Fiumi di byte si sono riversati in questi giorni sulla questione dell’autocancellazione delle opere dello street artist BLU a Bologna: contravvenendo alle regole base del giornalismo, non linkerò nessuno dei pezzi – tutti, devo ammetterlo, molto validi – che ogni testata, conosciuta o meno, ha dedicato alla vicenda. Né tenterò di riassumerne la cronaca, abbastanza lineare e ormai accertata. Ho preferito, invece, chiedere un’opinione non a professori catapultati nel dibattito dal nulla o a persone coinvolte troppo da vicino negli eventi, bensì a due ragazzi, intorno ai 30, che a Bologna ci hanno vissuto per anni, gravitando attorno al mondo delle produzioni culturali dal basso e ai movimenti di pensiero e di lotta bolognesi – ciascuno in modo indipendente dall’altro. Laura Marongiu, sarda, scrive per DUDE Mag e conduce un programma su Radio Città del Capo a Bologna; Damiano Cason è laureato in Filosofia politica e viene dalla Lombardia.
Ci tenevo particolarmente che a parlare fossero due rappresentanti della categoria che nei decenni passati e in quelli futuri ha salvato e salverà la città di Bologna: lo studente fuori sede che rimane anche dopo la laurea. Ma questa, forse, è un’altra storia.
Laura, in due parole, ti va di spiegare a un non-bolognese chi sono le parti in causa e quali caratteristiche hanno gli spazi su cui fino a tre giorni fa, erano situati gli interventi di BLU?
Questa risposta da sola potrebbe coprire tutto l’articolo, perché nelle “parti in causa” c’è il fulcro della questione. Le “parti in causa” costituiscono la dialettica di tutto lo scontro, che è uno scontro più ampio (direi quasi immanente), ovvero quello tra “potere costituito” e “antagonismo”, tra “istituzione” e “sottocultura”. Bologna è una città che vive perennemente in questo scontro, perché ha sempre avuto un lato antagonista e sottoculturale molto importante e vivo.
Mi sembra che periodicamente questo scontro si inasprisca, che ciclicamente vediamo crollare attorno a noi baluardi di quella Bologna “anti” che tanto abbiamo amato e che la rendono quella che è. I centri sociali Bartleby e Atlantide sgomberati, una parte di Xm24 demolita, l’accelerata alla gentrificazione di alcune zone: questo è uno di quei periodi. Non è un caso, quindi, che la cancellazione di tutti i murales di BLU faccia ancora più male, perché echeggia nel vuoto lasciato da quelli che per vent’anni sono stati punti di riferimento per intere tribù urbane.
Tornando alla domanda, le parti coinvolte sono da una parte Genus Bononiae, la rete dei musei cittadini retta dalla Fondazione Cassa di Risparmio in Bologna, a cui capo c’è Fabio Roversi Monaco, rettore dell’Università di Bologna dall’86 al 2000, alla guida di Banca Imi e dell’Accademia di Belle Arti di Bologna e – dettaglio non trascurabile – noto membro della massoneria; dall’altra uno degli street artist più importanti al mondo, ovvero BLU, che a Bologna ha un po’ i natali (per formazione ed esordi artistici) e due centri sociali cittadini molto importanti per radicamento e iniziative socio-culturali, Crash e Xm24.
I lavori di BLU, fino a tre giorni fa, apparivano sui muri di questi due centri sociali (con narrazioni molto significative, vedi quello – enorme – sulla facciata di Xm24), e su molti della periferia cittadina nord. Ovvero, la zona più popolare, urbana e decadente della città, a fronte di quella a sud occupata da belle ville e colli rigogliosi.
Le opere di BLU a Bologna sono state realizzate nell’arco di vent’anni e sono state inglobate nello scenario urbano bolognese. Se penso alla conformazione di Bologna, non posso fare a meno di pensare ad uno dei suoi disegni con la stessa naturalezza con cui penso al tipico colore ocra-arancione delle facciate di certi palazzi del centro.
L’intervento di BLU sull’XM24, su cui è apparsa una scritta a dicembre 2015.
Come giudichi questa vicenda rispetto a percorsi più “istituzionalizzati” come quello di Frontier? C’è qualcuno che ha ragione e qualcuno che ha torto o sono semplicemente due modi diversi di approcciare la stessa questione?
Penso che la vicenda in questione sia molto diversa. Frontier è un progetto curatoriale di street art nato nel 2012, che nel corso delle sue tre edizioni ha individuato una serie di muri cittadini da affidare a street artist o writer selezionati, affiancando a questa parte pratica una riflessione teorica su queste due discipline. È sicuramente un progetto che esula dalla tradizione della street art per cui è l’artista a scegliere il muro e a farci un intervento anche in base a quello che il muro o la zona raccontano, in maniera autonoma e dal basso. Qui parliamo di un percorso guidato, di un coinvolgimento attivo di curatori, quartieri, Comune e cittadinanza.
È diverso? Sì. È sicuramente un altro modo di intendere la street art, non siamo più nel campo della spontaneità di strada, dei lavori realizzati di notte a volto coperto, ma non ne rovescia completamente l’animo.
Due delle caratteristiche della street art sono il site specific, ovvero il fatto che un intervento è pensato esclusivamente non solo per il muro, ma per tutto l’ambiente circostante – e non parlo solo di aspetti figurativi, ma anche sociali – e l’effimero. L’arte di strada e in strada è fatta per deteriorarsi, per interagire con altri elementi della strada, non è fatta per esistere per sempre.
L’unico modo per “salvaguardare” questa cultura e per conservarne le tracce per il futuro – visto che è questo che la mostra di Genius Bononiae dice di voler fare – è la documentazione. L’idea di staccare pezzi di intonaco per chiuderli dentro un museo, a pagamento, strappandoli dal loro contesto di nascita e ideazione è, alla luce di questo e delle caratteristiche intrinseche della street art che ho elencato prima, ipocrita, oltre che falsa.

Secondo te, cambierà qualcosa dopo questo scontro? E per chi?
Non so se effettivamente cambierà qualcosa. Quello che è certo, e che è sicuramente una cosa positiva, è che per due giorni – e ancora mentre scrivo – tutta la città, e non solo, si è interrogata su cos’è l’arte, cos’è la street art, cos’è politica, cos’è l’etica dell’arte, cosa succede a Bologna, cosa si può fare per non perdere il suo animo. Se tutto questo è servito a far prendere coscienza a qualcuno, ben venga. Molti sostengono che l’operazione di BLU è stata solo pubblicità per la mostra a Palazzo Pepoli. Io credo che ci sia stata anche una chiamata alla riflessione: penso che molti che fin’ora avevano dato per scontato la buona fede della cosa, ora siano stati costretti ad informarsi e a riflettere sulle ombre che esistono dietro ad un’operazione del genere.
Damiano: BLU, di concerto con i soggetti (centri sociali, pub, ecc.) che ospitavano i propri lavori, ha deciso di passare una mano di grigio e non di bianco, come nell’espressione usuale. Chi lo ha aiutato a farlo – a quanto pare – si è beccato una denuncia per imbrattamento. Dov’è il cortocircuito?
Quando si parla di cortocircuito bisogna fare attenzione a non scadere nel vittimismo. Credo del resto che i soggetti interessati non si porrebbero mai in tal modo. Certamente queste denunce svelano un assurdo: in questo modo per il diritto, mentre una grossa fondazione facente capo a Roversi Monaco può staccare opere sottraendole alla fruizione collettiva per esporle privatamente in un museo a pagamento, l’artista che le ha realizzate non può levarle assieme al collettivo che le ha fruite. L’assurdo non sta nell’atto delle denunce, l’assurdo è il potere stesso, l’atto delle denunce è quasi automatico, è l’atto che ciclicamente svela questo assurdo. Se andiamo a uno spettacolo di magia sappiamo benissimo dove ci troviamo, nonostante la donna segata in due nelle scatole divise sveli ogni volta lo sconcerto.
I principali accusatori del gesto di BLU e dei militanti dei centri sociali hanno usato tendenzialmente due argomenti: BLU ha “ripreso indietro un regalo”, ha privatizzato un’opera d’arte a sua volta, facendosi più pubblicità ancora che con il mezzo della mostra; l’azione ha tolto arbitrariamente l’opera alla disposizione della fruizione collettiva.
Partiamo da questo secondo punto, è interessante vedere cosa s’intende per “collettivo”: i media e il senso comune usano la parola cittadini. Ora ci sono tre modi che mi vengono in mente in cui si può intendere la parola cittadini: il primo parla degli abitanti della città, il secondo dei possessori di un documento di nazionalità, il terzo di un ente astratto interessato alla vita pubblica e, al limite dei suoi utilizzi, attivo in essa. Ora, considerando uno qualunque di questi tre significati della parola (con un asterisco sul secondo, ma non rilevante in questo caso), va da sé che sono cittadini anche BLU e i militanti dei centri sociali e dunque non si capisce di che fruitori parlino i critici del gesto, anzi così facendo sosterrebbero una superiorità del diritto di alcuni cittadini sopra il diritto di altri cittadini. L’impressione è invece quella che venga sempre sottinteso un quarto significato latente che rende quantomeno problematico l’utilizzo di quella parola: i cittadini come soggetti afasici, che non parlano, che non agiscono.
Solo in questo modo si può comprendere perché ogni volta che un gruppo di persone agisca in qualche modo, si stia separando (o peggio scontrando), per i media e per l’opinione pubblica, dal resto dei cittadini. I cittadini sono coloro che non agiscono. Non per niente il termine deriva dalla lunga tradizione politica della rappresentanza: si cede l’azione politica ad altri attraverso la delega. Questa posizione di critica, dunque, non fa altro che delegare ad altri la decisione e quindi, in questo caso, semplicemente non si sarebbe espressa se nulla fosse accaduto.

E a chi sostiene che BLU, in maniera quantomeno scortese, si sia ripreso indietro un regalo a fini sostanzialmente autopromozionali cosa si può rispondere?
Questo argomento nasconde l’odio per i poveri da parte dell’élite. Il curatore della mostra dice di BLU: “Gliel’abbiamo chiesto, e non ha risposto. Anche il rifiuto di dialogare è una forma di marketing”. Altri lo accusano di aver già esposto ad altre mostre e in ogni caso di lavorare all’interno del mercato dell’arte. E dove sarebbe il torto a farlo? Questa è un’accusa generale a qualunque tipo di antagonismo, il più bambinesco “critichi ma poi ci stai dentro anche tu” o “non sputare nel piatto dove mangi”. Come se si potesse mangiare altrove.
Si accusa di lavorare chi si esprime “contro il lavoro”. Questa critica non comprende che questo è un gesto di sottrazione. È il rifiuto di cedere l’opera a chi la recinterà. Vero, il mezzo è stato ora la sua distruzione, tuttavia essa ha coinvolto delle forze, probabilmente più grandi di quelle che l’avevano generata. “Preferirei di no” del Bartleby di Melville. Ma non bisogna cogliere nella proposizione solamente la sua parte nihilistica (la ri-privatizzazione nella forma della distruzione), perché quel condizionale produce uno scarto creativo. Una parte dei “cittadini” si sottrae alla “totalità dei cittadini”, e quando lo fa, prende un altro nome. 3 – 2 = 1, non è più un 3, e non si può negare tuttavia che la sottrazione sia un’operazione, quindi generatrice di un risultato, di qualcosa che prima non era. Insomma una creazione. Come giustamente dicono alcuni quel grigio è una nuova opera d’arte che si mette in viaggio attraverso i confini.
Ma in definitiva l’arte può essere completamente separata dalla politica? Sarebbe forse meglio per tutti?
Credo che siano assurdi i tentativi di distinguere per categorie ferree arte e politica: qui si parla della scelta di un’artista insieme a molte altre persone, insomma una scelta collettiva pienamente politica. E per capirla bastava forse guardare bene quel famoso murale di BLU sulla facciata di XM24 sul tema de Il Signore degli Anelli. Ai piedi dell’occhio di Sauron posto sulla Torre degli Asinelli, da un lato nella città sono barricati con i poliziotti e le ruspe gli speculatori edilizi, le grandi banche, i viali intasati dal traffico, lo smog, i politici locali in cerca di visibilità con slogan altisonanti e grandi opere dannose per il territorio; dall’altro lato la Bologna dei movimenti, della cultura e dell’arte libere, dei centri sociali, dei collettivi politici. Molto lontano, una breccia nelle mura: è Atlantide, ultimo degli spazi sgomberati. Infine questo grigio, ecco la nuova breccia. Un urlo di libertà.
Quando sempre il curatore della mostra dice che “paradossalmente è questa mostra che sta restituendo al lavoro di BLU quella carica di dissenso che non aveva più”, bisognerebbe rispondergli che se le opere sui muri “andavano contro il potere”, le pennellate di grigio e la loro sottrazione vanno proprio da un’altra parte, rispetto al potere.
Grazie Damiano, grazie Laura.
In tutto questo, aggiunge il cronista, il Comune risulta ‘non pervenuto‘.
@disorderlinesss
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