il protagonista una sorta di ossessione pericolosamente vicina alla follia: a nulla valgono i tentativi di Werner di dissuaderlo dal continuare le indagini, il richiamo del “male” sembra più forte di lui.
In una sequenza sempre più serrata di colpi di scena il romanzo procede velocissimo, non sacrificando per questo una certa vena lirica e profondamente introspettiva, in contrasto con una certa produzione di thriller che privilegia unicamente l’azione, dimenticandosi spesso della contemplazione. Uno splendido e perfettamente cesellato giallo tendente al noir, pressoché perfetto per una fresca domenica autunnale.
[La sostanza del male è un libro di Luca D’Andrea, pubblicato da Einaudi nella collana “Stile libero“]