Empatia, ombrelli e galere: il caso di Doina Matei

C’è una cosa che si chiama empatia, che alcuni esseri umani possiedono in quantità più o meno considerevole, che ci consente di immedesimarci negli altri.
Questo potere magico fa sì che, ad esempio, si comprenda la sofferenza delle persone pur essendo queste completamente diverse da noi per età, lavoro, nazionalità, visione del mondo, eccetera: da questo deriva che, empaticamente, siamo in grado di difendere chi, a prima vista, non appare difendibile.
Sfortunatamente, per qualche ragione, in Italia questo fenomeno (l’immedesimarsi in chi è più sfortunato di noi e difenderlo contro l’evidenza) ha preso il disturbante nome di “buonismo”: come spiega il senatore Luigi Manconi in questa intervista, il buonismo, però, non esiste (come avrete intuito se avete seguito il mio ragionamento fin qui): esiste invece una sorta di “cattivismo” tale per cui l’empatia nei confronti di minoranze, carcerati, tossicodipendenti, eccetera, viene vista come un’adesione ai loro valori (nel caso in cui tali “valori” siano negativi, naturalmente), anziché come ciò che è, ovvero un affetto nei confronti di altri esseri umani che, per mille e una ragione, possono andare dalla sfortuna a una volontà esplicita di delinquere (che però deriva comunque da fattori esterni in qualche misura più o meno grande) e finiscono per ritrovarsi (o si cacciano) in situazioni sgradevoli.
In questi giorni i giornali italiani (a cominciare dal Messaggero) hanno riportato che Doina Matei, una donna romena che oggi ha 30 anni, condannata per omicidio preterintenzionale (ovvero omicidio come conseguenza non voluta di un’azione, essendo che l’omicidio era avvenuto infilzando accidentalmente con un ombrello la vittima in un occhio, un fatto che – per quanto orribile – può capitare, anche senza venire coinvolti in una lite) a 16 anni di carcere, avrebbe postato delle foto di lei al mare su Facebook.
Si accendono le torce e si affilano i forconi: dai più ovvi “16 anni sono pochi, carcere a vita, e poi perché è fuori dopo solo 9 anni?” ai meno scontati (da parte di testate giornalistiche storiche italiane come il Corriere della Sera, ad esempio) “Killer dell’Ombrello libera” (distorcendo la realtà per far apparire la donna come un’assassina ombrellaia a sangue freddo).

Ci sono due punti da chiarire:
Doina Matei aveva tutto il diritto di essere al mare: scontati i primi otto anni della pena (prevista dalla legge), le era stata concessa la semilibertà (leggi: di giorno al lavoro e di notte in carcere, non proprio una cuccagna, sempre prevista dalla legge, comunque) e alcuni permessi premio, durante i quali appunto è andata al mare, e, data la sua evidente riabilitazione in corso (checché ne pensiate, non si decide da un giorno all’altro di concedere attenuanti per buona condotta, neanche per omicidio preterintenzionale, ma lo si decide in base ai progressi fatti dal condannato – ci arriviamo), al mare era sorridente, forse felice, o magari solo allegra, vista la temporanea libertà.
Arriviamo al secondo punto. Doina Matei ha tutto il diritto di essere felice: nonostante il pensiero dominante (è dominante davvero? Tendo a sperare di no ma temo di sì), lo scopo della pena, nel sistema giudiziario italiano, è la riabilitazione del condannato unita a un reinserimento efficace nella società. Quindi anche riabituarsi a una vita normale, dopo aver compreso e pagato la gravità delle proprie azioni (che qui, ricordiamolo, sono state un incidente, non un atto deliberato), fa parte di questo percorso.
Attualmente il sistema carcerario italiano non ci sta riuscendo molto bene, dati i tassi stellari di recidiva dei condannati che escono alla fine della pena: perché il sistema politico, perfetta espressione del suo elettorato, non ha alcun interesse a occuparsi dei carcerati, come spiegato bene sempre da Manconi nell’intervista sopra citata.

Naturalmente, se l’accordo sottoscritto da Doina prima di iniziare il periodo di semilibertà prevedeva che non potesse usare i social network, il giudice ha fatto bene a revocarla (anche se, dice l’avvocato difensore, questo divieto non era previsto), ma il dibattito non è di certo su questo cavillo: la folla con torce e forconi dà per scontato che a una galeotta sia vietato ogni contatto col mondo per sempre (tanto più perché qui la vittima era molto giovane, come Doina al tempo, e provate a immaginarvi cosa voglia dire ammazzare una ragazza per sbaglio a 21 anni, se pensate che non provi nessun senso di colpa). La felicità le è preclusa per sempre, come suggerisce Gramellini in un Buongiorno discretamente giustizialista di un paio di giorni fa (“Viene il sospetto che per lei la pena, oltre che breve, sia stata inutile”, sostiene, come se l’utilità della pena si misurasse nella contrizione a vita, e come se l’efficacia della pena dipendesse dalla durata della stessa, due fallacie logiche notevoli).

I giornalisti devono riflettere sulle conseguenze di ciò che scrivono, ma soprattutto di come lo scrivono, il giudice non può ritornare sui suoi stessi passi e invertire una decisione per paura della sollevazione popolare, e chi prova una piacevole sensazione nell’impugnare un forcone dovrebbe semplicemente provare a pensare:
“E se succedesse a me?”

 

Guglielmo De Monte
@BufoHypnoticus

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