Quando la danza esce di scena: performance in urbano e filosofia della deviazione

Tutti abbiamo ben presente Emma Stone e Ryan Gosling che arrangiano quel complice tip-tap con vista spettacolare su Los Angeles, nella loro La la land. O in Dirty Dancing Baby e Johnny che perdono e recuperano l’equilibrio su un tronco pericolante, ballando, avanzando e arretrando, come due bravi schermidori. Una danza outdoors, se non propriamente di strada.

Eppure nessuno pensa che la stessa cosa ci potrebbe accadere guardando le strade delle nostre città, senza dover arrivare fino ad Hollywood.

E in effetti non è proprio la stessa cosa: su Baby e Johnny ad un certo punto cala il sipario; Mia e Sebastian, finita la loro “esibizione” escono dall’inquadratura salendo ognuno sulla propria auto.

Ma i performer – come chiameremo d’ora in poi quei danzatori impazziti che assaltano le piazze e gli autobus – non escono mai dall’inquadratura. Semmai si mescolano con il pubblico, o con la scenografia. Non si può parlare di scena: non c’è palco, né platea, né buio e luce. Solo un’informe (e informale?) massa di cittadini che continuano la loro telefonata, chiacchierata, spesa e quant’altro. Così i danzatori, dopo aver performato, diventano parte dello spazio che avevano invaso.

È proprio questo quello che fanno: invadono – rispettosamente – uno spazio, un’architettura. Escono dai teatri per intrufolarsi nelle vie del mercato o nelle piazze più sconfinate. “Importunano la gente sulle panchine”, per usare le parole di mio padre.

È come quella funzione di Facebook ormai dimenticata, il poke: quel messaggio asettico inviato a qualcuno più per stuzzicarlo che per comunicare, senza che ci sia un contenuto chiaro. Due concetti, il poke e la danza urbana, mai del tutto assimilati, ma che hanno resistito nel tempo proprio grazie a quest’aura indefinita e un po’ eccentrica che li circonda.

Periferico Festival Ph: Roberto Brancolini

Ma quando inizia questa storia?

Se tra Otto e Novecento i danzatori tendevano all’esotismo, alla fuga dalla città per ritrovare la propria identità in uno spazio incontaminato, dove poter riscoprire il senso della corporeità e del movimento individuale, a fine secolo il corpo danzante cerca un dialogo con la città: ricalca superfici, interroga le situazioni, interpreta le architetture, le traduce in gestualità. Dà una propria spiegazione della città e nello stesso tempo la provoca con insistenza.

“Nella danza urbana s’intrecciano provocazione antropologica e accettazione sociale; si sfida criticamente quella qualità della vita a cui, tuttavia, implicitamente si accetta di appartenere in pieno”, scriveva nel 2006 Eugenia Casini Ropa, docente di Storia della Danza e del Mimo all’Università di Bologna, su un opuscolo uscito per il decimo anniversario del Festival di danza urbana di Bologna.

È una filosofia della deviazione, innanzitutto perché l’atto performativo è eversivo, sceglie una strada diversa da quella ordinaria e ordinata del teatro. Come l’impressionismo ha avuto l’esigenza di uscire dagli atelier, portare con sé solo una tavolozza (è stato allora che sono nati i colori in tubetto portatili) ed esplorare la città da vicino, così la danza urbana viaggia leggera, con l’essenzialità del solo corpo danzante. Questo, paradossalmente, risalta più che sotto l’occhio di bue del palco, dove siamo abituati a vederlo e dove tendiamo quindi a lasciarcelo scivolare addosso, come qualcosa di prevedibile e ordinario.

L’artista di strada, invece, non scappa dalla città, non si mette in competizione con essa. Cerca piuttosto una composizione: non solo con lo spazio ma con lo stesso “pubblico”, che non si schiera di fronte allo spettacolo, separato da una linea fisica e di ruoli, ma viene invitato alla relazione con la performance.

In una città che nasce come spazio di aggregazione e di ri-unione, e dove ci si riduce spesso ad avere lo sguardo fisso al proprio personale obiettivo senza lasciarsi distrarre, ecco che i danzatori mettono i cittadini nella condizione di poter deviare, per concedersi un tempo per l’imprevisto.

Katachi wo koete a Bologna, grab da danzaurbana.eu

Certo, l’imprevisto è dietro l’angolo anche dalla parte dei performer, e fa parte del gioco. Le variabili indipendenti sono innumerevoli: il clima, la folla, la pavimentazione, il rumore… Per questo spesso le stesse ideazione e composizione del lavoro avvengono direttamente nel luogo dell’esito finale, tramite criteri site-specific, che permettono anche di costruire il lavoro sulla base delle proposte offerte dal quello che già c’è, lo spazio.

È quello che vediamo, per esempio, nei progetti di mappatura urbana, dove il compito è quello di osservare uno spazio, interpretarlo e infine rappresentarlo come in un sistema cartografico, ma utilizzando il corpo come strumento di cattura e di orientamento. L’esito sarà una “mappa corporea” che oltre al parametro spaziale può riprodurre anche quello temporale.

I punti cardinali del danzatore sono quindi selezionare e scegliere. La scelta continua è determinata anche dallo stesso imprevisto e costringe ad una consapevolezza corporea molto superiore a quella della pura e semplice esecuzione. La deviazione comporta una veglia e un’attenzione vigile al proprio movimento.

La danza urbana è veglia, ma anche resistenza. A Gaza, in Palestina, la danza popolare della dabka si carica di impegno politico: gli abitanti della striscia si sono riuniti per strada fino a qualche giorno fa, nel contesto della “marcia del Ritorno”, un’iniziativa popolare, pacifica e apartitica organizzata dall’Alto comitato per la fine dell’assedio.

Anche a Modena il Periferico Festival nasce da un’intenzione “politica” di portare una manifestazione di qualità in aree della città che stanno vivendo una profonda trasformazione sociale e urbanistica: le periferie industriali. L’edizione 2018 – che si è svolta dal 22 al 27 maggio – porta il nome e il tema di “Insolente”. Se uno degli scopi di un festival è la coabitazione temporanea, il portare tante persone tutte in uno stesso luogo, il titolo rivendica la possibilità dell’arte di raccontare il conflitto, che è parte integrante della relazione collettiva, dove non è tutto pacificato.

Anche il processo di rigenerazione urbana e riqualificazione della periferia non sempre è armonico: “Insolente” rappresenta tutto questo, attraverso la collaborazione e il dialogo con gli stabili ancora in uso e con quelli in disuso, utilizzati dagli artisti per le loro produzioni laboratoriali.

Danzare in città, ma soprattutto danzare con la città, dunque.

Finché una ragazza di origine araba, visitando Trieste, non viene spinta dal padre ad accompagnare un orchestrale sulla colonna sonora de Il favoloso mondo di Amélie. La deviazione, questa volta, porta all’incontro. Incontro di piedi nudi sull’asfalto, di locale e straniero, di seduto e in piedi, di corpo e musica.

 

Perchè chi perde tempo, diceva un saggio, guadagna spazi. E forse anche un po’ di danza urbana.

Rebecca Neri

Copertina: Gino Rosa

2 pensieri su “Quando la danza esce di scena: performance in urbano e filosofia della deviazione

  1. Che meraviglia. Difficile guardare uno spettacolo simile e pensare al lavoro che c’è dietro, ci si concentra sull’incanto, ancor più difficile dare questi spettacoli.

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