L’ultima frontiera del capitalismo cognitivo: l’europrogettista

I fondi europei hanno avuto un ruolo chiave nello sviluppo del terzo settore italiano. O almeno così dicono. Gli aiuti economici sono spesso un volano per le attività più disparate svolte da enti, associazioni e soggetti giuridici di ogni tipo. Lavorare per progetti e, in particolare, lavorare per progetti europei richiede una buona preparazione e una massiccia dose di resilienza nell’accettare le bocciature. Scrivere un progetto europeo non è per niente facile e quella dell’europrogettista è una figura professionale sempre più strutturata e in ascesa.

Benvenuti nell’Europelago*

Andare a caccia di fondi (fundraising) è diventato un mestiere, alla luce delle grandi opportunità proposte dall’Unione, tra le quali, le più recenti, sono i numerosi bandi offerti in Horizon 2020 (il pacchetto comunitario di 80 miliardi per la ricerca e l’innovazione) o quelli di Erasmus Plus. Oltre alla ricerca del bando adatto alle esigenze del proprio datore di lavoro, l’europrogettista ha il compito di occuparsi dell’ideazione e della stesura del progetto, oltre che della sua gestione, rendicontazione e della costruzione di partenariati con altre realtà UE.

Un opaco ritratto

L’europrogettista è un lavoratore che ha il compito di ricercare i fondi europei e destinarli ai progetti che fanno al caso di aziende, amministrazioni pubbliche ed enti di vario genere, realtà che hanno sempre bisogno di fonti di finanziamento diversificate per sostenere le proprie attività. Può lavorare in proprio (libero professionista), essere un lavoratore subordinato al proprio datore (cosidetti europrogettisti in-house) e possedere il compito di progettazione sui bandi europei. Gli attuali europrogettisti lavorano spesso per conto di enti pubblici, organizzazioni no-profit e Project Management Institute. Si tratta di lavoratori classificati a vario titolo, autonomi, o impegnati a progettare non per sé stessi o per la propria Impresa, ma anche per conto di terzi. È innegabile il valore di un contributo europeo per un ente che si ritrova in momenti di crisi economica o difficoltà di accesso ad altri tipi di credito: una possibilità di sviluppo invidiabile, ma che spesso costringe a spremere le energie dei propri dipendenti varando le loro mansioni proprio sulla progettazione comunitaria.

Negli ultimi anni si è sviluppata una pletora di corsi, master e altre formule didattiche cui hanno attinto aziende e liberi professionisti per ottenere una certificazione in più e specializzarsi nell’ambito e puntare sullo sviluppo di questa professione. In media lo stipendio di un europrogettista sarebbe assimilabile a quello di un lavoratore dipendente che percepisce tra i 1500 e i 1800 euro mensili. Nella realtà delle innumerevoli situazioni contrattuali italiane, sappiamo bene che esistono retribuzioni ben inferiori alla media in tantissimi casi. Il lavoro da freelance invece prevede accordi su base di consulenze, collaborazioni e contrattazioni di una percentuale sul finanziamento previsto dal bando. A tal proposito esiste infatti il lavoro “a buon fine”, in cui il pagamento del lavoratore è legato alla vittoria del bando europeo.
Rischio che si deve assumere il singolo o le aziende e gli enti, per sopperire alla mancanza di tutele lavorative nel settore? Una delle possibili risposte – se ne è parlato parecchio nell’ultimo anno – è la creazione di un albo degli europrogettisti, ma potrebbe davvero aiutare concretamente i propri iscritti e garantire il rispetto dei loro diritti?

Come si vedono gli europrogettisti

A volte ci viene da pensare all’europrogettista come un ghost-writer che vede la sua immagine allo specchio di giorno in giorno più sbiadita; non solo perché scrive per qualcun altro, ma perché, in effetti, gli esiti di ciò che scrive vengono a volte legati alla sua retribuzione e al successo ottenuto dall’azienda per cui scrive/progetta. Alessandro Ameli ha curato un’Indagine sugli europrogettisti nel 2017 [1], dalla quale emerge chiaramente il sentimento di un’intera categoria di europrogettisti Under 35 e di buona parte dei trentenni: questo lavoro non è un lavoro, è un ripiego dequalificante. Nella maggior parte dei casi si tratta di laureati con studi classici o scientifici; ma ad emergere sul resto è la mancanza di una sistematica mancanza di definizione di questo “lavoro-non lavoro”. Ameli stesso ne parla come una sorta di “gatto di Schrödinger”: è un lavoro riconosciuto dalla collettività, ma non ancora legislativamente, il che comporta non pochi problemi.

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Fonte: Gipi, su ilfattoquotidiano.it


La crisi del terzo settore. Igiene mentale e capitalismo cognitivo

Esistono infatti alcune variabili che influiscono in modo negativo sulla salute lavorativa dell’Europrogettista. Oltre ai già citati problemi della retribuzione, della mancanza di diritti lavorativi ben strutturati per una mancanza di definizione legislativa della categoria, abbiamo anche un clima costante da reparto di chirurgia d’urgenzaelevata competizione nel settore dei bandi europei e costanti scadenze imposte dall’azienda e dai bandi stessi. Il tutto comporta l’esposizione a orari lavorativi fluidi e mai definiti.
In un articolo apparso su Odysseo, si ricorda come spesso la situazione peggiore in ambito di Europrogettazione si ritrova nel terzo settore, in cui

il progettista è una risorsa della cooperativa/onlus/associazione che viene sottratto all’attività caratteristica per dedicarsi alla ricerca matta e disperatissima dei fondi per finanziare il proprio core business. In molti casi, questo comporta un carico di responsabilità oneroso sul malcapitato che certamente avrà piena dimestichezza con i temi e le problematiche del suo lavoro, ma troverà difficile strutturare l’idea progettuale secondo lo schema richiesto dai principali finanziatori internazionali.

L’impressione è che dare una parvenza creativa a questo tipo di lavoro è impossibile. Come risposta alla crisi del welfare negli anni ’70-’80, il terzo settore ha fallito e, di fatto, oggi molte tra le realtà che ne fanno parte sono convogliate inevitabilmente in terreni privati in cui sono promiscui precarizzazione del lavoro, sperimentazioni fallimentari (e non) di forme di privatizzazione, pulpiti da cui vengono declamate retoriche sul volontariato e sul lavoro gratuito.
In assenza di fondi, si attua una vera e propria corsa contro il tempo, scandita dalle deadline e da contrattazioni con gli stakeholder, in cui, il vero perno della questione è la capacità, da parte del progettista, di agganciare (attirare?) capitali da parte di fondazioni bancarie et similia. Si entra così all’interno di dinamiche di gestione delle emergenze che sono ben note, purtroppo, anche a livello biopolitico, giustificate spesso in onore del sacrificio all’audience development dell’Impresa.

Ci troviamo nel capitalismo cognitivo: un posto losco e malfamato, in cui il lavoro è ormai basato su skills, competenze non materiali, ma relazionali. Tra gli imperativi: conoscere persone che ti fanno conoscere altre persone, fare buone impressioni, padroneggiare le proprie emozioni nelle situazioni di forte stress che abbiamo visto sopra, gestire linguaggi digitali, gestirne sempre nuovi, eliminare spazi e tempi tra vita e lavoro. Le conclusioni ci avvicinano a quanto scritto da Cavalleri [2]:

il capitalismo, così inteso, si autoalimenta grazie alla propria capacità di inglobare ogni cosa e trasformarla in merce (persino la solidarietà) […] mentre il capitale, quindi, è un flusso continuo, il lavoratore è intermittente. Il just in time ha smesso di essere soltanto un modello di organizzazione ed è diventato un imperativo sociale: bisogna sempre farsi trovare pronti, dimostrare di essere all’altezza […] L’enfasi con cui oggi si esaltano creatività e innovazione, non deve ingannare rispetto alla quota di gratificazione ed appagamento delle nuove figure del lavoro.

I margini di miglioramento delle condizioni di questa professione dipendono strettamente da una crisi ben più ampia di tutto il terzo settore, come si è visto; sarebbe forse utile la formalizzazione di un osservatorio che guidi la categoria “europrogettisti” verso la creazione di un albo. Ancor di più, ricorrere ad altri strumenti di associazionismo e aggregazione che partano dal basso e che possano accomunare esperienze diverse ma comuni in tutto il nostro Paese. Passare insomma a esperienze più concrete e rivendicare alcuni diritti minimi.

In fondo, l’obiettivo è non ammalarsi di lavoro.

*questo termine ufficialmente compare per la prima volta al Centro di Formazione in Europrogettazione a Venezia. Consultabile all’indirizzo http://europelago.it/

Per ulteriori informazioni segnaliamo:
[1] A. Ameli, Indagine sugli europrogettisti 2017, Associazione Culturale Eutopia, San Benedetto del Tronto;
[2] S. Cavalleri, La fatica di essere creativi, in Aa. Vv., L’inutile fatica. Soggettività e disagio psichico nell’ethos capitalistico contemporaneo, Mimesis Ed., Milano-Udine, 2016.

Daniele Barresi

Immagine in evidenza pubblicata sulla pagina Facebook del progetto Erasmus+

Un pensiero su “L’ultima frontiera del capitalismo cognitivo: l’europrogettista

  1. Articolo tanto interessante quanto cinico! Secondo me un aspetto da mettere in luce sono le competenze didattiche, che comunque un profilo di questo tipo deve avere. Non basta “essere in grado di reperire fondi europei”, serve portare anche i contenuti. Infatti condivido molto ad esempio un articolo come questo https://www.canaleformazione.com/progettista-della-formazione/ che descrive l’europrogettista come un “di cui” di una professione tecnica e specifica (ad es. il progettista formativo o didattico). Grazie cordiali saluti

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