Le lotte e i movimenti dal basso per chiudere i CPR

Le lotte e i movimenti dal basso per chiudere i CPR

la mattina del 4 febbraio 2024 impiccandosi a una grata nel Centro di Permanenza per il Rimpatrio (CPR) di Ponte Galeria, nella periferia di Roma. , dopo che il 6 e il 13 ottobre 2023 si era recato al Comune di Cassino, provincia di Frosinone, per denunciare i all’interno della casa famiglia “Revenge” che lo stava ospitando. «Così come successo con Moussa Balde, picchiato a Ventimiglia e rinchiuso nel CPR di Torino, dove si è suicidato dopo aver provato a denunciare le violenze, la stessa cosa è successa a Sylla», ha raccontato a Yasmine Accardo, attivista di Lasciateci Entrare e Memoria Mediterannea riferendosi al suicidio di un altro giovane guineano di 23 anni avvenuto nel 2019 nell’ nata per ospitare chi aveva problemi di salute, ma che col tempo è stata utilizzata più per punire chi protestava che non per ragioni mediche. Ousmane Sylla dopo il secondo provvedimento di espulsione è stato trasferito nel CPR di Trapani, dove è rimasto per oltre tre mesi in attesa di un rimpatrio non realizzabile a causa dell’ con la Guinea. Durante la sua permanenza, nel centro siciliano sono scoppiate delle rivolte da parte delle persone trattenute per denunciare le condizioni di vita insostenibili, le  quali hanno provocato l’inagibilità di una parte della struttura. Per questo motivo Sylla, insieme ad altre persone, è stato trasferito nel CPR di Ponte Galeria. un altro caso di assassinio di un sistema che trasforma, che pensa che le persone che arrivano siano corpi che si possono tranquillamente sacrificare», ha commentato Accardo, che fin da subito, insieme ad altri attivisti e attiviste italiani e guineani, si è mobilitata per entrare in contatto con i familiari di Sylla e aiutarli nel la salma del figlio. L’ultima preoccupazione del ragazzo, infatti, era la destinazione del proprio corpo, trasmessa attraverso un messaggio di addio inciso nella parete della camerata del CPR di Ponte Galeria: «Se un giorno dovessi morire, vorrei che il mio corpo fosse portato in Africa, mia madre ne sarebbe lieta (…). Pace alla mia anima, che io possa riposare in pace». Insieme ad attivisti guineani abbiamo rintracciato la famiglia, e abbiamo scoperto che  l’ambasciata non solo non li aveva informati, ma non li aveva nemmeno cercati». I familiari infatti, prosegue Yasmine Accardo, «hanno saputo della morte di Ousmane solo dieci giorni dopo». , ovvero di privazione della libertà personale attraverso un provvedimento amministrativo anziché penale, senza perciò che sia stato commesso un reato e senza che avvenga un normale processo. Questa detenzione si applica alle persone straniere irregolari in Italia che sono state oggetto di un ordine di espulsione e vengono trattenute in attesa di essere rimpatriate nel loro Paese d’origine. Inoltre, in alcune circostanze, il trattenimento è previsto anche per  coloro che fanno richiesta di protezione internazionale. Manifestazione a Milano del 6 aprile 2024 per la chiusura di tutti i CPR. Foto di Nicola Vasini/The Bottom Up. delle persone trattenute viene effettivamente rimpatriata mentre il restante, viene rimesso in libertà a seguito di un periodo di detenzione che con il decreto voluto dal governo Meloni può arrivare fino a 18 mesi. Uno dei motivi dell’inefficacia di questi centri è dovuto alla mancanza di accordi bilaterali tra l’Italia e i Paesi d’origine dove dovrebbero tornare i migranti irregolari. Attualmente sono 10 i centri sul territorio italiano, ma non tutti sono funzionanti. Quello di Milano, in via Corelli, per un breve periodo durante il quale sarà ristrutturato per aumentarne la capienza. Nel febbraio 2023 invece era stato chiuso quello di Torino a causa di danneggiamenti interni alla struttura dalle rivolte delle persone detenute. Il governo Meloni inoltre vorrebbe intensificare la rete dei CPR sul territorio italiano aprendone uno in ogni regione. Centri di Permanenza per il Rimpatrio attivi in Italia ad aprile 2024. Mappa di The Bottom Up creata con Datawrapper Sulla carta, nei centri, la persona straniera deve essere trattenuta con modalità tali da assicurare la necessaria assistenza ed il pieno rispetto della sua dignità, quindi devono essere garantiti vitto e alloggi dignitosi, la cura dell’igiene e l’assistenza e la tutela sanitaria, tra cui quella psicologica. Nella realtà, la situazione è differente. La gestione delle strutture viene infatti appaltata dallo Stato ad aziende private che, la Coalizione italiana libertà e diritti (Cild), se li aggiudicano attraverso bandi in base al criterio dell’ “offerta economicamente più vantaggiosa”. Questo, spiega ancora Cild, da un lato produce una minimizzazione dei costi e una deresponsabilizzazione del pubblico, dall’altro la massimizzazione dei profitti da parte dei privati che si riflette nella scarsa qualità dei servizi forniti ai trattenuti. Inchieste portate avanti negli anni da giornalisti, parlamentari e associazioni hanno dimostrato, infatti, come le condizioni detentive risultino incompatibili con il rispetto dei diritti umani. Ad esempio l’ultimo dell’associazione Naga e della rete Mai più Lager – No ai CPR, basato su un anno di osservazione del CPR di Milano tra il 2022 e il 2023, ha evidenziato lo «squallore dei miserrimi moduli abitativi e dei servizi, passando per la totale mancanza di igiene e privacy dei bagni per arrivare ai pasti impresentabili e farciti di vermi». Inoltre, come riporta un’ nei CPR è stata registrata una somministrazione di medicinali arbitraria ed eccessiva. Gli operatori spesso somministrano questi farmaci per calmare e “tenere buone”, come scritto nell’inchiesta, le persone rinchiuse. In altri casi, invece, spiega Accardo, «sono le stesse persone rinchiuse a richiederli perché non riescono a sopportare le condizioni di vita dei CPR». Di fatto, le persone in attesa di espulsione vengono detenute come se fossero in carcere, ma senza le garanzie previste dall’ordinamento penitenziario. «Per questo tipo di privazione della libertà personale (i CPR, Martina Ramacciotti, avvocata del Foro di Bologna, specializzata in diritto dell’immigrazione e socia dell’Associazione per gli Studi Giuridici sull’Immigrazione (ASGI). «Ad esempio non è contemplata la figura del che possa accertare la sussistenza di condizioni umane degradanti». Inoltre, la scarsa qualità dei servizi offerti ai detenuti si riflette anche nell’assenza di attività educative, ludiche o ricreative. «Tutti gli assistiti di cui mi sono occupata, mi hanno riportato situazioni in cui non c’è niente da fare». Infatti, al contrario di quanto previsto dagli istituti penitenziari, «quella dei CPR è una detenzione funzionale a espellere le persone dalla società, non a reinserirle e questo riflette il modo in cui vengono trattenute le persone» aggiunge Ramacciotti. Oltre alle inchieste giornalistiche e giudiziarie, il lavoro di denuncia svolto dalle stesse persone trattenute nei CPR ha avuto un ruolo fondamentale. Tramite i propri telefoni hanno potuto documentare le condizioni detentive critiche che hanno portato a tentativi di ribellione, atti di autolesionismo e suicidio. Le rivolte all’interno dei centri hanno inoltre causato la temporanea chiusura di alcune di queste strutture. «Nonostante i gravi fatti accaduti all’ospedaletto di Torino, il CPR non è stato chiuso con un ordine della Prefettura o del Ministero dell’interno, ma a seguito di una rivolta», ha precisato Yasmine Accardo, volendo sottolineare l’importanza delle denunce e delle lotte che provengono all’interno dei centri da parte degli stessi detenuti. «Tramite un numero SOS riceviamo foto, video, racconti e questo ci permette di amplificare all’esterno le voci di chi si trova trattenuto», spiega l’attivista. «Lo stesso messaggio di addio di Sylla è emerso grazie alle riprese dei compagni detenuti». Manifestazione a Ferrara del 2 marzo 2024 per la chiusura di tutti i CPR. Foto di Nicola Vasini/The Bottom Up. Accardo evidenzia che le segnalazioni arrivano dai CPR dove le persone trattenute riescono a tenere i cellulari. L’utilizzo dei telefoni personali all’interno dei CPR varia a seconda dei regolamenti dettati dal centro, ma la prassi è quella di vietare o limitare l’utilizzo. «Dal CPR di Caltanissetta non riceviamo notizie, da quello di Bari e Brindisi sempre meno». A Milano, invece, su questo punto la situazione è diversa. «Grazie a una vittoria in tribunale i detenuti hanno avuto accesso ai telefoni e si è instaurato un flusso di segnalazioni con gli attivisti. Le denunce hanno attirato l’attenzione della magistratura che ha commissariato l’ente gestore del CPR e sequestrato la struttura stessa» ha spiegato a Igor Zecchini, attivista della rete milanese Mai più Lager – No ai CPR, che si batte per la chiusura di tutte queste strutture sul territorio Italiano. A dicembre 2023 la società Martinina srl, che il CPR di via Corelli, è stata sotto inchiesta per frode e turbativa, e dalle indagini era emerso che le persone trattenute, tra le altre cose, non ricevevano cure e mangiavano cibo scaduto. È da quando sono state istituite queste strutture, nel 1998, che reti e movimenti si mobilitano per la loro chiusura e ne denunciano le condizioni di vita dei detenuti. Valerio Monteventi, ex consigliere comunale di Bologna e volto storico della militanza politica bolognese, ha raccontato a come è stato possibile impedire l’apertura di un CPR – all’epoca si chiamavano Centri di Permanenza Temporanea (CPT) – nel capoluogo emiliano. «Nel 2000 iniziarono le proteste a seguito della notizia dell’apertura di un CPT a Bologna voluto dal ministero degli Interni». Le proteste in quegli anni erano molto partecipate e concrete. Reti di attivisti non solo durante un Consiglio Comunale per esprimere la propria contrarietà all’apertura del CPT di via Mattei, ma eseguirono una vera e propria azione di smontaggio della struttura durante i lavori di costruzione del centro. «Alcuni attivisti entrarono e smontarono le gabbie», ha spiegato Monteventi, e questo «produsse un ritardo effettivo nell’apertura, che avvenne lo stesso ma due anni dopo». Nonostante l’apertura del CPT che iniziò a trattenere persone straniere irregolari, le proteste non cessarono e oltre alla mobilitazione degli attivisti anche le persone rinchiuse nel centro iniziarono a ribellarsi. Durante una delle rivolte, molti migranti detenuti nel CPT fuggirono in massa, con il supporto degli attivisti che tagliarono il filo spinato. Poiché questi centri non sono considerati carceri, non esiste il reato di evasione e i fuggitivi non potevano essere perseguiti legalmente». Continua Monteventi «In seguito, arrivarono alla decisione di chiudere il CPT e di trasformarlo in Centro di Accoglienza Straordinaria dove però all’interno le condizioni rimangono tutt’oggi pesanti». Da quando il governo Meloni ha espresso la volontà di intensificare la rete dei CPR sul territorio nazionale costruendone uno in ogni regione, anche in Emilia Romagna si è riacceso l’allarme «Per la costruzione sceglieranno delle zone fuori dai centri abitati, isolate, dove anche portare mobilitazione diventi difficile e per questo bisogna trovare delle forme di antagonismo intelligenti». Questo articolo è stato scritto con la collaborazione di Francesca Capoccia