In un piccolo spiazzo del paesino di Caprile, lungo la Strada Regionale 203 che collega la Valbelluna ai 16 comuni dell’Agordino, alcuni bambini giocano a pallone proprio dove io accosto con l’auto. Calciano la palla contro una parete di mattoni, un gioco che tutti noi da piccoli avremmo fatto un centinaio di volte. I bar contano la solita clientela possibile durante i periodi di bassa stagione: i 205 residenti. Tutto è tranquillo, ovattato. La montagna sembra essere fatta di silenzi, alberi caduti e tornanti vuoti.
È autunno, il 24 ottobre. Questa mattina sono partito tardi, un po’ per causa mia (avevo del sonno da recuperare) e poi perché parte di me aveva paura. Non sapevo cosa avrei trovato lì. I telegiornali li avevo visti, sì, ma le notizie apparivano come distanti e lontane, separate dai quasi 200 km che dividevano il mio mondo da quello. Eppure, oggi quelle due realtà entravano in contatto e io provavo una specie di riguardo religioso verso il luogo che stavo per andare a visitare. Io, profano, stavo per entrare in un luogo sacro, che esigeva un rispetto che non sapevo se sarei riuscito a portare.
Erano due anni che non tornavo in quelle montagne: Capodanno 2018, c’era la neve. Il mio ultimo ricordo era una fotografia idilliaca che però da lì a poco avrei sostituito con un’immagine nuova. Lungo la strada ci ho riflettuto, questo pensiero era davvero egoista.

Salgo in macchina sulle 10:30, imposto il navigatore e parto. Arrivo ad Agordo all’ora di pranzo, senza aver fatto pause lungo la strada. Mi fermo ad un ristorante dov’ero già andato altre volte in compagnia, questa volta però entro da solo. Sfoglio il menù per circa un’eternità e alla fine decido di ordinare una pizza che è la cosa che costa meno.
Aspetto il mio piatto e nell’attesa rubo il giornale locale da un altro tavolo. Inizio a sfogliarlo, convinto di trovare ciò che cercavo. Arrivo alla fine: niente. Nessuna notizia su ciò che un anno prima aveva sconvolto l’intero territorio. Il 24 ottobre 2018 a Taibon Agordino un albero cadde sui tralicci dell’alta tensione scatenando il più grande incendio registrato in Veneto negli ultimi 10 anni. In due giorni, complice il caldo di quel mese e il forte vento che soffiava, erano bruciati tra i 600 e 700 ettari di foresta.
Ma sul giornale non c’era nessun richiamo all’evento e neanche ai più tragici giorni successivi.
Chiudo il quotidiano e la cameriera interrompe i miei pensieri portandomi l’ordine, mangio in silenzio, scrivo qualche messaggio e mi preparo a ripartire.
Una volta in auto guido per altri trenta minuti verso Nord. Il paesaggio inizia a cambiare, gli alberi a scomparire.

Il 26 ottobre 2018 la pioggia iniziò a scendere dopo l’incendio dei giorni precedenti. Si trattò di una perturbazione di origine atlantica, alla quale si aggiunse un vento caldo di scirocco che portava con sé un inferno ancora peggiore. La pioggia si trasformò in alluvione con raffiche di vento che sfiorarono i 200 km/h. Tra il 27 e il 29 ottobre scesero 715,8 mm d’acqua. La stima degli alberi caduti è stata di 14 milioni in tutto il Nord-est. I danni stimati in 3 milioni di euro: suddivisi tra Veneto (la regione più colpita), Friuli-Venezia Giulia, Trentino-Alto Adige e Lombardia.
L’evento prese il nome di Vaia, ed è stato uno dei più potenti eventi atmosferici che si sono abbattuti sull’Italia. Come sottolineato dall’Unità di Crisi attivata dalla Regione Veneto, il maltempo di quei giorni ha superato in intensità le alluvioni del 1966 e del 2010.

Proseguo verso la frazione di Boscoverde, meta che mi è stata suggerita da Alessandro, un ragazzo nato e cresciuto tra quelle montagne. Capisco anche il motivo per cui abbia deciso di indicarmi quel posto. Dagli audio che ci eravamo scambiati i giorni prima non mi sarei mai potuto immaginare nulla. «Come se fosse passato un pettine!», mi dice. Eh, sì.
Per strada non incontro nessuno e decido di entrare nell’unico bar aperto, per scambiare due parole con qualcuno. Mi sento in colpa come mai a voler fare domande a persone che con difficoltà stanno cercando di rifarsi una vita. Persone che si sono viste portare via e distruggere la casa dalla tempesta e che hanno subito danni che nemmeno immagino. Persone che farebbero volentieri a meno della mia presenza lì.
Apro la porta in legno massiccio ed entro. Ordino un caffè alla barista. Potrebbe avere cinquanta come sessant’anni, ma non importa. Se sei dietro il bancone in bassa stagione, significa che la tua vita è lì.
Mi racconta che la sua casa è stata allagata durante la notte della tempesta, la cantina del bar persa completamente e abbia dovuto buttare tutto. È contenta che i suoi figli ora non vivano più lì, perché ormai non c’è più nulla.
Le sue parole sono pregne di nostalgia, per una montagna, che forse morirà con la sua generazione.

A distanza di un anno, la ferita è ancora aperta. I lavori di smaltimento del legname sono fermi, se dovessero riprendere oggi, togliendo gli alberi abbattuti, ci sarebbe il rischio di valanghe e caduta sassi, in quanto sono un “paravalanghe naturale” e per questo intoccabili, come ricorda Andrea De Bernardin, sindaco di Rocca Pietore, comune tra i più colpiti della tempesta Vaia.
Dall’altro lato però, gli alberi che non verranno rimossi marciranno o saranno vittime di parassiti infestanti come il bostrico dell’abete rosso. Gli esperti stimano che ci potrebbero volere tre anni per togliere dai boschi tutto il legname abbattuto, dopodiché il materiale sarà talmente deteriorato da non essere più utilizzabile.
Tra gli esempi positivi, 350.000 abeti tra quelli abbattuti sono stati acquistati dalla Duferco Biomasse di Cuneo per essere venduti al mercato orientale. Mentre 16.500 sono stati adottati sul web da un crowdfunding di cittadini, istituzioni e privati di tutta Italia per la rigenerazione della superficie boschiva.
Finora, gli alberi raccolti sono stati quelli più vicini alle strade, sia perché più facilmente accessibili sia per la messa in sicurezza dei centri abitati, mentre per la rimozione del legname nelle aree interne i lavori partiranno nella primavera del 2020, con la stagione calda.

La comunità scientifica del settore è prevalentemente d’accordo sul fatto che il ripopolamento della vegetazione delle zone colpite dalla “tempesta Vaia” dovrà avvenire solo in parte ad opera dell’uomo e nella maggior parte dei casi invece si dovrà fare affidamento sulla capacità della foresta di ricostituirsi naturalmente. Ricreare una monocoltura creerebbe problemi, mentre i boschi misti, non solo per composizione delle specie ma anche per struttura ed età – come sono quelli che crescono naturalmente – di fronte alle raffiche di vento, interrompono l’effetto domino delle piante che cadono l’una sull’altra, come spiega Gherardo Chirici, professore di Inventari Forestali e Telerilevamento all’Università di Firenze su Linkiesta.
Ci vorranno dai 10 ai 15 anni perché tutto torni come prima.
Ripercorro la strada al contrario, torno a casa, col magone per una montagna così deturpata e malinconico perché consapevole che questi eventi sono solo in parte dovuti a cause naturali.
Nel 1827 Leopardi scriveva di una Natura ineluttabile, che agisce incurante della vita umana. Ma quando alluvioni del calibro di Vaia si verificano, dovremmo chiederci se in mezzo a tutto a quel vento e pioggia e distruzione non ci sia anche una parte di nostra responsabilità. Trascuratezza nelle opere idrauliche e nella pianificazione del territorio, indifferenza al contesto delicato della montagna che deve essere tutelato. Parte di una profonda lacerazione con l’ambiente, l’essere umano è tanto complice del cambiamento climatico quanto degli squilibri ecologici.
La violenta tempesta che ha devastato il Triveneto ha preso il nome di: Vaia. L’Istituto di Meteorologia della Freie Universität di Berlino dà la possibilità di pagare per assegnare in maniera casuale il proprio nome a un evento meteorologico. L’occasione, il regalo di un fratello alla sorella. Ho cercato l’etimologia del nome online e il significato che mi piace di più è quello dato da questo sito statunitense: “purple flower”.
Un ringraziamento ad Alessandro, per i consigli dati e i suggerimenti sulle zone colpite.
Matteo Brugnolo
Le foto sono tutte state scattate dall’autore.
L’articolo è diventato anche audio grazie al podcast Caro Amico Ti Spiego. Puoi ascoltare l’episodio su Vaia, qui.