Sì, ma dopo?
Dopo la quarantena come sarà?
La domanda si è insinuata tra i nostri pensieri quotidiani e si sta affinando con il passare dei giorni, man mano che si avvicina la data che ci riporterà alla “vita di tutti i giorni”. Si declina nei più svariati interrogativi e prende la forma del “riuscirò a pagare l’affitto?” o “mi rinnoveranno il contratto?” o ancora “adesso quanto ci metterò a ritrovare lavoro?”. In queste settimane l’attenzione collettiva si è correttamente focalizza sulle fasce della popolazione che stanno subendo più di chiunque i costi diretti dell’emergenza sanitaria: persone anziane e soggetti con patologie pregresse, che registrano i tassi più alti di letalità con e da Covid-19. Ma lentamente stanno emergendo anche le ricadute indirette di questa crisi, e se alcune iniziative ci hanno promesso che quando la quarantena finirà #andràtuttobene, è invece probabile che per molti e molte non sarà affatto così.
È vero che “permane una assoluta incertezza sull’evoluzione e sui tempi di rientro dell’emergenza sanitaria”, come scriveva l’Istat il 26 marzo, ma è anche evidente che si stiano “manifestando effetti negativi diffusi, per i quali non è ancora possibile alcuna quantificazione”. Lungi da noi, quindi, tentare qualsiasi tipo di previsione azzardata. Quel che vorremmo provare a fare è ragionare su quelle ricadute indirette, che non saranno uguali per tutte e tutti. Si prenda il lavoro. A partire dai dati che ci fornisce sempre l’Istat, sappiamo che su un totale di occupati pari a 23 milioni e 360 mila (media annua 2019), circa un terzo è impiegato in uno dei settori dichiarati sospesi dal Dpcm dell’11 marzo e dal Decreto del Mise datato 25 marzo. Tradotto, significa che 7 milioni e 784 mila lavoratori e lavoratrici sono fermi.
Ma di chi si tratta? Chi sono le persone che oggi hanno maggiori dubbi riguardo la propria vita lavorativa dopo? Gli under 35. Osservando le tabelle, si nota infatti che le quote di occupati aumentano con l’età, dunque possiamo fermarci tra gli under 35 per affermare che qui si percepiscono le più pesanti conseguenze economiche dell’emergenza. Tra i 15 e i 24 anni ad essere rimasto occupato è il 49,7% (530 mila), praticamente un lavoratore e una lavoratrice su due; tra i 25-35 si arriva al 61,8% (2 milioni 526 mila). Su un totale di oltre 13 milioni di giovani 14-35, ad essere ancora occupati sono quindi poco più di 3 milioni di persone. Perché oltre all’attuale sospensione dal lavoro (per chi ce l’aveva) si deve infatti tenere conto anche degli elevati tassi di inattività e disoccupazione precedenti al Coronavirus.
Il dopo per i trentenni di oggi non è mai stato semplice e scontato. Stiamo parlando della stessa generazione che nel 2008, agli inizi di quella che viene considerata una delle peggiori crisi economiche della storia, si preparava a fare il proprio ingresso nel mondo del lavoro o dell’università. E ora che avrebbe dovuto “sistemarsi”, si ritrova a fare i conti con una pandemia globale e un’ulteriore probabile recessione alle porte. Come ha detto bene Alessandro Rosina, docente di Demografia e Statistica sociale all’Università Cattolica di Milano: “Dopo l’uscita dagli anni acuti della recessione non c’è stata alcuna solida ripresa. […] Il rischio è ora che le scelte di chi progettava l’uscita dalla casa dei genitori, di formazione di una propria famiglia, di avere un figlio, vengano ulteriormente posticipate e riviste al ribasso”.

Ma chiaramente non ci sono solo lavoratori e lavoratrici dipendenti che dovranno ricalibrare le proprie aspettative. Ci sono precarie e precari, dalla scuola al mondo dell’arte e della cultura, le partite Iva e il nero, c’è chi non vedrà rinnovato il contratto, chi ha dovuto interrompere un periodo di ricerca all’estero per rientrare in Italia d’urgenza. Poi c’è chi i propri diritti non li ha mai visti riconosciuti, come le e i sex workers, ci sono i cittadini e le cittadine straniere che lottano per ottenerli, le soggettività migranti e le donne per le quali l’invito a “restare a casa” non è stato rassicurante. E chiaramente c’è l’altra faccia della medaglia, rappresentata dai dipendenti della Grande distribuzione e da tutti gli operai che hanno lottato per ottenere la sospensione dall’attività lavorativa o la garanzia di poterla svolgere in sicurezza; rappresentata da operatori sanitari, infermieri e medici specializzandi arruolati per combattere l’emergenza con “incarichi di lavoro autonomo, di collaborazione coordinata continuativa di durata non superiore a sei mesi” (Cura Italia).
Non stiamo elencando ma osservando la realtà, a sottolineare che la soluzione non risiede nel ritorno alle cose com’erano prima. Innanzitutto è necessario ripensare il “rapporto tra Res publica e capacità di resistenza agli imprevisti”, come suggerito dallo storico Alessandro Barbero quando ricorda che abbiamo “una società e un’economia in grado di funzionare perfettamente, purché non ci siano imprevisti. Ma una cosa che la storia insegna è che gli imprevisti arrivano prima o poi”. Abbiamo perciò deciso di partire da alcune di queste storie e dall’analisi delle mutazioni in corso per immaginare una società più resiliente, che non lasci indietro nessuno e nessuna già da questo “imprevisto” ancora in corso. Dando voce alle generazioni più giovani, composte non solo da lavoratori e lavoratrici ma anche studenti e studentesse, in Italia e all’estero.
3 pensieri su “Il mondo “dopo” l’emergenza”