La nyaope, se la baci te la sposi

La nyaope, se la baci te la sposi

La versione scadente dell’eroina continua a rovinare la vita dei bambini. Secondo le giovani donne che abitano in una casa della droga a Ekurhuleni, la polizia non le prende sul serio. Per Nokuthula Ndamane, suo figlio Bongikosi è sia lo stimolo per combattere la propria tossicodipendenza, sia un riflesso di quanto la sua vita sia stata travolta dalla nyaope. Il piccolo di 5 anni vive con dei dei parenti di Ndamane a Ladysmith nella provincia di KwaZuluNatal, situata a centinaia di chilometri da Mayfield Ext 5 nel distretto Ekurhuleni, provincia di Gauteng, dove vive Ndamane. «Quando piange, mi chiedo a chi si stia rivolgendo, chi è la persona che chiama ‘mamma’. Non voglio che lui viva la vita che ho vissuto io, non lo voglio perché so il dolore di crescere senza una mamma», dice. «Io stessa sono un genitore adesso e ho bisogno di aiuto. Vorrei crescere mio figlio… non l’ho più visto dagli ultimi mesi dell’anno scorso, quando l’hanno portato via. Ci ho parlato al telefono, ma è da un po’ che non lo vedo». La famiglia di Ndamane si è fatta carico di Bonginkosi quando la sua dipendenza per la nyaope si è aggravata. Allora aveva anche lasciato la scuola. «Non voglio che cresca arrabbiato e che finisca per drogarsi con un cuore a pezzi, chiedendosi perché sua madre non l’ha cresciuto, nello stesso modo in cui io mi chiedo perché mia madre non ha cresciuto me… Guarda le mie mani… non sembro per niente una mamma affidabile. Adesso che il mio aspetto è questo, non ho più il coraggio di incontrare mio figlio faccia a faccia. Lui non conosce questa versione di me. La vecchia me era diversa dalla me attuale», dice, toccandosi le mani coperte di carbone. Ndamane è cresciuta nella provincia rurale KwaZulu-Natal con sua nonna. Sua madre vive in un ostello a Gauteng e di solito le sconsiglia di visitarla, perché teme che rubi qualcosa o che senta commenti negativi su di lei dagli altri residenti dell’ostello. «Adesso ho 24 anni e non ho mai ricevuto una torta da parte di mia madre, ma non posso darle colpa. Mi chiedo solo il perché. Sono finita per diventare la stessa madre incapace di crescere il proprio figlio, nonostante volessi tanto farlo, proprio come aveva fatto mia nonna con me», aggiunge. Ndamane crede che sua madre l’abbia abbandonata. Una volta le comprava il metadone, un farmaco con obbligo di prescrizione usato per combattere la dipendenza dall’eroina, ma rimanendo nello stesso ambiente che l’ha fatta piombare in questa spirale, Ndamane ha difficoltà a smettere. Ha perso la battaglia mentale contro la droga e il suo appetito insaziabile. Il suo compagno, padre di Bonginkosi, aveva già cominciato a rubare quando lei stava cercando di smettere, e Ndamane veniva consumata dall’odore della droga quando il suo compagno in sua presenza. «Ovviamente  l’ebbrezza che si prova quando si è sballati, è impossibile stare ferma e non unirmi per due tiri. Se voglio smettere, ho bisogno di trovare il posto giusto e vivere in un ambiente dove non conosco nessuno che fuma e dove posso continuare i miei studi o trovarmi un lavoro… non posso andare in riabilitazione e poi tornare a stare ferma. Stare fermo è la cosa che ci spinge a fumare, perché stare fermi è esattamente quel che si fa quando si è abituati a spacciare», racconta. «Quando la sfiori ti ci attacchi», spiega Ndamane parlando della morsa che la nyaope ha sui consumatori. «Una volta che la provi, vieni intrappolato… è impossibile uscirne…Non provarla mai perché distruggerà la tua vita. La via per cominciare è facile da percorrere, ma la via per smettere è difficile, e ti riporta semprea quell’unica fine». Dineo Kitsane, ventitreenne, spiega che quando cominci a consumare la nyaope, tutti ti amano e sono generosi con la droga. «Ma una volta che ne diventi dipendente, quando non sai più cosa fare, è proprio in quel momento che devi imparare a spacciare per te stesso, perché ormai non hai più scelta, ognuno si fa la propria strada». Spacciare per il cosiddetto “nodo�?, nome derivato dal modo in cui viene allacciato, è estremamente sessuato. Gli uomini rubano per comprarsi un nodo, che costa 25 rand. Le donne invece mettono a rischio la propria vita e prima di tutto il proprio corpo. Kitsane racconta che le donne vanno a letto con gli uomini per ottenere abbastanza soldi, ma alcuni di questi se ne approfittano. «Agli uomini importa solo di soddisfare i propri bisogni, quelli delle donne non li riguardano proprio. Io non so più quante volte sono stata violentata, ero costretta», aggiunge Kitsane. Quando Kitsane ha tentato di sporgere denuncia, la legge l’ha delusa. «Quando andiamo dalla polizia per denunciare, ci dicono che siamo solo delle drogate… ovunque tu vada a denunciare, nessuno ti prende sul serio. Ti prendono come una pazza perché consumi droga. Tu vai lì per dire loro che qualcuno ti ha fatto qualcosa di grave ma loro neanche ti guardano. Dicono: ‘è una drogata, stava probabilmente cercando di rubare’». Inoltre, Kitsane aggiunge dicendo che lei è spesso stata accusata di cose che non le era neanche venuto in mente di fare. «La polizia dovrebbe essere al servizio di tutte le persone della comunità senza discriminazioni», dice il tenente colonnello Mavela Masondo, portavoce della polizia provinciale di Gauteng. «Le vittime dovrebbero tornare alla stazione di polizia e sporgere denuncia al comandante della stazione. Possono anche inoltrare la querela al grado di giurisdizione superiore del distretto». Ndamane sostiene di voler solo essere trattata come un essere umano. Afferma anche che la polizia spesso li picchia. «Perché non si prendono solo quel che vogliono? Perché devono picchiarci? (Perché dobbiamo soffrire così per la droga?) Siamo anche noi persone, anche il nostro sangue è rosso». Ndame e Kitsane sono in una discarica, e valutano gli oggetti che hanno raccolto passando l’intera giornata a girovagare, non solo per fare un po’ di soldi, ma anche per un nodo. Prima di andare alla “casa della droga�?, devono passare da una tabaccheria per prendere le sigarette. Un uomo  saluta Kitsane con disprezzo ma evita deliberatamente il suo sguardo. Era un suo compagno di scuola, ma come la maggior parte dei suoi compagni, anche lui non riesce più a guardarla negli occhi. «Anche quando veniamo pagate, la gente ci butta i soldi per terra pur di non sfiorarci le mani», dice Kitsane. Ndamane aggiunge inoltre: «Neanche noi vogliamo sembrare così sporche, ma non abbiamo tempo per farci la doccia perché non possiamo smettere di lavorare». Nel 2012, Kitsane si è trasferita dalla Pretoria, dove viveva con sua nonna, a Mayfield. Vedeva sua madre solo alla fine del mese. All’epoca fumava marijuana occasionalmente, solo quando i suoi amici gliela portavano. Un amico le ha offerto due tiri di nyaope durante il suo ventunesimo compleanno, ovvero il 28 ottobre di due anni fa, quando si è lamentata che la marijuana non fosse forte. Dopo un po’, li ha fumati,  dietro pressione degli amici. «Ho cominciato a fumare perché non mi vedevo come una persona che poteva essere amata… sono una ragazza, mia sorella avrebbe dovuto agire come una madre che mi cresce e che mi insegna come si indossano gli assorbenti, ma ho dovuto impararlo da me perché vivevo con i miei zii ed ero l’unica femmina», racconta Kitsane, visibilmente angosciata. Kitsane dice che la nyaope influenza il ciclo mestruale e che alcune delle sue amiche hanno delle verruche e altri tipi di infezione nella zona vaginale. «Immaginati di essere una ragazza e non avere mestruazioni per 3 o 4 anni… Cosa mostra ciò su quello che sta succedendo al mio corpo? Il tuo utero si muove e tu finisci per ammalarti di altre patologie», dice. Ndamane: «Abbiamo iniziato a fumare per vari problemi. Non ci sentivamo amate. Alcune di noi sono stressate per colpa dei genitori. Noi ci sentiamo grate perché almeno abbiamo un tetto sulla testa, ma alcune delle altre dormono fuori o su piani di plastica. Ogni volta che scappiamo di casa, veniamo qui». Il “qui�? sopracitato è una piccola baracca che loro chiamano “drug house�? (casa della droga). Qui ci sono tra 15 e 20 uomini ingobbiti, impegnati nel fumare o nel dormire. Come un cordone ombelicale, questa baracca è direttamente connessa alla baracca del loro spacciatore di nyaope. Lui è strategicamente seduto su una sedia con le spalle appoggiate al recinto vicino alla finestra della drug house. È a due passi. La baracca gialla non ha né letti né mobili, solo un gruppo di persone accovacciate per terra che cercano freneticamente qualsiasi pezzo di alluminio ancora utilizzabile per versarci la polvere color avorio prima di riscaldarlo da sotto, aspirare il vapore e subito dopo sballarsi con una sigaretta. «Dormo qui con tutti questi maschi, fortunatamente si sono abituati a me. Sono anche grata perché non pensano a cose malvagie, ad esempio stuprarmi. Mi vedono come una sorella perché fumiamo la stessa cosa», dice Ndamane. Lei sta ancora col suo ragazzo e vivono insieme nella drug house. Dice anche che spesso litigano per la nyaope. Lui è addormentato su un pezzo di cartone sotto il sole e indossa una giacca di pelle nera. Ndamane dice che non rubano, ma poiché vivono con uomini, sono alla mercé di una comunità di cui i membri si fanno giustizia da soli e agiscono per accuse. Kitsane e Ndamane spiegano che pochi giorni, fa hanno perso il loro amico Themba, ucciso in un pestaggio di gruppo. «Neanche quando dormiamo è sicuro. La polizia potrebbe arrivare in qualsiasi momento. Possono venire e ucciderci, accusandoci di furto, oppure potrebbe arrivare la comunità e bruciarci la baracca», dice Kitsane. Kitsane ha fatto avanti e indietro dalla propria casa poiché la sua vita è ormai controllata dalla nyaope. Una volta viveva con sua madre e il patrigno, che hanno altri sei figli. Ogni tanto Kitsane ritorna da loro per un pasto quando ha fame. Deve attendere accanto al cancello e quando le viene concessa l’entrata, subisce abusi o «mi ricordano di qualcosa inutile che ho rubato mesi prima e mi cacciano». Scoppiano in lacrime, Kitsane ci fa sapere che le scarpe che sta indossando sono le peggiori. «Se chiedessi a mia madre di prendermi un paio di scarpe, mi direbbe ‘ormai sei grande, perché non vai a lavorare e te le compri da sola?» dice piangendo. Sua madre l’ha sollecitata a trovare un lavoro così può affittare una baracca sua e procurarsi il cibo da sé. Prima di morire, il padre ha lasciato a lei e ai suoi fratelli una baracca, ma adesso in quella baracca non c’è più spazio per lei. «Io dormo in una drug house per strada, mentre l’amico di mio padre dorme nella baracca che lui aveva lasciato a me e ai miei fratelli», aggiunge. «Se mio padre fosse vivo, non mi farebbe mai raccattare scarpe che altri non vogliono più. Mi comprerebbe tutto ciò che desidero… A volte se ci droghiamo è perché siamo spinti dai nostri genitori… Dopo un tiro, siamo liberi dallo stress non pensiamo più a nient’altro», racconta Kitsane. Nonostante la difficoltà a smettere, le donne affermano che vengono ispirate da coloro che sono riusciti a superare le compulsioni per la droga. Il loro amico Simphiwe Gambu adesso lavora come fruttivendolo a Bapsfontein, ma spesso viene a visitarle dopo lavoro. «Ci sono persone che prima si drogavano ma che adesso hanno la propria macchina. Ci hanno incoraggiati e ci hanno detto che sta a noi a combatterla», racconta Ndamane, affermando che lei stessa ha provato a smettere ben due volte ma ha più impulsi a causa di suo figlio. Una volta sognava di diventare Miss Sudafrica e fare la modella per le brand come Edgars o Jet. Ora però vorrebbe diventare poliziotta o pilota. Anche Kitsane sognava di diventare pilota, ma adesso ha cambiato idea e vuole diventare dottoressa, però dice che da quando sua madre e suo patrigno hanno speso i soldi per le tasse scolastiche, ha perso ogni speranza. «In altri paesi questa droga non è in circolazione perché gli altri governi si rendono conto del male che questa sostanza fa alle persone. Perché il nostro presidente non fa nulla per liberarsi della nyaope? Lui sa che questa droga sta rovinando i giovani, tanti bambini sono morti a causa di questa sostanza». «Non ce la siamo cercate. Quando soffri per le compulsioni è dura  perché puoi persino arrivare a frugare nella borsa di tua madre anche se non vuoi, e senti rimorso solo dopo aver fumato. Ti chiedi perché l’hai fatto, perché in fondo non lo volevi fare. A quel punto hai anche paura di tornare a casa perché hai rubato cento rand per drogarti», dice Ndamane. Sono quasi le 18 e le donne stanno facendo l’ultimo round di spaccio. L’effetto dei tiri del pomeriggio è svanito e sono quasi alla fase del “rost�?, che Kitsane descrive come il momento in cui la brama diventa irresistibile, e accusano sintomi come sudorazione, fatica, vomito di un liquido nero-verdastro, dolore agli occhi, scarso appetito, tosse e dolore terribile alle articolazioni. Diverse volte lei è persino svenuta. Stanno in piedi presso una tabaccheria vicino al semaforo. Mentono dicendo che vogliono comprare del pane. «Questa droga è persino in grado di separarti dalla tua famiglia e dai tuoi cari. Ti porta via tutto e anche il tuo futuro, perché diventi dipendente da questa sostanza che neanche capisci che cos’è», dice Ndamane. Kitsane interviene affermando: «La dipendenza è come nutrire un neonato che non cresce e che non puoi neanche vedere… ti fa regredire. Se mi trovo anche un solo rand, non penso a comprarmi un chewing gum, penso solo a metterlo da parte per accumulare i 25 rand che mi servono per la droga. Immaginare quanto mi ci vorrà». Ndamane: «È vero che adesso fumo, ma Dio mi perdona comunque. La vita va avanti e la ruota gira. Un giorno supererò questa situazione. Un giorno andrò avanti e tutto tornerà a posto. Renderò mio figlio fiero di me».