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Perché a Rio gareggia il Team Refugees?

Yusra Mardini ha tutto per conquistare l’affetto e il supporto del pubblico delle Olimpiadi di Rio. Giovanissima, una storia potentissima, telegenica. E’ stata la portabandiera della squadra alla cerimonia di apertura, quando il Maracana intero ha riservato ai dieci atleti del Team Refugees una standing ovation da brividi. Ha pure vinto la sua batteria nei 100 metri farfalla. Yusra rappresenta la faccia pulita della crisi dei rifugiati, quella cui possiamo sorridere dimenticando ritrosie e paure – del resto, che male potrebbe mai fare una ragazza come lei?

Come rifletteva Gino Strada in Pappagalli Verdi, le immagini non sono mai reali, non si mostra mai una fotografia, ma proprio quella fotografia, quella che si può fare vedere, che non spingerà il pubblico a voltarsi dall’altra parte, che non scuoterà nel profondo lo sguardo di chi osserva da lontano. “Alla fine il più delle volte si fa vedere quel che si può far vedere, e forse è anche giusto così, perché immagini troppo violente possono davvero disturbare, creando emozioni o reazioni istintive, e infine compromettere la possibilità di capire.” Così è stato anche per la squadra rifugiati: scegliere di rappresentare un gruppo di persone così vasto e vittima di stereotipi (stranieri / poveri / diversi / terroristi) in un contesto di competizione sana apre una breccia attraverso la quale, forse, è possibile finalmente raccontare una storia diversa.

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Foto di gruppo per il #TeamRefugees

Il Team Refugees è stato capace di conquistare il supporto di celebrità da Malala, P!ink, Papa Francesco all’immancabile Justin Trudeau e a conquistare l’attenzione della gente comune, anche grazie a Yusr. Tuttavia la sua è soltanto una delle dieci storie (visto il messaggio della squadra è sì corretto parlare di atleti, ma sono le storie ad assumere rilevanza) selezionate dal CIO per partecipare ai Giochi olimpici di Rio. Facciamo un passo indietro: era marzo quando Thomas Bach, il presidente del Comitato Olimpico Internazionale, ha annunciato che, per la prima volta nella storia, avrebbe partecipato ai Giochi una squadra interamente composta da rifugiati. Forte dello spirito di pace e cooperazione che caratterizza le Olimpiadi moderne sin dalla loro istituzione, il Cio ha selezionato una rosa di 43 atleti candidati a diventare parte del team. In 10 da Sud Sudan, Siria, Etiopia e Repubblica Democratica del Congo sono stati scelti per gareggiare in varie discipline: nuoto, atletica e judo. In 10 rappresentano una popolazione mondiale di 19 milioni di persone, sparsi in tutti gli angoli del pianeta. In 10, grazie alle loro capacità atletiche e alle loro storie, porteranno sul palcoscenico sportivo più importante di tutti un problema che non possiamo più ignorare.

Nel 2012, al tempo delle Olimpiadi di Londra, i rifugiati e richiedenti asilo nel mondo erano 11 milioni. In soli quattro anni il numero è cresciuto notevolmente per due ragioni: da un lato, alcune crisi si sono inasprite come quella siriana, dall’altro sono sempre di più i rifugiati che non possono tornare a casa, nemmeno dopo anni e anni trascorsi nei campi. James Nyang Chiengjiek, Rose Nathike Lokonyen, Paulo Lokoro, Anjelina Lohalith, Yiech Biel, Yonas Kinde, Popole Misenga, Yolande Mabika, Rami Anis e Yusra Mardini rappresentano le differenti facce della medaglia (che in questo caso è tutto tranne che d’oro o di altri metalli preziosi), rappresentano chi ha dovuto abbandonare lo sport e la propria casa per cercare rifugio in Europa, chi ha subìto abusi di ogni tipo proprio per “migliorare” le proprie prestazioni agonistiche e per questo è scappato, chi vive da anni e anni nel limbo del campi africani ed è riuscito ad uscirne solo grazie all’intuizione di un talento.

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I rifugiati non solo soltanto i siriani, e il Team Refugees ha l’occasione di spiegarlo ad una platea vastissima. Ha l’opportunità di rompere le barriere e indebolire i pregiudizi. L’obiettivo è mostrare che i rifugiati possono essere un valore aggiunto per qualsiasi paese li ospiti e, magari, addirittura ispirare una pressione sui politici affinché cambino la propria strategia sostituendo alla chiusura l’accoglienza. Ma soprattutto la presenza del Team Refugees è, come spiega Dara Lind su Vox, il fallimento della comunità internazionale. Se il sistema funzionasse, non ci sarebbe bisogno di una squadra del genere, né del clamore mediatico che sta generando intorno a sé. Se il sistema funzionasse a livello globale, lo status di rifugiato non si starebbe trasformando in qualcosa di semi-permanente che incastra letteralmente le persone in una situazione instabile, in campi stracolmi dove le condizioni di vita sono al limite dell’accettabile. “La ragione per cui quest’anno c’è un Team Rifugiati, in altre parole, spiega la Lind, non è soltanto perché ci sono più rifugiati che mai. Il motivo è che “rifugiato” dovrebbe essere un’etichetta temporanea, ma sta diventando per molte, moltissime persone, l’unica a cui possono ambire.

Allora ben vengano l’attenzione mediatica, la solidarietà e la commozione senza frontiere, l’affetto spassionato, ma finché il mondo non amerà i rifugiati (che anche in questi giorni muoiono in mare nel campi sovraffollati in Africa, vengono torturati nell’isola di Nauru alle porte dell’Australia, subiscono violenze e si scontrano contro confini e barriere alle porte dell’Europa), allora l’obiettivo del Cio, dell’UNHCR, del #TeamRefugees non sarà conquistato. Dopo le fanfare e la commozione, dovranno seguire azioni e non parole. Le Olimpiadi di Rio ci offrono l’opportunità di avvicinarci a questo gruppo di rifugiati, di scoprire le loro vicende personali, di seguire le loro gesta atletiche, di trattarli come persone, come esseri umani, esattamente uguali a noi. Facciamo tesoro di questa occasione, senza dimenticare che una Yursa Mardini o un Paulo Lokoro potrebbero essere ospitati nel nostro comune, nei centri sparsi in tutta Europa, esattamente accanto a noi.

Angela Caporale

[Le foto degli atleti sono coperte da copyright UNHCR]

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