Acclamato e premiato in diversi concorsi e vincitore del premio di “scelta del pubblico” al Boulder International Film Festiva del 2016, Under the Gun è un documentario che tratta il complicatissimo tema delle armi negli Stati Uniti cercando di porsi da un punto di vista diverso rispetto a quello a cui siamo abituati.
Il focus, infatti, non è posto tanto sugli effetti tragici della libera circolazione delle armi sul suolo americano, come stragi e sparatorie tristemente note al pubblico (tema comunque presente e abbondantemente trattato), quanto piuttosto sulla difficoltà e sugli ostacoli che impediscono la regolarizzazione del mercato. Tra negozi ufficiali, fiere, commercio online e scambio tra privati, la regista e la voce narrante guidano lo spettatore in un labirinto di norme ad hoc, resistenze culturali e interessi economici, mostrando i morti che questo sistema lascia sul campo suggerendo però possibilità e trasmettendo speranza per il futuro. Nonostante tutto Under The Gun è un manifesto dell’ottimismo americano, di chi pensa che se l’America ha creato questo mondo distorto può anche sistemarlo.
Se c’è qualcosa difficile da capire per un europeo è la questione delle armi negli Stati Uniti. Under The Gun aiuta, ma non è un film pensato per noi. Quello che fa Stephanie Soechtig è molto più di un semplice resoconto dei danni procurati dalle armi da fuoco alla comunità americana, è una call to action per i cittadini affinché si attivino per porre finalmente un limite alla vendita sfrenata di armi e munizioni e alla follia che questa sregolatezza genera.
È anche un film toccante, che incrocia la storia di cinque famiglie colpite dalle tante tragedie susseguitesi negli Stati Uniti, dalla scuola Sandy Hook al Cinema Aurora, e ne racconta la reazione, lo sbigottimento e la presa di coscienza che le armi in mano a tutti sono un problema da affrontare. È un film estremamente onesto, in cui i testimoni non mostrano il loro lato più ferito, ma quello arrabbiato, quello disilluso e reattivo che condanna una società complice del presente in cui vivono:
“Mandano le croci, la gente ci getta fiori ed orsetti e dopo una settimana tornano a vivere come se non fosse successo niente. Non vogliamo i vostri mi dispiace, vogliamo il vostro impegno perché qualcosa cambi.”
Sono storie che si incrociano in una trama dove i molti e tristi punti in comune si sovrappongono e accompagnano lo spettatore per tutti i 105 minuti del film, proiettato a Bologna martedì 11 aprile al Cinema Europa nell’ambito della rassegna Mondovisioni. Al termine della visione, recita la scritta di apertura, ventidue persone saranno state colpite da un’arma da fuoco, sei delle quali a morte.
Numeri mostruosi, numeri che raccontano quella famosa schizofrenia americana, per cui “un produttore di un orsetto di peluche deve sottostare a regolamentazioni per la salute dei consumatori molto più restrittive rispetto ad un produttore di armi”. Basta che sparino, si potrebbe dire.
Under the gun è un documentario che, a suo modo, parla di libertà e che trasmette perfettamente il conflitto tra due diritti, quello di essere armati e quello di “vivere”, conflitto che non si risolve al suo interno, ma nella percezione, nel pensare l’uno come strumento necessario per ottenere l’altro oppure come pericolo e potenziale ostacolo. Quale sia dunque questa libertà è forse la domanda più difficile da comprendere per un non-americano. Quale sia la libertà che permette a un cittadino di acquistare, accumulare e rivendere armi senza alcun tipo di controllo non ci è dato saperlo. Quale sia il diritto che tutela la libertà di circolare con un’arma da fuoco in una banca, al supermercato o al bar noi non possiamo capirlo. Ma in America esiste e sono molte le persone che lottano per difenderlo. Chi per interessi, come la lobby delle armi, la NRA (National Riffle Association), da molti considerata quella più influente degli Stati Uniti, chi invece per principio, come le folle di cittadini che protestano in favore del “open carry”, il diritto di circolare ed esibire liberamente la propria arma da fuoco. Non è fanatismo il loro, ma un sincero timore di essere soli contro il mondo, di doversi difendere dai malintenzionati, di dover proteggere i propri cari e se stessi.
Negli Stati Uniti sono in molti a possedere un’arma (ed è un’espressione eufemistica). Le persone si sentono più sicure così, convinte di avere una possibilità di essere un eroe, o più semplicemente di potersi salvare la vita qualora succedesse qualcosa di grave. Li anima la convinzione che un “good guy” armato sia l’unica difesa da un “bad guy” armato. Non importa se molto spesso i bravi ragazzi armati hanno al massimo un’idea di come si impugni un’arma e si rivelano per lo più degli “asshole” (imbecilli) armati, non importa nemmeno se è spaventosa anche solo l’idea di tante bocche da fuoco che si mettono a sparare insieme confuse e impaurite. L’illusione della protezione è ciò che guida la popolazione e ciò che dà tranquillità alle persone intervistate da Katie Couric.
La call to action si manifesta al termine di una carrellata di eventi, politici e di cronaca, dagli anni ’60 ad oggi, con il 1986 come spartiacque tra un’America regolamentata e un’America “libera”. In un dettagliato racconto sulle dinamiche e le falle del mercato delle armi e sull’attività lobbistica che ha di fatto chiuso ogni possibilità di una regolamentazione che parta dalla politica, un barlume di ragione emerge dal basso, dalle associazioni dei familiari delle vittime che hanno cominciato a muoversi sotto la linea dell’orizzonte, arrivando ad avanzare proposte concrete attraverso referendum popolari chiedendo l’imposizione a livello statale di controlli sulla fedina penale di chi acquista. Eccolo l’ottimismo americano, tutto raccolto nelle espressioni di chi parla e nell’entusiasmo di chi si batte. A cosa servono questi provvedimenti se non fermeranno sparatorie e stragi? “È un pezzo… nulla funziona da solo, ma avremo raggiunto un obiettivo. Non è solo la cintura di sicurezza, non è solo l’airbag che ti salva la vita in macchina”. Ogni pezzo fa la sua parte e anche la cultura, quando sufficienti pezzi sono stati aggiunti, cambia.
È un pezzo di America, piccolo, ma completo. Si vede tutto, la schizofrenia, le contraddizioni e lo smisurato ottimismo che nonostante l’evidenza impietosa non cessa di animare le lotte di chi vuole cambiare e sa che nella società può trovare le forze per farlo. Questo film non è fatto per noi, ma più degli altri dovremmo guardarlo. In un’era in cui molte persone ritengono la difesa personale l’unica strada per una vita sicura, in cui qualche rappresentate cavalca questo terribile sentimento, rinfrescarsi la memoria fa bene. Serve a ricordarsi perché tutto ciò è sbagliato, perché stragi come la scuola Sandy Hook oppure le “normali giornate di Chicago” sono un rischio che non vale la pena correre soltanto per un’illusione.
Luca Sandrini
@lucasandrini8
Fonte immagine di copertina: http://underthegunmovie.com/
“chiedendo l’imposizione a livello statale di controlli sulla fedina penale di chi acquista.”
Beh sia dia il caso che c’è già da molto quindi parlare di libera circolazione sopratutto con casi molti diversi (tipo la california ha leggi più restrittive delle nostre) fa RIDERE. Si solita ignoranza e luoghi comuni…
Tutto pur di nascondere qual’è il problema che sta a monte ovvero quello sociale cosa confermata anche dall’università di Liegi e altri enti. Le restrizioni come dimostra la storia e studi recenti non hanno mai risolto nulla in concreto…
Solo becera propaganda.
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