Camerun: due le lingue (importate), una la guerra civile in corso, zero i tentativi di dialogo tra le parti.
La violenta guerra intestina, scoppiata nel 2016, è il naturale esito di decenni di repressione delle istanze della minoranza anglofona (circa il 20% della popolazione) da parte della maggioranza francofona. Questo conflitto, imperterrito, giorno dopo giorno si perpetra nelle regioni a Nord-ovest e Sud-ovest del Camerun, senza essere quasi mai portato agli onori (od orrori?) della cronaca, come le tante guerre di serie B.
In questi giorni un po’ (molto poco, a dire il vero) se ne parla. Già a fine luglio infatti alcuni leader religiosi, sia cristiani che musulmani, si erano proposti come mediatori tra le parti in conflitto. Il piano d’azione consisteva in una conferenza generale di anglofoni, prevista per il 29 e 30 agosto nella città di Buea, con il cardinale Christian Tumi, il pastore George Fochang Babila, la chiesa presbiteriana, l’imam della moschea centrale di Bamenda Mohammed Tukur Adamu e il capo imam della moschea centrale di Buea Alhagji Mohammed Aboubakar come protagonisti.
Che cosa sta succedendo in Camerun
Lo scacchiere camerunese vede da un lato il governo di Biya, in carica dal 1982 e rappresentante della maggioranza francese, e dall’altro le forze secessioniste, che portano alta la causa della minoranza anglofona e lottano per l’indipendenza dell’Ambazonia. Tutto condito con un po’ di Boko Haram qua e là. E tutti, senza riserve, macchiati di crimini di guerra. Potete leggerne qui, qui, e anche qui.
Per capire da dove trae origine questo conflitto – io sarò breve, ma una valida sinossi la trovate qui – bisogna andare un po’ indietro nel tempo, precisamente a quando in seguito al primo conflitto mondiale la Società delle Nazioni ha diviso la regione, ex colonia tedesca, in Camerun francese e Camerun inglese. Quest’ultimo, composto da due lembi di terra situati nel nord-ovest e nel sud-ovest sostanzialmente governate dalla Nigeria, avevano due opportunità: aderire al Camerun o annettersi alla Nigeria.
Peccato che quel che volevano era (ed è) essere indipendenti. Esattamente ciò per cui figure come Fon Gorji Dinka, avvocato anglofono e primo presidente della Cameroon Bar Association, e Julius Ayuk Tabe, leader separatista, hanno lottato, promuovendo la nascita della Repubblica di Ambazonia.

La goccia che ha fatto traboccare il vaso chiama in causa ciò che ha il contemporaneo potenziale di connettere e di dividere: la lingua. In Camerun si parlano infatti qualcosa come 247 lingue, tra cui spiccano il Cameroon Pidgin English come lingua franca (in linguistica, i pidgin sono lingue-ponte con grammatiche molto semplificate nate per esigenze di comunicazione) e l’inglese e il francese come lingue ufficiali. Questa grande varietà di idiomi, assieme ad una politica di bilinguismo non realmente paritaria, non aiuta di certo la comunicazione – anche se c’è chi sostiene che sia tutta una questione economica di differente allocazione di investimenti e risorse tra le aree anglofone e francofone – tanto che il passo dalle proteste per l’utilizzo del francese nelle scuole e nella corti anglofone al conflitto armato è stato breve. E ora, dal 2016, il paese versa in uno stato di disordini che spargono un sacco di sangue, quello di civili di ogni genere ed età.
Che fine ha fatto l’incontro?
La data fissata per l’incontro è arrivata. Nessun comunicato stampa. È passata. Nessun comunicato stampa. È passato un altro giorno, poi un altro ancora. E ancora tutto taceva.
Finché ieri, 5 settembre, La Croix Africa ha rotto il silenzio. La conferenza è stata rimandata a data da definire, per ragioni non dichiarate.
Le fazioni che si sono delineate sono invece molto chiare. Da un lato troviamo , in formazione quasi compatta, i candidati alle elezioni presidenziali previste per il 7 ottobre, che caldeggiano e sostengono vigorosamente questo incontro e la possibilità di dialogo che essa rappresenta. Tra i vari, Ndifor Afansi Flanklin, esponente del Camerun National Citizen Movement e parroco di una chiesa evangelistica, ha affermato di essere “per un dialogo inclusivo tra i camerunesi, da un lato, e tra i camerunesi di lingua inglese, dall’altro” sottolineando la necessità a tal fine di liberare tutti i prigionieri. Stesso atteggiamento da parte del Fronte socialdemocratico e del Movimento per il Rinascimento del Camerun, il quale sentenzia addirittura che questa iniziativa “arriva anche un po ‘tardi”, ricordando come già nel dicembre del 2016 lo stesso partito avesse preso fermamente posizione per chiedere una consultazione con gli anglofoni.
Dall’altro lato troviamo invece il governo in carica di Biya che afferma – attraverso il suo portavoce, il ministro delle Comunicazioni Issa Tchiroma Bakary – di non essere favorevole all’incontro. Dichiarazione di per sé molto impegnativa da formulare e difendere, dal momento che da qualunque parte la si guardi trasuda volontà di non cedere, di non ascoltare, di non dialogare. Forse un senso la linea di condotta del governo può averlo, se considerato attraverso la lente della mera preservazione dell’unità nazionale. Sostenere questa conferenza presupporrebbe infatti una chiara propensione all’incontro e, con buone probabilità, all’accoglienza delle istanze dei separatisti. Mossa quanto meno azzardata per un governo che si propone da 35 anni come fortemente rappresentativo della maggioranza francofona, e soprattutto ad appena un mese dalle presidenziali.

Dove la politica chiude, la religione apre?
Quel che riporta indietro nel tempo e fa assumere alla questione tutta un’aura dorata da mosaico bizantino è che l’impasse politico che caratterizza questa regione ha visto le principale guide religiose del paese proporsi – indipendentemente dal fatto che questo incontro sia poi davvero avvenuto – come nuovi attori, nella speranza di poter fungere da mediatori.
In Occidente si guarda spesso con sospetto all’ingerenza del potere religioso nell’arena politica – basti pensare, ad esempio, a come il concetto di teocrazia sia posto agli antipodi rispetto a quello di democrazia. Altrettanto spesso, però, forse dimentichiamo che la religione è parte integrante delle fondamenta culturali su cui l’edificio della politica viene costruito. A tal proposito le parole di Khomeini, nell’unica intervista concessa ad una giornalista donna, Oriana Fallaci, possono dare qualche spunto: “Poiché il popolo ama il clero, ha fiducia nel clero, vuol essere guidato dal clero, è giusto che la massima autorità religiosa sovrintenda l’operato del primo ministro o del presidente della Repubblica per impedire che sbaglino e che vadano contro la legge cioè contro il Corano. […]” Ora, per quanto la situazione sia completamente diversa, quel che di trasversale hanno queste parole è che molto spesso le istituzioni religiose – che, è bene ricordare, sono mosse da interessi propri, in quanto istituzioni appunto (sempre sia lodato Weber!) – riescono a suscitare una fiducia che governi e parlamenti relativamente giovani non sono ancora stati in grado di costruire. O che hanno perso.
E ogni iato che il distanziarsi dalla politica genera viene riempito da qualcuno. Lo scenario sarebbe infatti probabilmente diverso se il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite avesse mostrato una maggiore propositività e propensione all’azione rispetto a questo conflitto, non limitandosi a dichiarare “a lot of interest”.
Questo spazio lasciato vuoto dalle dichiarazioni di circostanza dell’ONU è stato così riempito (o almeno ci sta provando) dalla religione che, memore del proprio glorioso passato, non perde occasione per rispolverare le proprie doti di mediazione.
In fondo, se si è abituati a mediare tra terra e cielo, sarà un gioco da ragazz* mediare tra terra e terra, giusto?
Marta Silvia Viganò
Immagine di copertina: VOA News