La classe operaia c’è ma non va in paradiso

Le trasformazioni del lavoro, la negazione di diritti universali, lo sfruttamento camuffato da formazione sono presenti in fin troppi aspetti dell’economia italiana. E costituiscono anche il cuore dell’ultimo lavoro della ricercatrice Marta Fana, Non è lavoro, è sfruttamento. L’autrice ne ha scelti alcuni, ma leggendo il libro riusciamo facilmente a ricondurli a tanti altri; i nomi cambiano, le mansioni variano un poco, ma la sostanza è la stessa. Uscito lo scorso 5 ottobre per Laterza, e dopo averne parlato con l’autrice stessa, vi presentiamo quindi ora questo pamphlet per tutti gli addetti al lavoro – sottopagato, sfruttato, gratuito.

Uno degli argomenti affrontati è la questione dei voucher, nome “fashion” dei buoni-lavoro impiegati principalmente nei settori in cui fino a poco tempo fa si concentrava principalmente il lavoro a chiamata. Solo nel 2016 sono stati venduti 133 milioni di voucher e hanno coinvolto più di un milione e mezzo di lavoratori, di cui il 40% sotto i quarant’anni. La precarizzazione del lavoro non è solo un fattore di instabilità microeconomica (del lavoratore), ma è anche un elemento che disinnesca la capacità dei lavoratori di incidere su scelte aziendali e organizzative del lavoro e, di conseguenza, alla partecipazione allo sviluppo economico del Paese. I voucher, scrive la Fana, non garantiscono alcun diritto, né per un’ora né per un anno di lavoro. Si paventa che l’eventuale abolizione dei voucher possa far abbattere sull’economia italiana tutti i mali immaginabili: migliaia di posti di lavoro persi, lavoro irregolare alle sue massime vette, l’impossibilità di regolarizzare masse crescenti di lavoratori. Con un trionfante “Abbiamo cancellato il lavoro nero!” la retorica dell’efficienza e della produttività ha favorito il lavoro povero (e no, ovviamente non ha cancellato del tutto il lavoro in nero). I voucher non offrono alcun tipo di copertura assicurativa, non garantiscono il rispetto di norme fondamentali, come che gli straordinari e il lavoro notturno siano pagati di più. Soprattutto, i voucher hanno dimostrato il potere del linguaggio: una volta aboliti nella loro prima versione ed evitato il referendum, si cominciano a preparare i PrestO. Com’era la storia della rosa che con un altro nome ha lo stesso profumo?

“Il precariato è la risposta feroce del capitale contro la classe lavoratrice” scrive Marta Fana. La responsabilità individuale è additata come ruota motrice di una generazione vittima di una solitudine sociale senza precedenti, talmente acuta da ghiacciare sul nascere anche la minima scintilla di conflitto. Al concetto di società si è anteposto quello di individuo. Il nuovo volto del lavoro non comprende più i lavoratori come corpo sociale aggregato e non racconta più storie di fatica, di scontro, di quotidianità periferica. Non si parla più di tredicesima, salari, organizzazioni di lavoratori: anche  gli stessi sindacati vengono narrati e descritti come un corpo estraneo e sostanzialmente inutile, organizzazioni che chi lavora seriamente deve evitare seriamente. La parola operaio è qualcosa di cacofonico e spiacevole, mentre abbondano gli anglicismi, strumenti del maquillage linguistico di una società che cambia e diventa sempre più “flessibile”. Ah, le magie dello storytelling.

L’operaio degli anni Settanta aveva orari fissi, tabella degli straordinari e della malattia, i pagamenti supplementari della diaria del trasfertista, il vitto e l’alloggio pagato, la formazione professionale e le ore di assemblea sindacale pagate, il diritto di sciopero e la possibilità di rivolgersi al sindacato per ogni problema contrattuale o per gli abusi padronali. Se la condizione dei dipendenti delle grandi aziende è ancora tutelata, il nuovo lavoratore, il tanto citato e ultra trendy Millennial, ha opportunità completamente diverse: stage, simil-volontariato, rimborsi spese da riscuotere al bar per vantare uno “stipendio” da quattrocento euro al mese. Soprattutto può vantarsi di essere flessibile.

È una questione di qualità, o di flessibilità? Secondo Marta Fana, la proletarizzazione di fasce crescenti della popolazione non può essere vissuta passivamente e accettata come qualcosa di naturale, soprattutto considerando che lavoro povero e sfruttamento sono la regola, non l’eccezione.
La deresponsabilizzazione delle aziende e della politica trova nel linguaggio, che ritrae il giovane lavoratore a partita Iva come un imprenditore in divenire, pimpante e sulla cresta dell’onda, un tipo molto smart e pieno di call di lavoro, un’immagine molto catchy e molto poco choosy. La retorica sul merito che corrode il collante sociale cerca di camuffare con il mito della scalata al successo il suo essere una narrazione che crea e giustifica le diseguaglianze.

Il mercato trova soluzioni a carico dei lavoratori anche alla frustrante solitudine lavorativa che ha creato: nascono gli spazi di coworking, dove con €15 al giorno i giovani collaboratori e le partite Iva, non coperti in caso di infortuni sul lavoro e senza tutele, possono (forse!) scambiare qualche parola a pagamento. Il concetto di condivisione viene messo a valore: il privato viene deresponsabilizzato, mentre i lavoratori si impauperiscono ulteriormente per uscire minimamente dall’atomizzazione e dall’alienazione del lavoro solitario. “Non esistono più le classi sociali” afferma trionfante qualcuno, e nel discorso pubblico l’appartenenza e il senso di collettività si liquefanno in un vuoto di senso di colpa, inutilità e mito della competizione.

Se aumentano le famiglie di lavoratori in condizioni di povertà, la classe operaia di certo non è scomparsa, ha solo cambiato nome, perché la parola “operaio” evoca tute sporche di grasso, povertà, fatica, ma anche un deciso senso di appartenenza. “Un pezzo un culo, un pezzo un culo!”, diceva Lulù. Sicuramente nemmeno la classe operaia degli anni Settanta andava in paradiso, ma almeno non era incastrata nel mercato usa e getta del lavoro precario, senza cultura collettiva, senza identità, riconoscimento, integrazione. Soprattutto, scompare dalla cinematografia, dalla letteratura, dal discorso quotidiano e dalla narrazione collettiva e in questo senso “non esiste più”: ha perso il suo protagonismo a favore del mito della scalata sociale e imprenditoriale. Non è possibile riappropriarsi dell’identità senza riappropriarsi del linguaggio, operazione particolarmente complessa in un momento in cui alla generazione che dovrebbe farsi carico delle conseguenze della crisi economica e delle sue conseguenze è stata cucito addosso la patina appiccicosa e colpevolizzante di “choosy”. Michel Martone, ex vice ministro della Fornero, ritrova in toto i problemi dell’Università italiana nell’ingerenza dello Stato, chi non può lasciare casa dei genitori perchè mancano le risorse economiche è “uno sfigato”. Non essere grati per un lavoro, per quanto sottopagato e rasente allo schiavismo è una colpa, qualcosa di cui vergognarsi, come sprecare il cibo.

Un altro settore scelto dalla Fana come esemplare risultato della trasformazione industriale è quello della cosiddetta logistica. La logistica, vale a dire la movimentazione delle merci, è il momento in cui il capitale produttivo aggiunge valore ai prodotti, tanto a causa del mezzo di trasporto quanto per il lavoro di trasporto. I processi produttivi sono stati frantumati dalla trasformazione industriale degli ultimi trent’anni, in particolare dall’esternalizzazione, dall’affidamento a terzi delle attività a “basso valore aggiunto”. Lo stoccaggio e i trasporto attraverso le catene di appalto rientrano appieno tra le attività che le società sono state ben felici di alienare.
Le grandi aziende mirano a minimizzare i costi della distribuzione dei propri prodotti, le imprese che operano nel mercato della logistica agiscono per massimizzare i propri profitti (e quindi, di conseguenza, a minimizzare i costi). E visto che il carburante dei mezzi ha un costo fisso, fra i due litiganti ci rimettono i lavoratori, schiacciati dall’intensificarsi dei ritmi di lavoro, il caporalato e i contratti che rasentano la servitù della gleba, con settimane lavorative di sessanta ore. Se si parla fin troppo dei disagi dei consumatori, quello che passa sotto silenzio è il disagio dei lavoratori, che svolgono turni massacranti e vivono sotto ricatto.

Le storie di lotta vengono stravolte dalla narrazione dominante, televisiva e giornalistica: Scontri fra operai e polizia è il titolo tipico per minimizzare il conflitto che brucia e avanza. Il “sacrosanto diritto delle aziende a fare utili”, quando non stravolge i racconti dei lavoratori, è la scusa per insabbiare somministrazione fraudolenta di forza lavoro. La reazione padronale esacerba il ricatto e la frantumazione tra operai, come nel caso della sede della Coca Cola di Nogara, dove i lavoratori più attivi sul piano sindacale sono stati licenziati. Anzi, dove l’azienda madre ha scelto di licenziarli, perché questo mercato del lavoro non è una condizione pre-esistente e naturale, come una calamità, ma il logico risultato di scelte economiche ben precise. Scelte economiche, ma soprattutto politiche, perché la politica è una scelta di campo, a seconda della parte dalla quale decide di stare, le condizioni della maggioranza cambiano.

Non è lavoro, è sfruttamento è quanto più lontano possibili dall’accademica e fredda raccolta di dati a cui siamo abituati. È piuttosto un bollettino dal fronte, un diario di bordo di incidenti, infortuni, licenziamenti e, soprattutto, abusi. Non conosciamo Chiara, Michele, né tutti gli altri lavoratori di cui si parla nel libro, ma ci immergiamo nella vite di precari e disoccupati che l’autrice ha incontrato in tutt’Italia, solidarizzando e riconoscendoci, perché, nonostante i tentativi di mettere a tacere le proteste, qualcosa si muove.

Sofia Torre

Fonte immagine di copertina: Giornalettismo.com

Un pensiero su “La classe operaia c’è ma non va in paradiso

  1. Interessantissimo pezzo… soprattutto sottoscrivo a pieno la critica all’anglicizzazione della politica e del lavoro usata per verniciare di nuovo il nulla, o forse peggio: la perdita dei diritti, per cui invece di sfruttamento si dice usfemisticamente gig economy, e le agenzie di collocamento sono ribattezzate job center… Un saluto.

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