C’è chi propone di far ripartire le proiezioni all’aperto in estate, in modalità drive-in. Chi, come il Teatro La Scala di Milano, ha fissato per settembre il debutto della nuova stagione, chi ipotizza la ripresa della stagione teatrale per Natale, chi ancora guarda con desolazione a marzo 2021. Questo anno zero per la cultura e lo spettacolo si ripercuote drammaticamente sui destini di decine di migliaia di operatori e lavoratori che con la musica, con la fotografia, con il teatro ci vivevano e che da oggi non sanno se potrà più essere così.
Come ha già spiegato amaramente il musicista e giornalista Giacomo Gelati, “ciò che preoccupa non è tanto la condizione corrente, quanto gli scenari che si apriranno. Quando sarà possibile rivedere gli artisti su un palcoscenico? Quali misure di sicurezza verranno adottate per la riapertura dei locali? L’emergenza e la crisi economica inficeranno sui cachet degli artisti? Ci sarà uno sgonfiamento dei prezzi? Qualche artista potrebbe pensionarsi? Chi resisterà al colpo di coda del virus?”
Parlare di “crisi dei teatri” non dev’essere un’astrazione. È la crisi di una fetta di mercato culturale e, di conseguenza, di chi vi è impiegato e impiegata. Almeno 200.000 sono solo gli “intermittenti” dello spettacolo, persone che sono rimaste escluse dal DL 18/2020 “Cura Italia”, ma i numeri sono molto più alti e più fumosi.
“Nessun datore ha rispettato la Legge sui Licenziamenti per interrompere i contratti. I lavoratori hanno avuto semplici comunicazioni via e-mail, nel migliore dei casi sottoscritte dai Presidenti degli enti per cui lavoravano, in rari casi inviate tramite raccomandata, o addirittura tramite comunicazione orale o messaggi whatsapp, addirittura alcuni hanno ricevuto l’Unilav che non ha alcun valore, se non amministrativo. Inoltre, si evidenzia, ancora una volta, che per gli scritturati con Partita Iva non c’è alcuna tutela, nonostante svolgano il lavoro allo stesso modo dei subordinati. In moltissimi casi, i contratti non erano ancora stati sottoscritti e non si sa cosa impugnare, in nome dell’impegno preso (è un problema gravissimo che sia spesso la regola firmare i contratti solo al primo giorno di prove). Un pensiero solidale va anche a chi ha già svolto, senza retribuzione, la parte autorale di uno spettacolo: registi, drammaturghi, scenografi, costumisti, light e sound designer, etc”.
Carlotta Viscovo, attrice e Coordinatrice Nazionale della Sezione Attori del sindacato SLC-CGIL
Musicisti, tecnici, fotografi, videomaker, fonici, organizzatori di eventi, social media manager: vite in ostaggio del coronavirus, che ha tolto loro non soltanto il lavoro, ma anche la possibilità di immaginare una ripartenza. Queste sono – alcune – delle loro storie.
Federica, 23 anni, studentessa e musicista

Questa quarantena per me è un momento di ricerca. Per scelta ho deciso di affrontare queste giornate, che per la loro natura porterebbero alla totale inedia, facendo un grande lavoro di su di me e sulla mia attività artistica. Divoro libri, ascolto musica e continuo a seguire regolarmente le lezioni settimanali di viola a distanza dal Conservatorio di Maastricht, in Olanda, dove sono iscritta al primo anno di Master in Music Perfomances. Possiamo ottimisticamente parlare di un momento di lavoro personale che sarà presto bello condividere con altri. Almeno così mi auguro, e questo è l’aspetto che mi preoccupa.
Purtroppo la categoria degli artisti è tra le più colpite di questo drammatico momento. Tutti i concerti, i festival, gli eventi, le rassegne sono bloccate e rimandate a date di destinarsi. Personalmente avevo in programma diverse tournée sia in Italia e all’estero che sono saltate, situazione che ha portato a zero le entrate economiche. Diverse audizioni poi sono state rimandate, in Italia, mentre alcune orchestre del Nord Europa si sono riorganizzate promuovendo audizioni e selezioni online. Senza audizioni, la possibilità di riprendere a lavorare è ancora inferiore.
È molto difficile pensare a delle prospettive per il futuro, e noi musicisti sentiamo la grande necessità di essere rappresentati in questo Paese. Stiamo vivendo un periodo drammatico e la cultura non può passare in secondo piano. È giunto il momento in cui tutti e tutte possano, e debbano, capire quanto sia fondamentale. Proviamo a pensare – senza cadere nel tranello di ritenerla solo retorica o abuso del termine per fini personali – a quanto sia stata presente l’arte in questi mesi. Abbiamo visto film, ascoltato musica, letto libri: questa è arte. Per la prima volta tutti gli artisti e tutte le artiste sono sulla stessa barca: dai grandi nomi ai precari non tutelati, tutti siamo senza prospettive. Per questo trovo sia fondamentale, almeno per i musicisti, federarsi per trovare un posto nella società e far sentire la propria voce in maniera chiara e univoca. Creando un gruppo di appartenenza è molto più facile portare delle idee concrete e sane per una prossima ripartenza. Perché i concerti su Netflix (prospettati dal Ministro Franceschini, ndr) possono essere un’opzione, ma non sono di certo il futuro concreto dello spettacolo dal vivo.
Alice, fotografa di spettacolo

Tra gennaio e febbraio mi stavo occupando di due cose in particolare: un reportage all’interno delle scuole (istituti socio sanitari) per una serie di laboratori creativi e di integrazione e un reportage sociale per la riqualifica di un quartiere (interagendo con gli abitanti, non solo dal punto di vista architettonico). Poi in programma ci sarebbero stati gli appuntamenti primaverili a teatro, da Dedica al Far East Film Festival, da Vicino/Lontano alla La notte dei Lettori. Insomma, avrei dedicato la primavera al reportage culturale in situazioni di assembramento, quindi non faccio proprio un bel niente dall’ultima settimana di febbraio. Faccio parte di una filiera dimenticata, inoltre sono l’ultima ruota del carro perché la fotografia è talmente cambiata e ancora in divenire, da rendere sfocata la stessa definizione del mestiere.
Questi giorni penso all’evoluzione di questo mestiere, che avrà sempre più bisogno di essere subordinato ad altro (storytelling, social media, advertising), penso a riesumare i miei flash da studio per fare still life; penso a quanto i progetti personali possano tornare a galla per essere venduti, magari, come si faceva una volta, quando prima si scattava e solo in un secondo momento si vendeva. Invece oggi (si, ieri l’altro), come prima cosa è necessario stipulare un contratto – quindi vendere la propria creatività – e poi fotografare. Ci vogliono respiri profondi, positività e ambizione. È necessario pensare che non sia la fine del mondo e soprattutto dell’immagine, della comunicazione visiva: quella non non morirà mai.
Stefano, 30 anni, videomaker
Mi occupo di video, prevalentemente coperture di eventi e dirette con regia multicamera, a volte documentari e qualche video aziendale. Cosa è successo? Noi abbiamo iniziato a chiudere prima degli altri settori, basti pensare che il 23 febbraio è saltato il primo spettacolo. E poi i teatri, uno dopo l’altro, hanno chiuso tutti. Ed è da quel momento che siamo bloccati anche noi. Ma fortunatamente sono più di dieci anni che faccio anche dirette web in streaming, e così molti clienti hanno iniziato a contattarmi per questo tipo di servizi – realtà culturali, teatrali e dello spettacolo. Dopo le prime due/tre settimane di blocco, si è rivelato un lockdown abbastanza pieno. È anche vero che in quelle stesse settimane sono arrivate circa l’80% delle disdette per gli eventi in calendario. Di queste, un buon 95% è stato poi totalmente annullato del tutto, mentre solo il 5% è ancora in forse, ma non si sanno date e nient’altro.
Nell’ultimo mese abbiamo fatto ben 15 dirette streaming e la speranza è di continuare a farne altrettante (o almeno 8/10) da remoto e poter incrementare il fatturato e ricominciare a coinvolgere i collaboratori che in questi mesi sono rimasti a casa. Abbiamo in programma ancora dirette con alcuni festival, qualche montaggio di approfondimenti con materiali video già esistenti e, nel frattempo, immaginiamo qualche idea nuova, specifica per il mondo dello spettacolo “a distanza”. Non penso, infatti, che prima della primavera del 2021 potrò davvero riprendere a pieno regime la mia attività. Le prospettive non sono rosee: quest’anno poteva essere buono, ora la parola d’ordine è diventata sopravvivere, reinventarsi e consolidare.
Sabrina, 27 anni, tirocinante alla Commissione Europea

Al momento sono una tirocinante retribuita presso la Commissione Europea a Bruxelles, un’esperienza che è partita a fine febbraio con un tempismo perfetto. Quando la pandemia sembrava essere confinata solo al territorio italiano, la Commissione aveva dato semplici indicazioni: chi era stato nella zona rossa durante il mese di febbraio (l’area del lodigiano e di Vo’ Euganeo in Veneto) avrebbe dovuto passare la quarantena di 14 giorni a casa prima di poter tornare in ufficio. La situazione si è aggravata nella prima metà di marzo e qui il lockdown è stato dichiarato il 13. È stato presto deciso che anche gli uffici della Commissione avrebbero dovuto chiudere e quasi tutti i dipendenti hanno iniziato a lavorare da casa. Dico quasi tutti perché circa il 4% ha dovuto continuare ad andare in ufficio: si tratta del “critical staff” che non può svolgere il proprio lavoro da casa.
La transizione è stata molto semplice perché tutti, compresi noi tirocinanti, sono forniti di un computer portatile, il corporate laptop, che si collega alla rete della Commissione e ha già tutto il materiale sul pc. Adesso si sta pensando di passare a una “Fase 1” con un progressivo ritorno in ufficio, ma non ci sono previsioni certe. La parte di lavoro, anche per noi tirocinanti, sta proseguendo anche bene: ci si sente settimanalmente via Skype per mantenere il work flow e riceviamo regolarmente comunicazioni dall’HR Department. Però non mancano anche dei problemi e dei limiti.
Prima dell’inizio del lockdown, infatti, avevo passato in ufficio una sola settimana, non ero ancora stata davvero inclusa nel flusso lavoro e la parte più difficile è relazionarsi con i colleghi senza conoscersi né essersi mai visti. L’interazione umana è quello che manca di più, e forse per i dipendenti è stato più semplice. Inoltre, sempre come tirocinanti, stiamo perdendo anche alcuni aspetti formativi fondamentali: è vero che il lavoro prosegue, ma mancano i meeting in cui imparare anche il galateo delle riunioni delle istituzioni, i seminari di formazione che ora sono tutti online, l’aspetto delle relazioni e il networking. Ad ogni modo, la Commissione circa una settimana fa ha dato la possibilità, per chi vuole, di ritornare a ottobre per svolgere altri cinque mesi di tirocinio e “completare” l’esperienza. Ovviamente solo se le condizioni lavorative torneranno alla normalità.
Neera, operatrice culturale

Sono un’operatrice culturale, lavoro principalmente con l’associazione di Forlì Città di Ebla, con la quale seguo il festival di arti performative Ipercorpo; da gennaio 2020 – poco prima della pandemia – avevo iniziato a occuparmi del coordinamento delle attività di comunicazione e promozione di un centro culturale forlivese, EXATR. E infine seguo progetti di didattica teatrale per il Comune di Cesena, la mia città. In questo momento sono in cassa integrazione, perché assunta a tempo indeterminato da Città di Ebla, quindi è grazie a loro se non mi definisco “una lavoratrice a rischio”. Ma tutti gli altri progetti, come quello finanziato dal Comune di Cesena, sono posticipati a data da destinarsi. E questo è un problema non da poco per chi non può contare su un’altra entrata fissa, come nel mio caso. Perché il rischio è che questi lavori non vengano retribuiti, non potendoli concludere e rendicontare, perciò è chiaro che nonostante le dichiarazioni di sostegno del Ministero della Cultura o di Emilia-Romagna Creativa, navighiamo a vista.
Sono molto contenta che dal 18 maggio vengano riattivati luoghi di cultura – musei, mostre e biblioteche – ma non è stata fatta chiarezza rispetto a quando si ricomincerà a programmare eventi e spettacoli. C’è chi dice che i teatri riapriranno nel 2021, chi spera che si possa ricominciare da settembre. Siamo paralizzati, e attenzione: non significa che non stiamo facendo nulla, perché il dialogo con gli artisti continua, si sta ragionando ad esempio sulle nuove modalità di partecipazione (e su questo gli artisti del contemporaneo hanno sempre tante idee, a dimostrazione del fatto che sono pronti a cambiare rotta per adattare i propri lavori al tempo presente). Ma la preoccupazione di fondo è che non si possa proprio riaprire. Capite che, a fronte di una progettazione che può durare anche un anno, un anno e mezzo, questo è tutto lavoro perso. E se penso alle voci che si sono alzate all’annuncio che non avrebbero riaperto i luoghi di culto, noto che per il nostro settore c’è molto, troppo, silenzio.
In conclusione, se dovessi guardare al mio “orticello”, direi che in questo momento di incertezza sono fortunata, perché tutto sommato so come arriverò alla fine dell’anno. Riesco a rimodulare il mio lavoro sui tempi dettati dall’emergenza sanitaria. Più in generale, ora la priorità è garantire la ripresa economica del Paese, perché la cultura vive attraverso lo Stato e i finanziatori – quindi aziende private, sponsor – che devono riprendere a lavorare. Ma non dimentichiamoci che ci trovavamo già in una situazione critica – pensiamo a chi dice che lo facciamo solo per passione e non perché abbia un valore in termini economici – e adesso più che mai i nodi vengono al pettine. Annullando tutti questi eventi, moltissime persone perderanno (sempre che non sia già successo) il loro lavoro, che era però già precario. Più in basso di così non si può andare. Chissà che questa crisi non rappresenti un punto di svolta decisivo, una presa di coscienza di quanto possa mancare una cosa quando non c’è più, come la cultura.
Angela Caporale e Roberta Cristofori