Risultati europee 2019: molto rumore per nulla

Plus ça change, plus c’est la même chose, direbbero i francesi. Più le cose cambiano, più rimangono le stesse. Queste elezioni europee erano state descritte come un potenziale punto di svolta, nella politica continentale e in quella italiana. E invece ben poco rischia di cambiare. L’Unione Europea non è stata travolta dalla marea sovranista come in molti temevano e il suo braccio legislativo sarà ancora controllato da forze convintamente europeiste. A Palazzo Chigi è stato sancito de facto un’alterazione degli equilibri interni alla coalizione di governo che era già ben nota a tutti ma, a dispetto di quanto detto da molti osservatori, non dovrebbe aumentare sostanzialmente i rischi di caduta dell’esecutivo.

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Composizione del Parlamento Europeo – dati parziali (Fonte: European Parliament).

Come sono andate le elezioni in Europa?

Prima di guardare ai risvolti interni, è il caso di concentrarsi sull’oggetto di questa tornata elettorale, ovvero la composizione del parlamento europeo. Su questo versante la principale notizia è che i socialisti (PSE) e i popolari (PPE), i due principali gruppi parlamentari non controlleranno più da soli la maggioranza dei seggi, causa un prevedibile calo di consensi dei partiti a loro affiliati. I partiti social-democratici in particolare hanno confermato si essere in crisi in vari paesi come Germania e Francia. L’SPD tedesco si è fatto addirittura superare dai verdi mentre quello francese ha di poco passato la soglia minima del 5 per cento. L’ottimo risultato del PSOE spagnolo (32%), guidato dal carismatico primo ministro spagnolo Pedro Sanchez, non è stato sufficiente a rimediare a queste perdite. Poco male però dato che i liberali dell’ALDE, sono più che ben disposti a fare da stampella, come d’altronde già successo nella scorsa legislatura. Questo gruppo si è giovato dall’accordo con la Republique En Marche, la formazione politica del contestato presidente francese Emmanuel Macron, che ha preso un 22% per cento, piazzandosi secondo dietro al Rassemblement (fu Front) National di Marine Le Pen.

E forse, è proprio utile partire dal positivo ma non straordinario risultato della formazione di estrema destra francese, quella che ha fatto da modello per tante altre, per analizzare la mancata rivoluzione sovranista. Nelle scorse europee del 2014 aveva ottenuto un punto percentuale in più (24 contro 23 per cento) e già al primo turno delle scorze elezioni presidenziali di due anni fa era praticamente appaiato al partito di Macron. Insomma, non un passo indietro, ma nemmeno uno in avanti. Più o meno come la tedesca Alternative für Deutschland (AfD), avanzata di ben poco rispetto alla scorsa tornata, dove era una new entry. In netto arretramento il FPO austriaco, colpito recentemente dallo scandalo dei finanziamenti illeciti provenienti dalla Russia. È rimasto addirittura senza seggi il PVV del platinato Geert Wilders, superato dall’ennesima nuova formazione populista nello scenario partitico olandese.

Ci sono paesi invece in cui i sovranisti hanno dilagato. In primo luogo, l’Italia, dove la Lega (sempre meno Nord e sempre più nazionale) di Salvini ha sbaragliato la concorrenza, piazzandosi per distacco primo partito. Se confrontato con il 6,2 per cento del 2014 il risultato è ancora più strabiliante. Un aiuto insperato alla causa euroscettica è arrivato dalla Gran Bretagna, nelle quali queste elezioni non dovevano nemmeno tenersi e alla fine hanno visto trionfare ancora Nigel Farage, l’artefice della Brexit, con un nuovo partito che porta il nome dell’uscita tanto sbandierata ma mai avvenuta. Infine, da segnalare il plebiscito in Ungheria in favore del primo ministro Viktor Orban, autore di leggi particolarmente repressive nei confronti della libera espressione. Peccato però che Orban sia ufficialmente ancora all’interno dei popolari anche se i rapporti sono ai minimi termini (come vi abbiamo raccontato qui). E che, soprattutto per questioni legate alla politica economica e al rapporto con la Russia di Putin, i partiti euroscettici dovrebbero rimanere divisi in diverse formazioni, limitando la loro influenza anche in questa legislatura.

In linea con studi esistenti, queste elezioni europee del 2019 sembrano confermare tre trend. Innanzitutto, gli elettori spesso usano questa elezione “di secondo piano” (second order) per punire i partiti al potere. Lo ha imparato a sue spese Alexis Tsipras, primo ministro socialista che ha salvato la Grecia dalla bancarotta negoziando un accordo lacrime e sangue con la Troika e si è visto superato dal principale partito di centro-destra. Così come i 5 Stelle in Italia, i quali in fondo si sono presi la colpa di un paese sempre più relegato agli ultimi posti nel continente per crescita economica. In parte, a dispetto della vulgata comune, è successo anche in Germania dove oltre ai socialdemocratici anche la CDU della Merkel ha perso consensi, seppur in misura inferiore, rispetto al 2014. Inoltre, gli elettori, liberi da competizioni nazionali con il governo come posta in palio, hanno privilegiato piccoli partiti. A beneficiarne sono stati i partiti verdi in particolare. Oltre al già menzionato secondo posto dei Grunen tedeschi, la maggiore forza politica ecologista del continente, a colpire è anche il terzo posto dei Verts francesi. Storicamente i partiti verdi tendono ad andare meglio alle elezioni europee rispetto a quelle nazionali ma forse questa volta il clima sta davvero cambiando, in tutti i sensi. Infine, per quanto si parli di nazionalizzazione delle elezioni europee, i partiti in grado di presentare una posizione forte e unitaria sulla UE tendono ad essere premiati dall’elettorato. La Gran Bretagna è la rappresentazione plastica di questo meccanismo. A trionfare sono stati un partito dichiaratamente pro-Brexit (il Brexit party appunto) e uno dichiaratamente anti-brexit (i Lib Dem) mentre la condotta farsesca delle trattative ha penalizzato i conservatori e l’ambiguità sul tema ha danneggiato i laburisti.

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Un trionfante Matteo Salvini (Fonte: ilsitodisicilia.it)

L’analisi del voto italiano

Questo per quanto riguarda l’Europa. In Italia, queste elezioni europee saranno appunto ricordate per il clamoroso risultato del Carroccio, capace di ribaltare i rapporti di forza con il Movimento 5 Stelle, suo alleato di governo. Questo risultato era tuttavia ampiamente previsto dai sondaggi degli ultimi mesi. Inoltre, riflette a sua volta gli esiti di una serie di elezioni locali svolte in tempi recenti in Sardegna, Abruzzo e Basilicata, dove si sono imposti i candidati di (centro) destra mentre i grillini hanno arrancato. Infine, sembra quasi superfluo dirlo, ma a dettare l’agenda dell’esecutivo, oltre che dei media (più o meno social), è sembrato essere molto più Salvini che Di Maio. Insomma, queste europee sanciscono nei fatti equilibri che erano già tali sulla carta. Seppur in maniera inaspettatamente evidente.

Quello che non modificano sostanzialmente sono gli incentivi dei due partiti a lasciare il governo. La Lega sicuramente sa di non essere mai stata così forte a livello elettorale ma sa anche che da sola non potrebbe comunque governare. Attualmente gli attori a lei più ideologicamente affini, Forza Italia e Fratelli d’Italia, non gli garantirebbero una maggioranza in parlamento. Anche tornando alle urne sembra difficile immaginare che la Lega insieme ad almeno uno di questi partiti possa riuscire a formare un esecutivo solido. Forza Italia è ormai allo sbaraglio e FdI non è ancora una forza consistente. Peraltro, Giorgia Meloni, leader di FdI, ha recentemente lanciato numerosi attacchi al partito di Silvio Berlusconi e ad alcuni dei suoi esponenti come il presidente del parlamento europeo Antonio Tajani. Paradossalmente il Movimento 5 Stelle, che in termini di elettorato e politiche è più moderato (o addirittura di sinistra) di quanto si dica, ha una exit strategy più credibile: allearsi con il Partito Democratico. I numeri in parlamento ci sarebbero. Quella che manca è la volontà di entrambi gli attori. I pentastellati hanno sempre escluso un’alleanza con il partito simbolo della “vecchia politica” e sanno di dover tenere fede alle loro promesse elettorali, dimostrandosi capaci di governare oltre che di protestare. Il PD è in una lenta e farraginosa fase di ricostruzione di consenso e rimanere all’opposizione potrebbe rivelarsi una strategia più che sensata rispetto ad entrare in un esecutivo di un paese che in economia naviga in acque alquanto tempestose.

Sicuramente i democratici sono il secondo vincitore di queste elezioni europee in Italia. Con il loro 22 per cento e il sorpasso sui Cinque Stelle hanno superato ogni più rosea aspettativa secondo i sondaggi della vigilia. L’analisi del voto del nuovo leader Nicola Zingaretti è stata piuttosto lucida. In Italia il PD “è il pilastro della resistenza” alla destra sovranista, ha detto Zingaretti. Più Europa e i verdi non hanno superato la soglia di sbarramento. A sinistra c’è il vuoto. Considerando come i partiti di centro-sinistra siano stati schiacciati da una tenaglia composta da forze sovraniste e nuovi partiti non è scontato. In Italia questo ruolo lo ha giocato il Movimento 5 Stelle negli ultimi anni ma ora la sua forza propulsiva sembra diminuire. Se questa tendenza dovesse proseguire alle prossime elezioni generali potremmo trovarci di fronte ad un nuovo bipolarismo che più che alla seconda repubblica assomiglia allo scontro politico in atto in Europa: liberali contro sovranisti, PD contro Lega.

Valerio Vignoli

Immagine in evidenza pubblicata su Flickr da European Parliament

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