Cina-Taiwan: la contesa vista dagli occhi degli studenti emigrati in Europa

Cina-Taiwan: la contesa vista dagli occhi degli studenti emigrati in Europa

I rapporti tra Cina e Taiwan sono tesi e precari da oltre mezzo secolo, influenzando pesantemente anche le relazioni internazionali di entrambi i Paesi. Per capire come le rispettive popolazioni vivono la situazione, in questo articolo presentiamo un punto di vista differente da quello solitamente adottato nella narrazione comune: quello degli studenti, cinesi e taiwanesi, che hanno lasciato il proprio Paese e vivono ora in Europa, guardando alla contesa dall’esterno. Sono ormai decenni che i rapporti tra Cina e Stati Uniti si fanno sempre più tesi. Diversissimi sotto ogni punto di vista, questo conflitto economico, politico e ideologico si riversa prepotentemente sul destino di una piccola isola: Formosa, ossia Taiwan. Se ne sente spesso parlare da un punto di vista geopolitico, e quasi mai umano, in una narrazione a due voci, e da cui paradossalmente Taiwan è esclusa. Se siamo sicurissimi di sapere cosa ne pensa il presidente Xi Jin Ping, non siamo così tanto sicuri di sapere cosa pensano i cinesi e gli stessi taiwanesi. La diatriba tra Taiwan e Cina comincia il 1 ottobre 1949, quando dopo la caduta dell’impero cinese, il Partito Comunista Cinese (con a capo Mao Zedong) assume il potere, a discapito dello sconfitto partito nazionalista Kuomintang. Il leader di quest’ultimo e i suoi seguaci si rifugiano di conseguenza a Taiwan. Nasce così la Repubblica di Cina, dove viene istituito un governo e rivendicata un’indipendenza che non sarà mai tuttavia riconosciuta dalla Repubblica Popolare cinese. È una domanda che si pongono in tanti e a cui è molto difficile dare una risposta. Abbiamo intervistato quattro ragazzi cinesi e tre ragazzi taiwanesi. Tutti loro si sono trasferiti in Europa per progetti di scambio, la maggior parte nella speranza di poterci rimanere. Alla domanda: «Credi che essere taiwanese significhi essere cinese?» le risposte dei ragazzi cinesi sono tutte molto simili tra loro e in sintesi dicono: «Noi siamo la stessa cosa». Questa osservazione viene fatta alla luce di molti fattori: in primis, taiwanesi e cinesi condividono gli stessi antenati, sono stati entrambi sotto il controllo della dinastia Qing, hanno condiviso gli stessi traumi ed evoluzioni dal punto di vista storico. , c’è scritto anche sul loro passaporto». Jia (nome di fantasia), ragazza cinese che oggi studia in Francia, racconta di aver sempre vissuto in un villaggio molto vicino all’isola di Formosa. Per dare la percezione di quanto prossimi siano i due luoghi utilizza una frase concisa: «se c’è un terremoto a Taiwan, lo sento anche io». Mangiano lo stesso cibo, parlano la stessa lingua: il dialetto che si parla a Taiwan è lo stesso che si parla in quel villaggio, ovvero il dialetto Minnan. Tuttavia, Wen e Ying, due ragazzi di Taiwan che attualmente vivono a Praga, hanno una prospettiva diversa. Entrambi studiano cinematografia e per lavoro si spostano molto in giro per l’Europa. Raccontano di soffrire molto quando all’estero vengono definiti cinesi, perché loro si definiscono per come si vedono: semplicemente taiwanesi. «Anche Inghilterra e Stati Uniti condividono la lingua, gli antenati, tante scuole di pensiero. Ma diresti mai che sono la stessa cosa? Il fatto che Cina e Taiwan siano più vicine geograficamente non implica che la Cina continentale abbia diritto di rivendicare dei diritti che non ha. Noi non siamo la stessa cosa». Nonostante queste prospettive diverse, tutti concordano su una cosa: «Quando parliamo, noi non ci odiamo affatto, non ci manchiamo di rispetto. Ma quell’argomento difficilmente si tocca quando si è insieme, perché anche se umanamente ci sentiamo vicinissimi, politicamente è più complicato». «Se a un Taiwanese chiedi se odia i cinesi, difficilmente ti risponderà di sì, perché sappiamo che non sono i cinesi il problema». E infatti è la politica che rappresenta il corto circuito. Un’altra considerazione comune tra gli intervistati cinesi è che «Se chiedi a una persona cinese, è praticamente sicuro che ti dirà che Taiwan è e deve far parte della Cina, e lo pensano tutti perché gli è stata fatta una sorta di lavaggio del cervello». Xiang studia ingegneria e ha 24 anni. É la prima volta che esce dalla Cina: oggi studia a Parigi. Si accorge dei diversi stili di vita, ma dice di aver assunto coscienza da poco su quanto si parli in malafede di Taiwan nella Cina continentale. Racconta che è una questione di cui si parla ovunque: scuola, giornali, social media. E la narrazione è univoca. Alla domanda «L’opinione dei media è la stessa del governo?», la risposta è «Ma è naturale che sia così». In tutte queste sedi, il ritratto riportato di Taiwan è quello di un popolo che fa i capricci davanti a un dato di fatto, ossia l’appartenenza alla Cina. Se lo è da un punto di vista culturale lo dovrebbe essere anche da un punto di vista politico. Il governo è corrotto, cattivo e manipola la sua gente. Xiang confessa: «Credo che il popolo cinese sia profondamente innocente: sin dalla scuola materna ci viene proposto un insegnamento ben preciso e la nostra prospettiva sul mondo è coerente con quella narrazione, perché non ne abbiamo mai avute altre». È molto difficile che una persona che vive in Cina abbia un’opinione diversa da quella del governo e se ce l’ha «farà bene a tenersela per sé, se non vuole essere prima osservato e poi al minimo errore arrestato». In Cina non esiste il concetto di “rivista indipendente”, i social di ogni cittadino sono costantemente supervisionati e il governo ha un avanzatissimo sistema di monitoraggio dei cittadini realizzato attraverso le nuove tecnologie. Recentemente in Europa abbiamo sentito parlare di proteste dei cittadini nei confronti delle politiche economiche adottate da Xi Jin Ping, ma esse non rappresentano affatto la normalità, anzi. lo possono fare solo con l’approvazione delle autorità competenti, che tuttavia non fanno passare quasi mai nessuna proposta di protesta. In poche parole, un cittadino cinese ha un’unica strada da percorrere, cioè essere d’accordo con il governo o far finta di esserlo. Il governo cinese non ha solo l’assoluto controllo dell’informazione la Cina continentale, ma anche su Taiwan. Secondo quanto riportato dagli intervistati di Taiwan, nemmeno sull’isola ci sono riviste indipendenti, e tutti sanno e vedono che sono controllate dalla Repubblica Popolare. Per esempio, le persone più anziane a cui «è stato fatto il lavaggio del cervello», a detta di uno dei ragazzi di Taiwan, sono convinte che far parte della Cina sia la cosa migliore, una cosa buona, ma «non realizzano che perderanno completamente la libertà. Per che cosa poi? Per dello stupido denaro». Fu è uno studente di giurisprudenza in Francia. Ama la politica e gli piace molto dialogare, ma osserva che a differenza sua: «Di base, il cittadino cinese medio non è interessato alla politica perché sa che non può far nulla né contribuire in alcun modo, e quindi percepisce quell’ambito come qualcosa che non lo riguarda». Le decisioni le prende il partito, mentre i social media e i giornali non parlano quasi mai di esteri se non per questioni più pop: «Tante persone cinesi ascoltano Lady Gaga, sono interessate ai delle celebrità americane, però a nessuno di loro importa della politica». In generale, questo interesse manca semplicemente perché tutto ciò che conta è avere una stabilità economica: «ho un lavoro, posso sostenere la mia famiglia? Bene, resto nel mio recinto, perché è l’unica cosa che posso gestire e cambiare». E non è solo il potenziale invasore che non ne parla, ma anche il potenziale invaso. », cioè, l’invasione è come l’elefante nella stanza: c’è e lo sanno tutti, ma nessuno ne parla. Perché? «Perché nessuno ha voglia di provocare la Cina». Più se ne parla, più la situazione si scalda e diventano maggiori le possibilità di invasione, e i cittadini hanno paura. E non solo i cittadini comuni, ma anche gli esponenti politici. È molto raro che un politico taiwanese (che è favorevole all’indipendenza dell’isola) faccia asserzioni troppo dure e inequivocabili sul tema. Tutte le persone cinesi intervistate ora studiano in Europa. «Sono venuto qui perché mi sento frustrato. Amo la mia nazione, amo la mia cultura, amo il mio popolo, ma odio sentirmi comandato e manipolato», afferma uno di loro. E così gli altri: «La prima ragione per cui sono venuto qui è la libertà». Oppure: «Nel mio paese le persone non sanno davvero cosa sia la libertà. Pensano: ho il denaro per fare ciò che voglio, quindi sono libero. Ma non è così». La maggior parte di loro si dice combattuta, perché nel caso in cui dovesse effettivamente scoppiare una guerra tra Cina e Taiwan, tutti loro vorrebbero sostenere e aiutare il proprio popolo, ma non supportano il governo, anche se questa non è naturalmente l’opinione della maggior parte della popolazione. E se vuoi supportare la tua nazione ma non il tuo presidente? Non puoi fare nulla, ma solo “resistere e aspettare”, accettare ciò che ti viene dato dal partito e fartelo bastare. Sanno benissimo che sarebbe una guerra di proporzioni significative, perché ad interferire ci sarebbero gli Stati Uniti. Questo gli procura angoscia per chi amano, perché loro sono in Europa, ma i loro familiari no. A Taiwan l’esercito è pronto e preparato, consapevole che la sua forza consiste negli aiuti che arriveranno dall’esterno, ma i cittadini molto poco. A Taiwan non essendoci il dibattito nel tentativo di ignorare “l’elefante nella stanza”, i cittadini non sanno ancora come gestire un fatto del genere. Quando chiediamo a Kai: «Cosa provi pensando a una possibile invasione del tuo Paese?», risponde: «Sono impotente davanti a un colosso come la Cina, quindi provo questo, rassegnazione, rabbia e impotenza».