Il 20 gennaio 2017 potrebbe essere ricordata come una data storica. Oggi infatti il controverso milionario newyorkese Donald J. Trump si insedierà ufficialmente alla Casa Bianca, diventando così il 45esimo presidente degli Stati Uniti d’America. Come si è arrivati a questo punto? Quali sfide interne lo attendono? E come potrebbe affrontarle? Per rispondere a queste domande abbiamo intervistato la professoressa Raffaella Baritono, docente di Storia e Politica degli Stati Uniti all’Università di Bologna.
Torniamo un attimo indietro, si aspettava la vittoria alle elezioni di Donald Trump? Quali fattori hanno determinato un risultato così clamoroso?
Sorpresa ma fino ad un certo punto. Che le elezioni non fossero facili per Hillary Clinton era abbastanza percepibile anche prima dell’8 di novembre. C’erano delle resistenze nei suoi confronti a causa della sua storia personale e lei non è stata capace di tenere assieme la coalizione che ha permesso ad Obama di vincere nel 2008 e nel 2012. Inoltre, a posteriori, sono stati evidenti gli errori dello staff della Clinton nel dare per scontato il risultato in alcuni stati strategici per il suo avversario come la Pennsylvania e Wisconsin. Infine bisogna comunque sottolineare come la vittoria di Trump non sia stata così netta dato che il voto popolare è stato fortemente appannaggio della Clinton. Anche se nel sistema elettorale contano gli stati e non i voti. Tuttavia i sondaggi davano indicazioni diverse rispetto alla tenuta del partito democratico e alla capacità di Trump di mobilitare quella parte di elettorato bianco deluso. Insomma la vittoria di Trump è stata inaspettata dal punto di vista dei grandi elettori, inaspettata considerati i sondaggi, inaspettata perché forse non era così chiaro il risentimento di una parte di elettorato americano che ha voluto lanciare un messaggio nei confronti di determinate élite culturali ancora prima che economiche.
Quali sono oggi le principali criticità degli Stati Uniti e quali potrebbero essere le soluzioni del nuovo inquilino alla Casa Bianca?
Le criticità dipendono dai punti di vista. Per esempio per Trump e per il partito repubblicano una problematica è legata alla riforma sanitaria. Per anni si è discusso tra l’opinione pubblica e all’interno del congresso su questo tema e mai si erano verificate le condizioni per le quali una legge, seppur imperfetta, come quella approvata nel 2009, potesse realizzarsi. Non dimentichiamoci che nel 2008 quasi 50 milioni di statunitensi erano privi di qualunque assistenza sanitaria. Un altro tema è l’immigrazione clandestina. Questo è un problema particolarmente sensibile visto che implica dinamiche politiche, economiche e sociali. È impensabile che per risolverlo possa adottare le soluzioni proposte in campagna elettorale, ovvero la costruzione di un muro al confine con il Messico e la deportazione di massa. Tuttavia promuovere una legge più ferrea sull’immigrazione è un modo per quietare le ansie di una fetta di americani che si sentono minacciati dal punto di vista del loro stile di vita e della loro identità. Infine c’è la questione della protezione del lavoro americano. E ancora l’esigenza è rispondere a quella fetta di elettorato che è stata vittima delle politiche neoliberiste promosse tanto attivamente da Bill Clinton. Pensiamo a come abbia minacciato la General Motors di tassarla nel caso in cui decidesse di spostare la produzione di un’automobile in Messico. In un certo senso sembra che Trump sia intenzionato a combinare un’economia orientata in senso liberista con delle istanze protezioniste.
Quello che viene fuori dalla sua descrizione è un futuro presidente assillato dal mantenimento del consenso. Come si inserisce Trump all’interno di quel variegato e attualissimo fenomeno chiamato populismo?
Lui ha cavalcato il populismo attraverso messaggi sulla sua volontà di individuare una leadership direttamente collegata al “popolo” senza nessun tipo di mediazione. La sua campagna elettorale è stata giocata interamente contro l’establishment proprio per andare a raccogliere questo sentimento di insoddisfazione di un determinato elettorato. Perfino gli attori di Hollywood sono rientrati nella categoria delle élite che devono essere rimesse al loro posto. È indicativo da questo di punto di vista anche il recente scontro con l’attrice Meryl Streep che lo ha duramente criticato nel discorso di accettazione dei Golden Globe. Inoltre la sua presenza su Twitter, massiccia e sempre molto esplicita, è significativa all’interno di questo meccanismo di costruzione di consenso personale e senza mediazione.
Ma questo era il Trump della campagna elettorale, politicamente scorretto e fuori controllo. Ora “The Donald” diventerà più presidenziale?
È difficile da capire. Da una parte è ovvio come ci sia uno scarto tra i toni usati in campagna elettorale e la necessità di assumere uno stile presidenziale. Da questo punto di vista il discorso inaugurale sarà interessante. Naturalmente un presidente deve fare i conti con una certa struttura amministrativa che lo metterà di fronte a vincoli e costrizioni. Dall’altra, allo stesso tempo, Trump non ha esperienza politica. Questo è un elemento che può risultare problematico.
Insomma siamo di fronte ad una persona assolutamente impreparata a ricoprire il ruolo di presidente degli Stati Uniti?
Personalmente temo che possa riproporre uno stile manageriale come terreno per costruire pratiche politiche. E non si può gestire un governo americano come se fosse un’impresa edile o un reality show. La politica vuole dire anche studio. Per esempio ogni mattina il direttore della CIA nel fare il report al presidente seleziona le notizie. Trump ha la capacità di andare a fondo a determinate questioni che gli vengono sottoposte ogni mattina? Per esempio il fatto che abbia nominato il genero, Jared Kushner, come senior advisor alla Casa Bianca dà l’idea che lui non abbia una rete politica sulla quale può fare affidamento. Questa sua campagna da outsider anche all’interno del partito repubblicano ha fatto sì che lui si trovi assolutamente spiazzato all’interno della machinery della politica americana. L’apparato è importante per la politica interna ma lo è soprattutto per la politica estera. Da questo punto di vista sussiste una certa imprevedibilità che si somma a quella caratteriale.

Ha accennato al rapporto conflittuale con lo stesso partito repubblicano che pur formalmente rappresentava alle elezioni. Come potrebbe evolversi questa situazione?
Trump sa benissimo che una parte del partito repubblicano lo ha avversato. Sarà una battaglia molto difficile da combattere. Anche perché una parte del partito repubblicano alla camera, da quello che si è potuto vedere, è ancora più radicale di Trump su una serie di politiche sociali e governative. Ci sono alcuni deputati conservatori che addirittura vorrebbero eliminare il Medicare per esempio, un programma di assistenza sanitaria per gli anziani che non era nemmeno mai stato toccato da Ronald Reagan.
Dall’altra parte della barricata, dopo una sconfitta così cocente, che direzione potrebbe prendere il partito democratico?
Il partito democratico deve ritrovare una leadership. Non sarà facile perché aveva impostato la propria scommessa politica su Hillary Clinton fin dal 2007. Tutto l’establishment del partito a quel tempo infatti era con lei e contro Obama nelle primarie. Le spaccature interne esistevano già allora e si sono ripresentate con la candidatura di Bernie Sanders. I democratici quindi devono ridefinire la propria agenda politica, ridefinire i propri valori e, soprattutto, devono trovare una nuova leadership. Una nuova leadership anche dal punto di vista generazionale perché tra 4 anni non si possono ripresentare con Sanders né tanto meno con persone legate alla figura di Hillary. La formazione di una giovane classe dirigente liberal sembra proprio ciò sul quale si vuole concentrare Obama dal 21 gennaio con la sua fondazione.
La figura di Trump si è dimostrata altamente divisiva nel paese: metà lo ama e l’altra metà lo detesta. Teme che ci saranno molte manifestazioni di protesta nei confronti del nuovo presidente e un aumento della tensione sociale negli USA?
È più che possibile. Trump infatti deve fare i conti con una fetta consistente di elettorato americano che vuole difendere una serie di riforme fondamentali e che esistono da decenni. Per i prossimi giorni sono già state organizzate diverse forme di protesta. Domani per esempio è in programma la “March of Women”, alla quale prenderanno parte molte migliaia di donne. Per non parlare delle questioni razziali che continuano ad essere particolarmente evidenti e laceranti nel paese.

Infine un’ultima domanda che la riguarda da vicino. Lei è anche una studiosa di movimenti femministi. Trump si è riferito in diverse occasioni alle donne in maniera inappropriata e volgare. La sua elezione a uomo più potente della terra, come va interpretata da questa prospettiva?
Tutto il discorso di Trump in realtà è basato su toni politicamente scorretti, non soltanto nei confronti delle donne ma anche nei confronti degli afroamericani, dei disabili addirittura. La questione non riguarda tanto il tipo di linguaggio. E comunque una certa fetta di elettorato femminile ha riconosciuto in quel linguaggio una forma di autenticità mentre la Clinton è sempre apparsa molto costruita, poco autentica, poco attenta alla vita reale degli americani e delle americane. Secondo me è più interessante capire come la candidatura di Hillary Clinton, la prima di una donna alla presidenza, non sia stata così potente da poter mobilitare tutto l’elettorato femminile. Non soltanto le donne di classe media, ma per esempio anche molte giovani non sono riuscite ad entusiasmarsi. Bisogna chiedersi perché, simbolicamente, la candidatura della prima donna alla presidenza non abbia avuto la stessa forza di quella del primo afroamericano.