Alle radici del razzismo: storia politica della discriminazione negli Stati Uniti

Un approfondimento storico sulle origini delle discriminazioni razziali, parte del progetto editoriale Signal, che porta alla luce le frizioni e la complessità delle dinamiche politiche e sociali che attraversano gli Stati Uniti. [Immagine di copertina: illustrazione di Stefano Grassi per TBU]

Le vicende recenti degli Stati Uniti hanno visto la mobilitazione di massa di milioni di persone a sostegno dei diritti della popolazione afroamericana e il rifiuto delle violenze e dei soprusi perpetuati dalle forze dell’ordine (ma non solo) contro di loro, e, dall’altro lato, l’altrettanto esplicita condanna delle proteste da parte di gruppi di destra e di white supremacists. Per comprendere la complessità delle tensioni e delle contraddizioni che investono tutt’ora gli Stati Uniti, la maniera strutturale con cui si radicano nella loro storia, è importante indagare alcune delle loro origini più profonde: tra queste, la schiavitù, il ruolo politico che tale istituzione ha ricoperto per oltre un secolo e il modo in cui, una volta abolita, è continuata ad esistere nella società assumendo nuove forme e sembianze, perpetuando fino ai giorni nostri discriminazioni e diseguaglianze.

Prima di iniziare, una doverosa precisazione: parte della popolazione afroamericana che vive oggi negli Stati Uniti sicuramente discende da quelli che furono schiavi, ma un’assimilazione totale è senz’altro riduttiva ed è una retorica che anche movimenti come il Black Lives Matter sostengono solo fino a un certo punto e solo in determinati termini.

Quello che desideriamo mettere in luce sono gli aspetti storici e istituzionali che fanno delle discriminazioni razziali una componente fondamentale su cui gli Stati Uniti sono nati, si sono sviluppati e hanno costruito la propria fortuna.

Alle origini della schiavitù

Solitamente, si usa ricordare il 1619 come l’anno in cui i primi schiavi giunsero negli Stati Uniti: provenienti dall’Angola, “20 and odd Negroes”, nelle parole di John Rolfe (sì, il marito di Pocahontas), sbarcarono a Yorktown, Virginia. Il 1619 è probabilmente più una data convenzionale che reale e dovettero passare anni perché la schiavitù si diffondesse in maniera capillare e divenisse un’istituzione protetta dalla legge – ricordiamoci che gli Stati Uniti di fatto ancora non esistevano e le colonie si stavano sviluppando autonomamente. Fu un processo graduale ma, un secolo e mezzo dopo, quando le tredici colonie dichiararono la propria indipendenza dal Regno Unito e diedero vita alla nuova nazione, la schiavitù si era già trasformata in una colossale macchina economica, spinta ulteriormente dall’inizio della Rivoluzione Industriale nel Vecchio Continente. Gli schiavi venivano prevalentemente impiegati nelle piantagioni degli Stati del sud: di riso, canna da zucchero, tabacco e poi soprattutto cotone, che divenne la loro principale esportazione, altamente richiesta nel Regno Unito.

Fonte: Library of Congress

Al momento dell’indipendenza (1776), vi erano ormai circa un milione di schiavi e la loro importanza nell’economia degli Stati meridionali era divenuta così fondamentale che la questione della schiavitù finì per ricoprire un ruolo cardine nella costruzione dei nuovi Stati Uniti d’America.

Alla Convenzione di Philadelphia del 1787, dove i delegati di ogni stato si incontrarono per scrivere una nuova Costituzione che desse stabilità alla neonata nazione, la questione della schiavitù fu al centro di aspri dibattiti: il nord vi era opposto, ma gli Stati del sud riuscirono abilmente ad ottenere ampie tutele per la loro “peculiar institution”, esplicitamente inserite nel testo costituzionale.

Gli Stati del sud ottennero inoltre che fosse loro consentito conteggiare, ai fini della ripartizione del numero dei delegati alla House of Representatives (la Camera bassa del Congresso), tre quinti degli schiavi impiegati in ognuno di essi (art. 1, sezione 2).

La Costituzione, pur non esprimendosi in maniera esplicita sull’approvazione della schiavitù, gettava così le basi di quello slave power che sarebbe diventato fondamentale nelle vicende del secolo successivo e radicava la schiavitù fin nel nucleo legislativo della nazione.

Gli anni dell’espansione verso ovest

Vi era una diffusa convinzione tra i politici del nord che la schiavitù sarebbe semplicemente incorsa in una morte naturale, scomparendo da sola nei decenni successivi. Ciò, naturalmente, non accadde, ma finì anzi per rafforzarsi sempre di più. Il numero di schiavi crebbe esponenzialmente (alla vigilia della guerra civile sarebbero stati 4 milioni), andando a esasperare i contrasti tra nord e sud, soprattutto con l’inizio del processo di espansione verso ovest che portò all’annessione di una serie di nuovi Stati. Il dilemma era tanto ovvio, quanto potenzialmente esplosivo: poteva la schiavitù diffondersi in questi territori o dovevano invece essere ammessi come Stati liberi?

Al centro di tutto vi era il precario equilibrio del potere federale: gli Stati del sud stavano accumulando sempre più potere, arrivando ad avere un controllo quasi totale sui tre rami del governo. Ogni nuovo stato schiavista ammesso all’Unione significava l’ingresso nel Congresso di ulteriori due senatori e di una manciata di rappresentanti favorevoli al perpetuarsi della schiavitù. La minaccia di ritrovarsi in minoranza, incapace di difendere i propri interessi, divenne per il nord sempre più reale.

Vignetta satirica raffigurante i contrasti politici a metà ‘800: i quattro candidati alle elezioni presidenziali del 1860 (Abraham Lincoln a sinistra) fanno a pezzi la mappa degli Stati Uniti.
Fonte: Library of Congress.

Una parentesi importante: da cosa derivavano i contrasti tra nord e sud in fatto di schiavitù?

Non era, come si potrebbe pensare, un contrasto in termini morali. O meglio, lo era solo per alcuni, per il movimento abolizionista che andò sviluppandosi durante il diciannovesimo secolo e si diffuse soprattutto tra i cosiddetti Radical Republicans. Per lo più si trattava invece di un contrasto tra modelli di stato diversi e sistemi economici considerati incompatibili. Mentre l’economia del sud, trainata dall’agricoltura, cercava nuovi terreni da coltivare, il nord aveva sperimentato un processo di industrializzazione e si basava sull’ideologia del free labour, sull’idea che tutti dovessero poter godere dei frutti del proprio lavoro e che fosse la possibilità di migliorare le proprie condizioni di vita il vero motore dello sviluppo economico e sociale. La schiavitù e la sua espansione nel continente, viste come una minaccia per la libertà, l’uguaglianza e la democrazia, erano considerati inconciliabili con questa visione. L’incubo, per il nord, era di vedere gli Stati Uniti degradarsi a “livelli europei”: lo spettro che aleggiava su di loro era quello di città come Londra e Manchester, invase da una massa di poveri sfruttati da una minuscola aristocrazia industriale.

Mappa degli Stati Uniti nel 1856: in grigio gli stati schiavisti, in rosso gli stati liberi e in verde i territori in attesa di ammissione.
Fonte: Library of Congress

Con il passare dei decenni la contesa prese sempre più le sembianze di uno scontro tra ideologie, in cui anche al nord i diritti degli schiavi divennero uno strumento di lotta politica, più che un obiettivo morale. Tutta la prima metà del diciannovesimo secolo vide un lungo tentativo di tenere insieme l’Unione per mezzo di compromessi sempre più precari. Stephen A. Douglas, fautore del Kansas-Nebraska Act del 1854, alla metà del secolo, promosse una sistemazione basata sull’idea che fosse giusto lasciare ai nuovi territori la scelta di consentire o meno la schiavitù. Le conseguenze furono drammatiche: in Kansas, i violenti scontri tra schiavisti e abolizionisti durante il processo di ammissione del nuovo Stato all’Unione, gli fecero guadagnare l’appellativo di Bloody Kansas (o Bleeding, sanguinante).

Un evento emblematico: la sentenza Dred Scott

Alla metà dell’Ottocento, uno schiavo, Dred Scott, tentò di ottenere la libertà. Il caso venne esaminato dalla Corte Suprema, che sostenne le prerogative dei suprematisti bianchi, affermando che la Costituzione non si applicava agli schiavi e che questi non potevano diventare cittadini degli Stati Uniti. Agli occhi di molti, nel nord, fu la prova di quanto profondamente il potere schiavista fosse penetrato nelle strutture del potere.

Fronte: U.S Reports. Dred Scott v. Sandford (1856)
In basso, ritratto di Dred Scott e della moglie, in alto le loro figlie.
Fonte: Library of Congress

La guerra civile americana: un esito inevitabile

La guerra civile americana rappresentò l’esito pressoché inevitabile di questo processo. Fu proprio la questione della schiavitù, il ruolo di questa moltitudine nella società e soprattutto l’uso che la politica e la società stessa ne facevano, a far esplodere il conflitto. Gli Stati del sud, per proteggere le proprie istituzioni da un nord sempre più intenzionato a eliminarle, scelsero la via della secessione e il nord, guidato da Abraham Lincoln, rispose con una sanguinosa guerra, destinata a durare cinque anni.

Tra gli eventi più importanti di questo periodo, fondamentale fu l’Emancipation Proclamation del 1 gennaio 1863, con cui Lincoln stabilì la liberazione degli schiavi degli Stati confederati. Il significato simbolico fu enorme, ma si trattava comunque di un provvedimento preso nel contesto della guerra, un atto soprattutto strategico e militare, pensato per mettere in difficoltà il nemico. Si applicava solo agli Stati secessi e non agli altri, pur schiavisti, che erano rimasti leali all’Unione. La schiavitù era inoltre codificata da leggi statali che dovevano essere abrogate. Motivo per cui, nel 1865, fu necessaria l’approvazione di un emendamento, il 13°, che faceva dell’abolizione della schiavitù un provvedimento costituzionale e ne decretava la fine, per sempre e ovunque.

Ma già qui sorsero le prime contraddizioni: la schiavitù era sì abolita, ma il testo prevedeva un’esplicita eccezione.

Neither slavery nor involuntary servitude, except as a punishment for crime whereof the party shall have been duly convicted, shall exist.

La schiavitù poteva quindi continuare ad esistere quale punizione per un crimine. Su questa ipotesi, nei decenni a venire, si baserà il diffondersi della pratica del penal labour.

Dopo la guerra civile: il fallimento di una potenziale rivoluzione

La guerra civile americana avrebbe potuto significare un cambiamento epocale per la società statunitense. E in un certo senso lo fu: i cosiddetti Reconstruction Amendements, il 13°, 14° e 15°, portarono all’estensione dei diritti di cittadinanza, di voto e di tutela a tutti gli americani, a prescindere dalla “razza” o dal colore della pelle. Furono cambiamenti sostanziali, che riscrissero una nuova forma di cittadinanza e apportarono significative novità nella stessa Costituzione, innovando il rapporto tra governo federale, stati e cittadini, al punto che da essere considerata da alcuni una sorta di second founding, una seconda fondazione degli Stati Uniti.

Vignetta satirica raffigurante Andrew Johnson.
Fonte: House Divided: The Civil War Research Engine at Dickinson College

Le potenzialità innovatrici di questi provvedimenti furono però ostacolate fin da subito dal Presidente che successe a Lincoln, Andrew Johnson, che vi si oppose ferocemente, ponendo peraltro il veto ad una serie di proposte di legge presentategli dal Congresso. Tra queste, il Civil Rights Act del 1866, che istituiva lo ius soli e prevedeva che chiunque nascesse negli Stati Uniti ne fosse legalmente un cittadino.

Lo fece sulla base della “discriminazione inversa”, ovvero l’idea che il Congresso non avesse mai promosso simili tutele per i bianchi e che fosse quindi ingiusto e discriminatorio farlo invece per i neri.

In all our history, in all our experience as a people living under Federal and State law, no such system as that contemplated by the details of this bill has ever before been proposed or adopted. They establish for the security of the colored race safeguards which go indefinitely beyond any that the General Government has ever provided for the white race. In fact, the distinction of race and color is by the bill made to operate in favor of the colored against the white race.

Trascrizione del messaggio di Andrew Johnson, 27 marzo 1866. Fonte: Miller Center

Secondo lo stesso ragionamento Johnson si oppose a misure come il mantenimento in vita del Freedmen’s Bureau, un’agenzia federale fondata da Lincoln per assistere gli ex-schiavi nella transizione. Queste pratiche alimentarono una generale resistenza delle istituzioni federali all’assistenzialismo nei confronti delle fasce più vulnerabili della popolazione, resistenza destinata a durare nel tempo.

Con il Reconstruction Act del 1865, Johnson cercò di trovare una sistemazione per il sud, stabilendo la procedura per la riammissione degli Stati secessionisti. Ma gli elettori del sud, al momento di nominare i nuovi parlamenti statali, votarono ancora una volta per ex confederati. Nonostante i tentativi di Washington, nonostante l’imposizione dell’occupazione militare da parte delle truppe dell’Unione fino al 1877, i suprematisti bianchi riuscirono comunque a ritrovare spazi di azione e a tornare al potere.

Gli schiavi avevano guadagnato la libertà, potevano avere una propria casa, un proprio lavoro, potevano viaggiare, potevano decidere di cambiare il proprio nome e assumerne uno nuovo. Potevano votare ed essere eletti nelle istituzioni, ma dovettero scontrarsi con la profondità della stratificazione sociale su base razziale e con la violenza di nuovi gruppi terroristici come il Ku Klux Klan, che proprio in questo periodo mosse i primi passi nelle aree rurali del sud.

The rights which they were intended to guarantee are denied and held in contempt. The citizenship granted in the fourteenth amendment is practically a mockery, and the right to vote, provided for in the fifteenth amendment, is literally stamped out in face of government. The old master class is to- day triumphant, and the newly- enfranchised class in a condition but little above that in which they were found before the rebellion.

Frederick Douglass (ex schiavo, politico, abolizionista, primo afroamericano candidato alla vicepresidenza), 1880. Fonte.

Questi sviluppi comportarono il passaggio dalla schiavitù a una nuova forma di discriminazione, che sarebbe rimasta in vita per oltre un secolo: il segregazionismo. Emersero una serie di nuove pratiche a limitare i diritti degli afroamericani (restrizioni al diritto di voto o all’accesso a determinate professioni, ad esempio) o a mantenerli fisicamente separati dai bianchi. Pratiche come il redlining, che abbiamo approfondito qui, hanno concorso a perpetuare le discriminazioni fino ai nostri giorni, nonostante l’attivismo, durante tutto il Novecento, delle comunità afroamericane nel tentativo di difendere le proprie prerogative e la nascita di movimenti, come quello per i diritti civili negli anni ’60, che hanno messo in discussione lo status quo e portato all’attenzione internazionale i soprusi perpetuati nei confronti della popolazione nera.

Fonte: Library of Congress

Che cosa significa tutto questo? Che la discriminazione razziale negli Stati Uniti è un fatto con radici storiche incredibilmente profonde e che per secoli ha costituito una prassi legale e istituzionale, ritenuta da molti utile, giusta e addirittura necessaria per la prosperità della nazione. Una pratica da difendere con le armi e da proteggere da ogni tentativo di riforma. Fin dalla nascita degli Stati Uniti, vi sono state persone private di qualsiasi diritto, al punto da essere considerate “proprietà”, e le battaglie, che certamente hanno portato a sviluppi in positivo, hanno comunque lasciato retaggi e contraddizioni con cui la società americana è ancora oggi chiamata a fare i conti. Capire questi processi, queste radici è essenziale per comprendere gli Stati Uniti odierni, che non sono, né mai sono stati, il luogo di libertà e speranza che la retorica del sogno americano ha voluto narrare. O se così è stato, questo non è sempre valso per tutti.

Alessia Biondi

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