Ero appena rientrato da un paio d’ore di playground a Modena, con i postumi di una simpatica caduta di schiena sul cemento dopo una stoppata subita e del facile giganteggiare nel campo opposto tra filippini sedicenni. Proprio in quel momento, trovo sul cellulare il messaggio del caporedattore che mi scrive “Si è ritirato, esci quell’articolo al più presto”.
Non è tanto l’uso transitivo del verbo uscire a provocarmi uno scossone, ma la consapevolezza che il momento era giunto, infine: a quarant’anni suonati, ventitré dei quali trascorsi da professionista della palla a spicchi, Manu Ginobili aveva detto stop. Dovete sapere che all’indomani del ritiro di Tim Duncan, altra leggenda e sodale in quel di San Antonio dell’argentino, Filippo Batisti si era assunto l’onere e l’onore di celebrarne le gesta su The Bottom Up. Gli accordi erano che il sottoscritto, per equità, avrebbe dovuto provvedere quando fosse giunto il ritiro di Ginobili. Ecco, ora che è il momento, mentre tutte le redazioni di ogni ordine e grado hanno già sfornato articoli in memoria delle sue gesta nelle arene di tutto il mondo, io non ho ancora pronto nulla.
Dopo essermi immerso in un furioso zapping su Youtube, per rivivere i colpi di genio di quello che non è soltanto il mio giocatore preferito, ma l’emblema di ciò che amo del basket, ho provato a segnarmi le prime cose che mi vengono in mente pensando all’asso di Reggio Calabria, Virtus e Spurs.
Eccole:
1) Il nuovo Sconochini?
Quando Ginobili arrivò a Bologna avevo dieci anni, giocavo a tennis, e non avevo la più pallida idea di cosa fosse la pallacanestro, se non per NBA Hangtime sul computer (sono modenese, perdonatemi). Non sono diventato virtussino in tempo per vedere l’argentino condurre i bianconeri alla vittoria di scudetto, Coppa Italia ed Eurolega nella stagione 2000/01. Ho ritrovato però alcuni articoli d’epoca in cui si parla di questo giovane talento che viene da oltreoceano.
Nel 1998, quando da Bahia Blanca Manu si trasferisce a Reggio Calabria per giocare nella storica Viola, a Bologna gioca il compatriota Hugo Sconochini – quello, per intenderci, che ora in telecronaca su Eurosport commenta ogni giocata con l’aggettivo “pazesco!”. Un giocatore, antesignano della generazione di talenti argentini, che ha avuto una solida e vittoriosa carriera in Italia, iniziata proprio da Reggio Calabria. Ma, con il senno di poi, nemmeno paragonabile con il palmares e i successi di Ginobili.
All’epoca però, del raffronto tra i due, Ginobili diceva:
“Hugo è mio amico, abbiamo diviso spesso la stanza nei raduni delle nazionali argentine, ma non mi sento ‘il nuovo Sconochini’, anche perché in campo abbiamo due modi di giocare abbastanza diversi. Di Hugo, invece, ripeterei il successo che ha ottenuto qui in Italia: giocare presto in A-1, contro le squadre più grandi, è il mio obiettivo principale”.
Vent’anni dopo, possiamo dire che l’obiettivo è stato superato, lo avrete già letto ovunque: campionato italiano, due Coppe Italia e un’Eurolega in due anni con la Virtus; quattro titoli NBA con gli Spurs; un oro e un bronzo olimpico, un argento mondiale; due ori, un argento e un bronzo ai campionati sudamericani.
Non che Sconochini abbia vinto poco anzi, avendo condiviso molti dei successi di Ginobili in Virtus e in Nazionale, aggiungendovi successi in terra spagnola. Ma il paragone, ora, non può che farci sorridere.

2) Le stoppate su Carlton Myers
Non me ne vogliano gli amici fortitudini (molti dei quali condividono con me una grande ammirazione per ciò che Ginobili ha fatto per il gioco), ma parlare dei suoi anni a Bologna non può che significare parlare delle vittorie nelle stracittadine di campionato, playoff e coppa. D’altronde Bologna era ancora Basket City, e dal derby non si poteva sfuggire.
Tutti, sotto le due torri, ricordano che Ginobili era arrivato in bianconero dopo che la società di Madrigali si era sottratta dall’asta per Andrea Meneghin, recente condottiero della nazionale italiana all’oro europeo in Francia. Ginobili sembrava insomma una sorta di ripiego, un secondo e terzo violino che avrebbe dovuto affiancare Sasha Danilovic, poi ritiratosi a sorpresa prima dell’inizio della stagione.
Il campo diede ragione alla Virtus, che sconfisse i cugini per 3-0 sia in semifinale di Eurolega che in finale scudetto. A contrastare Ginobili e soci, in canotta biancoblu, non fu però Meneghin ma Carlton Myers, che sarebbe poi stato portabandiera italiano alle Olimpiadi di Sydney. Un avversario di grande talento, per Ginobili, tanto che al termine di gara 3 di finale scudetto, i tifosi virtussini avevano concesso all’acerrimo rivale (reduce da una prestazione da 33 punti) una standing ovation.
In semifinale di Eurolega, Ginobili tenne una media di oltre 20 punti a partita, nei tre scontri con i cugini.
Nelle finali scudetto, l’argentino ebbe più difficoltà in termini di punti a referto (14 di media), ma ripagò i sostenitori con giocate di assoluta importanza, come la stoppata rifilata a Carlton Myers al termine di gara 2, scongiurando il canestro del meno 3 Fortitudo a un minuto dalla fine: lì la serie avrebbe potuto complicarsi significativamente.
Quella più nota, però, è questa, in gara 3. Ginobili salta sulla prima finta di Myers, che prepara il tiro da 3, ma l’argentino, da dietro, gli ruba palla e si invola verso una schiacciata.
Un ricordo, questo, che consente non soltanto di esemplificare le stagioni in canotta bianconera di Manu Ginobili, ma anche di sottolineare come, nel ruolo, abbia sempre dovuto affrontare avversari di altissimo livello: Carlton Myers di qua dall’oceano; Kobe Bryant, Dwayne Wade e recentemente James Harden. Tutti ugualmente stoppati, di atletismo, finché ce n’era, o di destrezza. Tutti ugualmente grandi campioni che hanno indirettamente contribuito alla grandezza del nostro.
3) Il gioco
A chi non ha avuto il privilegio di seguire assiduamente la carriera di Manu Ginobili, la domanda non può che sorgere spontanea: come si fa ad arrivare a quarant’anni ancora decisivi, nel campionato più atletico e competitivo del mondo, al punto da far sorgere a molti il dubbio che ancora un paio di stagioni di ottimo livello fossero possibili?
La risposta risiede in particolar modo nella grandissima intelligenza dimostrata dall’argentino nell’adattare il suo stile e il suo ruolo a seconda delle situazioni e delle varie fasi della sua carriera.
Ad inizio carriera italiana, i suoi allenatori ne descrivevano così le principali abilità: “Ha tante soluzioni diverse ed è anche avvantaggiato dal fatto di essere mancino. Ma ciò che impressiona di più è il grande controllo del corpo negli spostamenti laterali” (Gaetano Gebbia, allenatore Viola Reggio Calabria). Ettore Messina, l’allenatore che lo ha lanciato ad alti livelli in Virtus per poi ritrovarlo a fine carriera a San Antonio, commentava così: «Ha grandi qualità nell’uno contro uno e offensive in generale. […] Nella Virtus avrà l’occasione di spingere al massimo senza mordere il freno. Questo è il margine di miglioramento che gli rimane, ma è già un elemento di alto livello, con un grande senso della partita. E sa bene che chi aspira alla Nba deve vincere la concorrenza».
Se a Bologna, ventiduenne, Ginobili poteva abbinare ad una tecnica sopraffina e ad uno straordinario controllo del corpo, un atletismo debordante per l’Europa, in NBA tale vantaggio atletico veniva annullato da avversari anche più dotati di lui. A San Antonio si trovò indubbiamente circondato da altrettanti geni della pallacanestro che parlavano (tranne nel caso di Tim Duncan, lui non parlava mai) la sua stessa lingua, dunque un terreno fertile dove mettere a frutto la sua intelligenza (non solo cestistica) e la sua voglia di competere. Cominciava solitamente le partite dalla panchina, reinventando il ruolo del cosiddetto “Sixth man”, tanto da vincere il premio per il Sesto uomo dell’anno nel 2007. In altri termini, Ginobili era il primo cambio dei titolari, chiamato a mutare l’inerzia delle partite, guidando le seconde linee (specie la mitica “Foreign Legion” del 2014) per poi giocarsi, insieme ai migliori, i possessi decisivi. Se fino al 2011 l’argentino rappresentava uno dei terminali offensivi più prolifici della squadra (registrando 20 punti di media ai playoff di quell’anno, già trentatreenne), al calare dei minuti nelle sue gambe e all’estendersi della pelata sulla sua nuca, Ginobili cominciò a dedicarsi sempre più alla squadra, offrendo la sua esperienza e quell’altruismo che serve per rinunciare ad un buon tiro per sé per concederne uno migliore a un compagno.
Tutto ciò per dire che se e quando cercherete video su Youtube a corredo di queste parole, troverete certamente schiacciate, giocate “clutch” – cioè decisive, canestri impossibili, ma due sono i suoi marchi di fabbrica: il movimento chiamato eurostep e gli assist da lustrarsi gli occhi.
4) La Generaciòn Dorada
Se la carriera di Ginobili passerà alla storia, lo si deve alla sua capacità di vincere titoli NBA, Eurolega e titolo olimpico. Soltanto un altro giocatore ha conseguito questa straordinaria tripletta: Bill Bradley, che aveva militato nell’Olimpia Milano poi nei New York Knicks tra gli anni ’60 e ’70, mettendo al collo una medaglia d’oro a Tokyo nel 1964 (prima di diventare Senatore democratico del New Jersey per oltre vent’anni).
Avevamo già parlato su The Bottom Up, alla vigilia delle Olimpiadi di Rio, delle imprese di quella generazione di fenomeni di cui Ginobili fu il motore (e al contempo ne usufruì, come d’altronde accaduto alla Virtus e agli Spurs), dunque rimandiamo a quell’articolo chiunque volesse ripercorrere le vicende dell’unica squadra in grado di strappare il titolo olimpico agli Stati Uniti (stipati di stelle della NBA dal famoso Dream Team del 1992), dopo averli sconfitti in casa nel mondiale di Indianapolis del 2012.
Quello di Rio fu effettivamente l’ultimo tango per la Generaciòn Dorada: gli argentini vennero sonoramente sconfitti ai quarti dagli States e Ginobili, insieme al compagno di tante battaglie Nocioni, annunciò il ritiro.
Ciò su cui vale la pena riflettere però è la dedizione che il fenomeno di Bahia Blanca riservava alla maglia albiceleste, vestendola ogni estate (salvo infortuni da guarire) nonostante stagioni da quasi cento partite sulle spalle, un’età che avrebbe forse consigliato il riposo, e il diminuire delle possibilità di vittoria della séleccion, via via decimata dei suoi talentuosi veterani, sostituiti da giovani di scarse prospettive. Un atteggiamento, questo, diverso da quello di tante celebrità della palla a spicchi, anche nostrane. Tutto ciò denota non soltanto attaccamento alla maglia (quello che gli vale imperituro affetto nelle città dove ha giocato) e professionalità (per cui era stimato da tifosi e giocatori avversari), ma grande umiltà. Non troverete un’intervista in cui Ginobili esalti sé stesso, pur avendone ben donde, né testimonianze di compagni di squadra, nemmeno i carneadi del basket occasionalmente capitati sulla sua stessa panchina, che non ne elogino la disponibilità.
Certo, non stiamo parlando di San Francesco, sempre di sport professionistici per multimilionari si tratta, ma anche volendo andare sul gretto dato economico, è noto a tutti gli osservatori che in molteplici circostanze Ginobili avrebbe potuto monetizzare il suo talento in maniera ben superiore, rinunciandovi pur di rimanere a San Antonio e di consentire alla franchigia di progredire.
5) I Big Three più uno
I San Antonio Spurs selezionano Manu Ginobili con la cinquantasettesima e penultima scelta al draft 1999, compiendo quello che rimarrà agli annali come il più arguto “steal of the draft”. Quando arriva in Texas dopo i due anni a Bologna, l’argentino è l’ultima tessera del mosaico di quella che sarà la squadra più vincente degli anni a venire. Nelle sedici stagioni successive, i nero-argento vincono quattro titoli, qualificandosi ininterrottamente ai play-off; in particolare, Ginobili (uno dei soli sette giocatori NBA ad aver militato in una sola squadra) vince 762 delle 1352 partite disputate, risultando il miglior di sempre tra tutti coloro che hanno disputato almeno mille gare.
Se tutto ciò è stato possibile, lo si deve anche a Tim Duncan e Tony Parker, con cui compone il trio più vincente della storia NBA, e a Coach Gregg Popovich.
Ma l’eredità dei San Antonio Spurs non risiede soltanto nei trofei in bacheca, bensì nello stile di gioco, fatto di spaziature, passaggi, condivisione delle responsabilità, che ora è perseguito da numerose altre franchigie ora guidate da allenatori svezzati da Gregg Popovich, e nel modello di gestione della società – una vera e propria “cultura Spurs”.
L’apice di questa parabola è indubbiamente il titolo del 2014, conquistato ai danni dei Miami Heat, vendicando la bruciante sconfitta patita nelle finali dell’anno precedente. Con i propri Big Three nella fase discendente delle proprie carriere ed un astro nascente – Kawhi Leonard – da consacrare, gli Spurs misero in campo quello che fu poi definito “The Beautiful Game”, o come altri dissero “Basketball how it should be played”, portando agli estremi il proprio gioco fatto di altruismo e movimento della palla.
Qui la seconda parte.
Con il ritiro di Ginobili, si chiude definitivamente un’era. Tim Duncan aveva preceduto tutti appendendo le scarpette al chiodo al termine della stagione 2015/2016. Tony Parker invece ha lasciato a sorpresa il Texas proprio quest’estate, approdando ai più modesti Charlotte Hornets. Kawhi Leonard, che avrebbe dovuto raccogliere il testimone, è finito a Toronto, dopo una stagione con solo nove gare all’attivo ed un complicato e controverso recupero da un infortunio. A San Antonio nulla sarà più come prima. Tanti già speculano che, ultimo com’era stato il primo, anche Gregg Popovich dirà presto addio, e sarà forse Ettore Messina, allenatore di Ginobili a Bologna, a sobbarcarsi il peso di una difficile ricostruzione.
6) Il primo, l’ultimo e il più bel ricordo che ho di Manu Ginobili
Saranno quasi dieci anni che seguo Ginobili con costanza, mentre in precedenza la mia attenzione per la NBA era più saltuaria; forse soltanto dall’inizio dell’università, con i suoi bioritmi a dir poco flessibili, ho potuto permettermi di guardare tante (e spesso interminabili) partite, d’abitudine in replica ad orari consoni durante la stagione e in diretta notturna per i playoff. Non ho quindi vissuto direttamente la prima fase della carriera dell’argentino, e questo è il motivo per cui il primo ricordo che mi affiora di lui (oltre al videogioco NBA Live 2003 uscito in promozione in edicola, dove Manu era rappresentato piuttosto scarso e persino destrimano) è una copertina di Superbasket pubblicato all’indomani di gara 5 delle Finals 2005. Con gli Spurs e i campioni in carica dei Pistons appaiati, gara 5 giocata al Palace di Auburn Hills, Detroit, diventa decisiva. Vinsero gli Spurs, con una pioggia di triple di Robert Horry, veterano vincitore di sette anelli NBA tra Rockets, Lakers e Spurs. Quella che, a 5.8 secondi dal termine fissa il punteggio sul 96-95 finale, è su assist di un Ginobili con i capelli, addirittura lunghi. San Antonio si laureerà poi campione vincendo la serie a gara sette, e benché il titolo di MVP fosse andato a Tim Duncan, l’argentino fu il vero fattore di quella serie, terminata con 19 punti, 6 rimbalzi e 4 assist di media.
L’ultimo momento significativo che ricorderò è la serie di semifinale di Conference contro Houston dello scorso anno, quella culminata con la già citata stoppata decisiva di Ginobili su James Harden, in altri termini sul suo opposto (talento di primo livello, certo, ma individualista, avvezzo alle infrazioni di passi e difensore discutibilissimo). Quella partita, incerta fino all’ultimo, spostò l’inerzia del derby texano verso San Antonio, che poi si impose perentoriamente in trasferta in gara 6 guadagnandosi la possibilità di giocarsi le finali ad ovest contro i marziani di Golden State. In gara 1, ad Oakland, San Antonio parte fortissimo sorprendendo i futuri campioni, portando il proprio vantaggio oltre i venti punti poi, dopo un fallo su cui molto si è discusso, la stella degli Spurs Leonard si infortuna la caviglia, lasciando i compagni, già orfani di Tony Parker, in balia di Stephen Curry e soci. Con il senno di poi, quella è la fine dell’era Spurs, proprio nel corso di playoff che avevano alimentato, con fondate ragioni, inattese speranze di successo. Sicuramente, è stata l’ultima partita che ho visto in diretta.
Il ricordo più bello, invece, è la schiacciata di Ginobili su Bosh in gara 5 delle finali 2014: il punto esclamativo di una rivincita attesa un anno sui Miami Heat (che avevo raccontato qui) posto da un arzillo trentaseienne che da anni aveva distillato gesti atletici di quel tipo, per risparmiare le articolazioni – al punto da avere da tempo in corso una sfida di schiacciate con l’allora compagno Boris Diaw, un portento atletico francese soprannominato “The Buttered Baguette”, baguette al burro, per le sue rotondità.
Ecco dunque sei spunti, sei come il suo numero di maglia in Virtus (quello per cui mi sono sempre impuntato in tutte le mie stagioni di basket giovanile e amatoriale). Sei e non venti, come il numero indossato a San Antonio, benché tanti ancora avrebbero potuto essere, perché il conteggio parole supera le duemila e settecento e perché ci sono cose, di Ginobili, che non si riescono a descrivere. In campo, gli americani, abituati a fare statistiche su tutto, definiscono questa essenza indescrivibile come “intangibles”, e tanto più grandi sono i giocatori, tanto maggiori sono questi contributi di leadership, di esempio, di sacrificio che essi riescono ad offrire.
Più semplicemente, il sito degli Spurs, definisce tutto ciò come “Manu being Manu”, e questo basta.
Oggi a San Antonio è il Manu Ginobili Day, proclamato dal sindaco Ron Nirenberg.
Prendano nota a Bologna: ora che El Contusiòn è disoccupato, avremmo un mito da celebrare e una maglia da innalzare al soffitto del Paladozza.
Andrea Zoboli
Le citazioni delle interviste ai punti 1 e 3 sono tratte dall’archivio di Virtuspedia.it
Sottoscrivo tutto quello che hai scritto. Sto provando ad organizzare il Manu Ginobili Bologna Day il prima possibile (con il ritiro del numero 6). Sottoscrivi la proposta pubblicata su Facebook.
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