Forse non potrò mai comprare una casa in centro a Bologna e la colpa è di…

Quanti di noi sognano di poter comprare un’abitazione propria, magari per poter andare a vivere con la dolce metà e arredarla secondo i propri gusti. Questo è quello che con cadenza settimanale succede a me e alla mia compagna, dove io, con molta razionalità, guardo le case che potrebbero rappresentare un buon investimento per il nostro futuro e lei, ancora più razionale di me, ne guarda i prezzi per capire come il mercato immobiliare stia reagendo. Guardate cari lettori, lei non è laureata in economia, ma una cosa in cui a buona ragione crede è che il prezzo delle case sia un buon indicatore di ripresa economica. E a dire il vero non ha tutti i torti. Difatti molti economisti utilizzano i prezzi del mercato immobiliare per capire se l’economia di un determinato Paese sia o meno in stallo, sia ripartita o, invece, tenda a decrescere: la gente, infatti, può aver bisogno di soldini cash e, a quel punto, vende o svende la propria abitazione facendone crollare i prezzi. Solitamente questo avviene in momenti di crisi come quello che noi, speriamo ancora per pochissimo, stiamo vivendo.

L’altra sera un dato ha sconvolto la nostra esistenza: sul sito di immobiliare.it, uno dei tanti aggregatori di offerte presenti sul web, abbiamo avuto modo di constatare che il prezzo delle case a Bologna durante il mese di aprile 2017 (l’ultimo disponibile) ha subito un’impennata anomala (parliamo del prezzo richiesto da chi vende). Comportamento del prezzo questo che, a dirla tutta, segue un altrettanto trend in crescita già da Ottobre 2016.

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Fonte: immobiliare.it

Un po’ contenti, per la ripresa dell’economia (almeno a Bologna), e un po’ scioccati, perché tale aumento dei prezzi indica che una casa a Bologna forse non potremo mai comprarla, decidiamo di metterci a dormire senonché, qualche giorno dopo, prendo parte al Festival I.Ta.Cà. – Migranti e Viaggiatori. Durante l’incontro si susseguono gli ottimi interventi dei vari speaker, ma ad un certo punto la discussione si fa più interessante (almeno per me). L’oggetto è proprio il prezzo delle case a Bologna.

Per chi non lo sapesse, Bologna, ormai da qualche anno, sta puntando a rivedere la sua immagine di città turistica e, se proprio devo essere sincero, tale strategia sta funzionando: un’indagine citata su Repubblica ha mostrato che nel 2016 i pernottamenti sono cresciuti quasi del 12% rispetto all’anno precedente e che, di questi, 1,21 milioni sono stranieri. Da notare che per la prima volta questi hanno superato gli italiani, che si fermano a quota  1,18, con un incremento, comunque, del 8,6%. E si stima che il trend sia in costante aumento anche per l’anno in corso.

Ecco, proprio qui sta il nodo della questione: i pernottamenti. Da qualche anno a questa parte, i turisti di tutto il mondo, e anche i comuni cittadini, hanno conosciuto la sharing economy e le piattaforme quali Airbnb che consentono di mettere in condivisione il proprio alloggio in modo facile e veloce. Gran bazza questa, come direbbero i miei amici bolognesi, se non che questo modo di fare sta diventando un vero e proprio business.

Parliamoci chiaro, a chi non farebbe comodo, con i tempi che corrono, condividere per qualche giorno il proprio appartamento? Sistemi casa, dai una pulitina ed il gioco è fatto: il mese è arrotondato. Ma cosa accade quando questo diventa un vero e proprio business?

Economicamente parlando, i centri storici delle città come Bologna presentano un’offerta di abitazioni fissa: non vi è consentito, a meno di casi particolari, costruirne di nuove. Questo rende l’offerta estremamente rigida e quando, per contro, la domanda di abitazioni inizia a crescere, il loro prezzo segue l’andamento della domanda stessa in virtù di quella che Adam Smith ha definito  la mano invisibile. Ma data la possibilità offerta dalla sharing economy, se si diffonde la convinzione che una città sta crescendo da un punto di vista turistico e che, di conseguenza, la domanda relativa ai pernottamenti crescerà, tutti (o almeno chi ne ha la possibilità) inizieranno a comprare una o più case per poterci lucrare. Il gioco così diventa surreale: i prezzi delle case aumentano e chi cerca un alloggio per poterci vivere non lo trova perché la città perde di capacità abitativa a scopo civile e acquisisce capacità abitativa a scopo turistico. A riprova di questo, sarà stata la corsa dei giovani verso Bologna che ha una delle migliori università d’Europa o sarà stata l’occasione turistica che qualcuno non vuole perdere, ma quest’anno è stato davvero difficile trovare una stanza in affitto in centro. Durante l’incontro “La fine del turismo (come l’abbiamo conosciuto)! Confronto sul contributo dell’home sharing all’offerta turistica metropolitana” tenutosi alle Serre dei Giardini Margherita in occasione di I.Ta.Cà., Matteo Lepore (Assessore all’Economia e alla Promozione della Città) ha parlato di circa 2500 annunci (misti fra stanze e appartamenti) del centro storico (e 5000 in totale) che a Bologna vengono sponsorizzate su piattaforme digitali a scopi turistici, abitazioni queste che sono sottratte dalla capacità abitativa del centro storico e di tutta Bologna (da notare che questi dati non sono ufficiali, ma derivano da stime fatte da chi sta studiando il fenomeno – le stime sono dovute al fatto che tali piattaforme non condividono i dati in loro possesso).

Sebbene questa nuova forma di business tramite piattaforme di sharing economy stia facendo la fortuna di novelli property manager che decidono sempre più di trasformare un hobby in una vera e propria professione (visti i tempi che corrono), il problema più grave sembra essere legato alla gentrificazione di questi luoghi.

Il termine gentrificazione, traduzione dell’inglese gentrification che deriva da gentry (piccola nobiltà inglese), è un termine coniato negli anni 60 dal sociologo Ruth Glass per descrivere una serie di mutamenti fisici e sociali dei quartieri popolari delle città a seguito di un afflusso massiccio di nuovi soggetti provenienti dalla classe media. Difatti, questo è uno dei temi principali di chi oggi si scaglia contro le piattaforme di sharing: l’identità urbanistica del quartiere si modifica perché le abitazioni iniziano ad essere modificate per tener conto delle esigenze di chi verrà ospitato. Gli effetti distorsivi non riguardano solo l’architettura delle abitazioni, ma anche i loro prezzi che, come già accennato prima, prendono il volo. Ma sebbene questo possa sembrare alquanto tollerabile, il vero problema sorge nel momento in cui gli effetti di tutto ciò iniziano a riverberarsi sulle attività commerciali. Se un quartiere viene invaso dai turisti, allora sarà proprio il commerciante che meglio saprà cogliere i bisogni dei nuovi “abitanti” che vedrà aumentare i propri profitti. Le attività tradizionali, che solitamente sono costituite da piccoli commercianti, saranno messe in difficoltà per una serie di motivi (affitti più alti, riduzione della domanda, etc.) che li costringeranno a chiudere e ad abbandonare il quartiere, a meno che questi non riescano ad adeguarsi alle nuove esigenze. C’è anche da dire che gli effetti non sono solo negativi: in molti casi si registra una riduzione dei tassi di criminalità in quel quartiere (anche se poi si potrebbe obiettare che i criminali da qualche altra parte andranno) e un aumento dei servizi alla collettività, ma il problema maggiore rimane il venir meno dell’identità di un luogo per far posto ad una nuova identità puramente commerciale. Questo è un po’ quello che è accaduto a Venezia dove gli abitanti sono diventati ospiti della loro città che ormai sembra essere popolata da orde di turisti. La città ha smesso di rispondere alle esigenze dei propri cittadini e ha iniziato a modificare la propria identità urbanistica per scopi commerciali (proprio come avveniva quando la città era la più grossa potenza marittima del mondo).

Non voglio demonizzare qualcosa che a me sta molto a cuore e cioè la sharing economy, ma c’è da tener conto che i cambiamenti tecnologici alla base di queste piattaforme sono un po’ come un coltello, tutto dipende dell’uso che se ne fa: se utilizzo un coltello per sbucciare una mela, è un conto, ma conficcarlo nello sterno a qualcuno è condannabile. Per questo, mi sento di difendere chi utilizza queste piattaforme per condividere un’esperienza e forse anche la stanza di una casa per sopperire ad una mancanza di reddito momentanea, ma il farlo diventare un vero e proprio business potrebbe minare la stabilità di interi centri storici cittadini, mettendo a repentaglio gli usi e le tradizioni ad essi collegati. Ecco perché da più parti si chiede ad alta voce una regolamentazione di tali strumenti, regolamentazione che non vada a punire chi ha voglia di condividere per il puro piacere di farlo, ma vada a limitare lo spazio di azione di chi, sfruttando un vuoto normativo, cerca di arricchirsi alle spalle di un settore che in Italia ha delle regole ben precise.

Sia chiaro, io non sono contro tali piattaforme che, anzi, in un certo senso credo siano il volàno per alcuni territori che finora non hanno mai potuto contare su una volontà politica tanto forte da rendere il turismo in Italia una delle principali fonti di reddito. Ma questi fenomeni, come tutti quelli di natura sociale, devono essere gestiti e governati per evitare che la situazione sfugga di mano. Ne va della nostra identità, della nostra cultura e della nostra socialità e anche se qualcuno potrà ribattere che questi cambiamenti sono sempre avvenuti nel corso della storia e che la nostra identità deriva anche da questi, a me quello che spaventa è la velocità con cui stanno avvenendo.

Ora, tornando all’affermazione lasciata in sospeso nel titolo: forse non potrò mai comprare una casa in centro a Bologna e la colpa, sotto sotto, è un po’ di tutti.

Niky Venza @NikyVenza

Fonte immagine in evidenza: jsh-hotels.com

3 pensieri su “Forse non potrò mai comprare una casa in centro a Bologna e la colpa è di…

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