La vena psych degli R.E.M. – Pt. II

La vena psych degli R.E.M. – Pt. II

ho fatto una breve apologia degli Ari M. come gruppo di , che per motivi puramente idiosincratici per me rimane una roba a sé nella discografia ariemmiana. è un raga di chitarra che avrebbero potuto fare i Beatles o i Rolling Stones ma senza un minimo della ieraticità che invece qui infonde Stipe, insieme coi bonghi di second’ordine di Berry . Ma dobbiamo subito arrivare al terzo calunniato e misconosciuto album, ). L’altro album del periodo EQuitalia calunniato e misconosciuto è il successivo, che invece contiene uno dei pezzi esemplificativi della grammatica di ciò che intendo per psych negli Ari M (strano che tutti sti pezzi psych abbiano i titoli più sbilenchi): una nenia ipnotica (Scaruffi dai ora basta) condito dal solito testo evocativo, rullantino a marcetta militare, fisa nel ritornello da festa paesana che si ributta in uno storytelling sciamanico di chi ha catturato con carismatico che contiene alcuni classiconi del gruppo e certi inserti di sax dettati sicuramente dallo ma di cui qualcuno dovrà pur rendere conto davanti a Dio presto o tardi. Qua i pezzi da segnalare sono tre, di cui due importantissimi. (tralasciamo , dal nome di un vecchio satanico bluesman, è un pezzo che nel suo piccolo, bianchissimo, borghese psychismo ha una discreta rilevanza: i cori che fungono da refrain, i corvi poeiani, il guiro (successivamente definito sul libretto di Berry che come diverse altre volte nella storia tiene su la baracca silenziosamente, gli urletti scomposti di Stipe. Subito dopo c’è , in cui ritroviamo gli arpeggini mezzi acustici un po’ ragati, il rullantino militare, la voce baritonale di Stipe che snenia un testo che ha anche dell’infantile ( , che è un po’ il nostro “tutti giù per terra”)  per aprirsi a hooks di più ampio respiro armonico e in cui, come a 2’10 e pure alla voce fa una cosa che ha fatto e farà altre volte durante la sua carriera: sforza la sua limitata e ruvidicchia voce in qualcosa che per i canoni del (ribadisco i titoli sblenchi), che forse rientra nei nostri canoni, ma senza spiccare in nulla, se non nel riallacciarsi al tema delle storie oscure-psych di campagna dipinte in toni inquietanti. è un album non facile, col quale non fanno il botto. Contiene un paio di pezzi utili a noi, il primo è che è una storia volendo piuttosto triste nella sua essenziale didascalia all’interno della testa di un bambino con problemi di socialità, condita dal mandolino rincoglionente di capitan Buck, prima del suo impiego più celebre, e i soliti controcanti di Mills che si sovrappongono al cantato sempre sforzato di Stipe. (Vorrei citare , che però è una canzone intimista con strumenti acustici e non ha molto di psych, come invece ha) ), sembra il soliloquio di un Perec incatenato in trip brutto. La stessa caratteristica di delirio privato e oscuro è condivisa da un pezzo che secondo me non conosce nessuno dell’album del botto, , una delle tre canzoni degli Ari M. più fraintesa di sempre; ma non lo farò). Dopo c’è l’album dello strabotto, dei miliardi, dei video che citano Fellini e Wim Wenders, orchestrato da John Paul Jones: , uno dei più interessanti album del primo periodo Warner Brothers. Si potrebbe ben segnalare la traccia di chiusura, , che è un’ode malata di un amore malato nella quale Stipe non si fa problemi a stracciarsi le corde vocali in un crescendo finale che ha veramente del preoccupante. Lo scenario è effettivamente ben costruito, in coerenza col resto dell’album – purtroppo non c’è tempo per soffermarsi. L’album successivo, , scritto in tour e l’ultimo con Bill Berry alla batteria prima del coccolone, è uno di quelli che più ho amato da ragazzetto (ora meno, perché certi pezzi sono adolescenzialetti anzichenò e va bene tutto nel non riuscire a saper crescere ma almeno non arrivo , che oltre a essere un pezzo spaventosamente bello e ben orchestrato, contiene due o tre punti di cacofonia ragionata che dopotutto non aggiunge molto alla , ma resta l’occasione per ascoltarsi un pezzone; e la traccia sesta, , 7’17 imbattuti dagli Ari M. che hanno ficcato un pezzo pop americano abbastanza inquietante su un tappeto ininterrotto di una sirena che di per sé non è qualcosa di straordinario ma a conti fatti impoverirebbe il pezzo se mancasse e mancherebbe di per gli Ari M. è tormentata. Rimangono in tre. Sopravvivono alla svolta elettronica. ). Di psych c’è giusto qualche sprazzo, ma niente degno di nota. è un disco di brutte canzoni prodotte e orchestrate malissimo. Niente psych. L’ultimo album bello degli Ari M. è e ivi si notano due pezzi dal gusto più 2008 ma neppure troppo che rivedono i fasti psych di un tempo, ha qualcosa di ombroso nel suo essere frettoloso e inquieto come qualcuno che si guarda attorno. è un album che non ho proprio avuto voglia di capire, ammesso che ci fosse qualcosa da capire in un album fatto per finire il contratto e poi, con diversa tristezza, sciogliersi senza neanche portarlo in tour (un’altra scelta, nei modi e nei tempi, che ha contraddistinto, per me, gli Ari M. da qualsiasi altro gruppo con contratti e hit planetarie da tenere a bada) (e contraddistinto pure da molti litigiosissimo gruppi indie). che ho voluto tracciare. La verità va letta alla luce della degli Ari M. in quelli che sono stati i decenni più plasticosi dell’era della musica leggera. Sì, Everybody Hurts, Losing My Religion, Shiny Happy People, Nightswimming, At My Most Beautiful e tutto quanto. Ma anche cose piuttosto oscure, con un filo di inquietudine per niente banale.